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 2016  aprile 24 Domenica calendario

ELOGIO DEL SEGRETO: MEGLIO TACERE CHE MENTIRE

A Copenaghen, nel 1910, durante la II Internazionale, Lenin sostenne l’abolizione della diplomazia segreta. Non so se, una volta giunto al potere, abbia messo in pratica questo dettato. Certo è che disattese, come molti potenti, le convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907. A che può servire tuttora la diplomazia se spesso si è rivelata una parola vuota?
Piero Campomenosi

Caro Campomenosi,
Qualche anno fa, per una delle sue Milanesiane (la manifestazione milanese di cui è responsabile), Elisabetta Sgarbi mi chiese di parlare del segreto. Questi sono alcuni degli argomenti con cui ho cercato di trattare il tema che mi aveva proposto.
Quando conquistò il potere, dopo la rivoluzione d’Ottobre, il partito bolscevico trovò nelle casseforti del governo zarista tutti i trattati segreti con cui la Francia, la Gran Bretagna, la Russia e l’Italia si erano accordate per spartirsi i frutti della vittoria. I trattati furono pubblicati dalla Pravda del 22 novembre 1917, rimbalzarono sulla stampa occidentale e misero in grande imbarazzo i governi alleati. Qualche settimana dopo, l’8 gennaio 1918, il presidente americano Woodrow Wilson pronunciò un discorso al Senato degli Stati Uniti in cui elencò i 14 punti che avrebbero dovuto regolare, dopo la guerra, la convivenza internazionale. Nel primo punto auspicava «pubblici trattati stabiliti pubblicamente, dopo i quali non vi sarebbero più state intese internazionali particolari di alcun genere, ma solo una diplomazia franca e pubblica».
Alla fine della Grande guerra, quindi, Lenin e Wilson, il dittatore del proletariato e il leader di una grande democrazia occidentale, avevano una stessa convinzione: che il miglior modo per assicurare al mondo la pace fosse quello di trattare le questioni internazionali alla luce del sole senza infingimenti, riserve mentali, reticenze, ambiguità, protocolli segreti.
I governi continuarono a fare esattamente quello che avevano fatto prima e il segreto continuò a essere lo strumento indispensabile di qualsiasi trattativa. Ma tutti capirono che la pubblicità, dopo l’ingresso delle masse nell’arena politica, era ormai un idolo a cui bisognava tributare i dovuti omaggi. Nacquero così i ministeri della Propaganda, gli uffici stampa, i portavoce, gli enti e le persone che avrebbero dovuto raccontare al popolo la «verità». Questo accadde con particolare efficacia nei regimi totalitari, dove i cittadini non erano autorizzati a fare domande, ma anche, in modo un po’ meno volgare, nei regimi democratici. L’effetto di questa diplomazia-verità fu quello di aumentare esponenzialmente il numero delle bugie e di quelle mezze bugie eleganti che sono la reticenza, l’ambiguità, l’allusione, l’ipocrisia. Non si è mai tanto mentito al popolo, nel mondo della politica internazionale, come dal giorno in cui Lenin e Wilson sostennero che occorreva dire ai popoli soltanto la verità.
A questo popolo occorre dire invece che il segreto è l’indispensabile ingrediente di qualsiasi negoziato. Non si possono fare le guerre mettendo sul tavolo tutte le proprie carte. Non si possono fare trattative politiche in streaming sotto gli occhi delle telecamere e la luce dei riflettori. La trasparenza desiderata dal popolo degli indignati avrebbe il paradossale effetto di moltiplicare il numero delle menzogne. Quale sarebbe l’utilità di un dispaccio diplomatico se l’ambasciatore a cui viene chiesto di giudicare le condizioni di salute del Paese in cui è stato inviato, temesse di leggere se stesso il giorno dopo su un blog o su un giornale? Soltanto il segreto garantisce agli interessi di esprimersi liberamente e alle parti di conciliarli con un onorevole compromesso. E l’interesse, come diceva il duca di Marlborough, antenato di Winston Churchill, non mente mai.