Alessia Pedrielli, Libero 24/4/2016, 24 aprile 2016
QUELLI CHE «RESTITUISCONO» I FIGLI ADOTTATI
I bambini adottati, se per qualche motivo non vanno bene, possono essere restituiti, senza pagare penalità. Anche se te lo sei andato a prendere nel più sperduto angolo del mondo, nessuno ti può obbligare a tenertelo. Scadenze non ne hai. Puoi anche decidere di riportarlo indietro quando è quando è grandicello. Anzi, di solito, funziona proprio così, perché l’adolescente che ti manda a quel paese, che marina la scuola, si fuma le canne e magari scappa pure di casa è già difficile da sopportare se è un figlio tuo... se è di altri, che torni da dove è venuto.
Pioveranno critiche perché il bon ton vuole che dei fallimenti adottivi, se proprio se ne deve parlare, se ne parli con i guanti «che sono storie delicate, di sofferenza», dicono, «per queste famiglie distrutte dal dolore». È sempre difficile crescerli, certo. E «a volte per questi bimbi i traumi subiti sono così profondi che stabilire un legame familiare non è più possibile», spiegano gli esperti. Più spesso, però, la verità è che vengono restituiti semplicemente perché «non corrispondono alle aspettative che i genitori si erano creati».
I NUMERI
Di numeri ufficiali a livello nazionale non ce ne sono. O meglio, non sono pubblici. Di raccogliere i dati si occupa l’Istitiuto degli innocenti di Firenze che svolge ricerche per il Ministero delle politiche sociali e per la Commissione adozioni internazionali. Però, poi, le informazioni si fermano lì. L’ultima pubblicata risale al 2003. Per capire la portata del fenomeno, allora ci si affida alle percentuali confermate dagli operatori del settore: tra il 2,5 e il 3% dei bimbi adottati viene rispedito al mittente dopo qualche anno di convivenza. In Italia le adozioni a partire dal 2005 sono state circa 50mila, si parla di 1500 creature rifiutate negli ultimi dieci anni. E potrebbe essere una stima per difetto. La Regione Emilia Romagna ha registrato nel 2014 un tasso di fallimento delle adozioni pari al 7,1%. E i bimbi restituiti a partire dal 2006 sono stati 66. Qualche dato c’è anche per Milano: il Tribunale per i Minori parla di 44 fallimenti adottivi tra il 2003 e il 2010, pari a circa l’1 per cento degli adottati (fonte Aibi), mentre in Veneto dal 2002 al 2005 sono stati registrati complessivamente ventuno casi di fallimento (da «Le crisi dell’adozione», Regione Veneto). È chiaro, dunque, che non si tratta di sporadiche evenienze, ma di percentuali, destinate a crescere man mano che i bimbi adottati nel boom degli anni ’90-2000 diventano adolescenti.
COME FUNZIONA
Di solito si comincia con le «crisi adottive»: i genitori si rivolgono ai servizi perché i problemi sono insormontabili e il ragazzo finisce in struttura per un po’, in attesa che si calmino le acque. Spesso, però, le «crisi adottive», ripetute, preludono al fallimento e, ad un certo punto, la coppia chiede che il bambino venga allontanato.
Raramente si arriva alla revoca della patria potestà, più spesso si opta per un attenuamento della stessa, ma se la famiglia non è più intenzionata ad occuparsi del ragazzo il Tribunale determina un nuovo stato di adottabilità. E il giro ricomincia.
PERCHÉ ACCADE
«Il problema di fondo sono le aspettative dei genitori, che arrivano all’adozione dopo un percorso fallito di procreazione, nel tentativo di riempire un vuoto», spiega Patrizia Meneghelli, responsabile della struttura complessa Area Famiglia dell’Ausl 20 di Verona «e inevitabilmente hanno attese emotive esagerate». Dall’altra parte, invece, ci sono bimbi che «hanno subito l’abbandono, che hanno vissuto per strada, che ne hanno viste di tutti i colori spiega ancora Meneghelli o che magari hanno subito violenze e abusi». Bambini difficili dunque, perché traumatizzati, chiusi, arrabbiati con la vita, che poi diventano adolescenti «impossibili». «È nell’adolescenza che scoppiano le crisi più importanti: i ragazzi vanno male a scuola, assumono atteggiamenti aggressivi , a volte devianti» e spesso per le ragazze arrivano gravidanze inattese. «Ed è qui che la coppia, di solito, chiede di rinunciare». «Il consiglio è uno solo: non rimandare. I problemi che si riscontrano durante la prima infanzia: problemi scolatici, difficoltà di adattamento, cattivo carattere, non sono segni che vanno sottovalutati. Bisogna farsi aiutare, subito dagli esperti», aggiunge Meneghelli. «I bambini abbandonati sono bambini danneggiati, bisogna aiutarli a riparare. Ed è sempre un percorso difficile».
IL DOPO
Dopo? Tutto finito. Il ragazzo torna in istituto e lì rimane, fino al compimento dei 18 anni, con notevoli disagi. Non è più nel paese d’origine, non ha legami con nessuno e quasi sempre diventa un adulto con dipendenze da alcol e droghe. E, a sua volta, un genitore che abbandona. «Quando questi bambini rinunciati diventano a loro volta genitori quasi sempre hanno bisogno di aiuto spiega ancora Meneghelli perché manifestano a loro volta segni di abbandono verso i propri figli».
Due storie per tutte, per capire cosa scatta, a volte, in chi adotta, sono raccontate dai referenti di centri che si occupano di adozioni, dei quali, volutamente, non riportiamo le generalità.
Mamma e papà perfetti: lei psicologa, lui psichiatra. Ottengono subito l’idoneità per l’adozione. Chi meglio di loro, infatti, potrà essere genitore? Accolgono un bimbo da un paese asiatico. È timido, chiuso, parla poco. All’inizio sembra solo spaesato, ma poi dopo qualche mese i due si accorgono che qualcosa non va. Forse un lieve ritardo. I genitori adottivi non si danno pace, vogliono sapere che cosa ha questo bambino e danno così il via ad un vero e proprio tour de force tra i medici e specialisti, con visite di tutti i tipi per avere una diagnosi. Che non arriva. Anzi il bimbo, sottoposto a sua volta a stress, peggiora. Dopo cinque mesi in casa il piccolo, di circa sette anni, torna in istituto, rinunciato, respintoe quindi di nuovo adottabile.
Una famiglia bene, città del nord, professionisti: adottano una bimba brasiliana che risponde alle aspettative e diventa la bimba modello: non li mette in discussione come genitori, si impegna a scuola, obbedisce è affettuosa. La coppia decide di ripetere l’esperienza e adotta un altro bambino, questa volta dall’est Europa. Il bimbo ha subito traumi pesanti e ben presto mostra problematiche difficili da affrontare: crisi di rabbia, violenza, autolesionismo. Inoltre è omosessuale. La famiglia entra in crisi: la prima figlia rifiuta il fratello, fonte di guai e tensioni. Tutti vorrebbero ritornare alla quiete di quando lui ancora non c’era. E così accade: il ragazzino rientra in comunità.