Danilo Taino, Corriere Economia 25/4/2016, 25 aprile 2016
VOLKSWAGEN VOLTA PAGINA CHIUDE LO SCANDALO DIESEL, MA SERVE UNA VERA GOVERNANCE
Più passano le settimane, più risulta chiaro qual è il grande problema della Volkswagen alle prese con lo scandalo delle emissioni dei suoi motori diesel: il sistema di governance e la conseguente cultura della società. Una combinazione di opacità di comando, di sovrapposizione di ruoli e di accordi tra azionisti, manager, politici e sindacati che si davano e si danno manforte per sostenere i loro interessi e le loro carriere. Risultato: non solo la perdita di controllo che ha provocato l’incredibile scandalo; ora, anche l’incapacità di produrre una svolta, di cambiare registro, con rischi e costi enormi, come si è visto nei giorni scorsi con l’annuncio del primo bilancio in rosso dal 1993.
La denuncia
Ad aprire le finestre su questa struttura collusiva di gestione sono, come capita quasi sempre, gli americani. Non solo hanno scoperto il trucco attraverso il quale la casa di Wolfsburg imbrogliava sulle emissioni: un software che non le registrava correttamente su strada. Ora, le autorità – il dipartimento della Giustizia di Washington e altre – decideranno che multa dare alla Volkswagen, dopo che il gruppo ha accettato di ritirare fino a 480 mila auto negli Stati Uniti, per un costo ancora non chiaro ma pare nell’ordine di oltre dieci miliardi. Per la multa è questione di settimane, probabilmente.
Il guaio è che il gruppo tedesco ha fatto il contrario di quel che doveva, per limitare i danni. Il settimanale tedesco WirtschaftsWoche ha parlato con alcuni avvocati che tra il 2006 e il 2008 assistettero la Siemens in una situazione simile, nata da episodi di corruzione. Avvocati che nei mesi scorsi pare siano stati interpellati anche dalla Volkswagen, la quale ha poi però fatto altro. I legali sostengono che, di fronte alle autorità americane, per limitare la multa è decisivo mostrare cambiamento e, in qualche modo, rimorso.
Pochi giorni dopo l’emersione dello scandalo, il vertice del gruppo automobilistico tedesco ha in affetti licenziato il Ceo Martin Winterkorn. Poi, però, ha nominato al suo posto Matthias Müller, che al momento dello scandalo era da anni capo del Product Management del gruppo e numero uno della divisione Porsche. E ha poi promosso in posti chiave molti insider. L’ex capo della finanza del gruppo, Hans Dieter Pötsch, è diventato presidente del consiglio di sorveglianza. Manfred Döss, numero uno dell’ufficio legale, è ora colui che si occupa delle questioni legate alle multe e alle cause intentate dai clienti. Ulrich Eichhorn è stato per anni il responsabile dell’industria dell’auto tedesca che ha cercato di attenuare i controlli sulle emissioni; ora è il nuovo capo dei progetti innovativi della Volkswagen. La «nuova partenza» promessa da Wolfsburg non si è vista. E agli americani questo sta facendo una pessima impressione, dicono gli avvocati della Siemens. Non solo. Quando, in dicembre, Müller è stato in America, più che mostrare senso di colpa per avere imbrogliato è sembrato arrogante (anche se non voleva). A chi gli chiedeva se si sarebbe inginocchiato davanti alle autorità di controllo americane rispose «non credo». Intanto, è emerso che il primo passo che ha poi portato al cosiddetto Dieselgate è stato mosso all’Audi, non alla Volkswagen.
L’antefatto
Nel 1999, infatti, la divisione Audi si pose il problema di come affrontare l’inasprirsi delle regole sulle emissioni. Tra le soluzioni studiate, anche il software dell’imbroglio. La Audi poi lo escluse e mai lo utilizzò. Il meccanismo, però, fu ripreso anni dopo dalla Volkswagen che lo montò sulle sue vetture. La cultura che ha portato allo scandalo era insomma più diffusa nel gruppo di quanto si potesse pensare. E della presenza del software erano probabilmente a conoscenza in parecchi. Il risultato è che il costo per il gruppo, alla fine, potrebbe essere, tra ritiri di auto e multe, superiore ai 40 miliardi di euro.
La discussione
In più, il dibattito di questi giorni è imbarazzante. Per l’anno 2014, i top manager del gruppo guadagnarono 70 milioni di euro, 54 dei quali in bonus. Ora, da settimane la discussione è se tagliare i bonus 2015 del 30 o del 50%, ai capi che erano al vertice mentre l’imbroglio si sviluppava e che hanno guardato il valore del gruppo Volkswagen crollare in Borsa. Il sistema che ha assimilato l’idea per la quale chi è al vertice non paga, grazie alla governance del gruppo, è vivo e vegeto.
Il fatto è che tutto ciò è approvato da un vertice nel quale i protagonisti da sempre formano un clan che esclude estranei e trasparenza. Le famiglie Porsche e Piëch, maggiori azionisti, governano nella quasi pace sociale assieme al sindacato, che occupa metà dei posti del consiglio di sorveglianza; al management che in cambio di poltrone fa favori a tutti, come nel 2005 quando corrompeva, prostitute comprese, i rappresentanti dei lavoratori; al governo della Bassa Sassonia che ha un diritto di veto sulle decisioni strategiche e rilascia via libera in cambio di favori politici. Con l’appoggio di tutti i partiti nazionali, i quali adorano l’industria dell’auto tanto da non controllarla(ora sono in difficoltà sulle emissioni anche altre case, a iniziare da Daimler). Una governance che si sta rivelando costosissima, per tutti gli altri.