Alessandro Milan, Libero 25/4/2016, 25 aprile 2016
«ENTRO IN SENATO, NON ALLO STADIO LA MIA VITA DA ULTRÀ MALEDETTO» [Claudio Galimberti] – «Chiamami tra dieci minuti, sono su un tiglio a lavorare»
«ENTRO IN SENATO, NON ALLO STADIO LA MIA VITA DA ULTRÀ MALEDETTO» [Claudio Galimberti] – «Chiamami tra dieci minuti, sono su un tiglio a lavorare». Se dici a Bergamo Claudio Galimberti, giardiniere, non tutti lo conoscono. Se invece dici «il Bocia», capo ultras dell’Atalanta, tutti sanno di chi parli. Galimberti due settimane fa è stato relatore a una conferenza stampa su come rilanciare il tifo negli stadi italiani. Conferenza che si è tenuta nel tempio delle istituzioni: il Senato. I giornali l’indomani hanno sottolineato che lui, entrato dalla porta principale di Palazzo Madama, da anni non può mettere piede in uno stadio perché diffidato, ha una condanna in primo grado a tre anni di carcere e vive in regime di sorveglianza speciale che lo obbliga a non uscire di casa dalle 22 alle 6. Quella visita in Senato peraltro gli è costata l’ennesima denuncia. «È arrivata fresca fresca mi dice da parte della Digos di Bergamo. Questa si chiama persecuzione». Non è stato facile convincerlo a parlare perché Galimberti per lo più non si fida, men che meno dei giornalisti. Claudio Galimberti, il «Bocia». «In bergamasco il Bocia è il più piccolo nei cantieri, diciamo la mascotte. Mi chiamavano così perché ero il più piccolo sui treni dei tifosi». Quando hai iniziato? «A 10 anni ero allo stadio, a 13 in curva Nord. Sono cresciuto a polenta e pallone, pallone e polenta». L’Atalanta è...? «La passione della mia vita. Non è solo una squadra di calcio, è una grande famiglia. I colori, la città, la maglia, è una magia tramandata dai genitori ai figli». Meglio una bella donna o l’Atalanta? «L’Atalanta è già la donna più bella del mondo. C’è chi come simbolo ha la Lupa, chi il Ciuccio, chi la Zebra, chi il Diavolo. Noi la Dea, la donna che più ti tradisce, perdendo una partita, più la ami». Bocia, la scorsa settimana è iniziato un altro processo ai danni tuoi e di altri tifosi. «Ci accusano di associazione a delinquere, tutti sanno che non lo meritiamo, io non so nemmeno cosa voglia dire. Possiamo avere ecceduto come tutte le tifoserie, ma siamo animati solo da entusiasmo e passione. Ma non ci ascoltano». Perché dovrebbero? «Siamo i clienti più fedeli del calcio. Come se un barista non ascoltasse chi entra a chiedere un caffè. Per questo siamo andati al Senato». Come è nata questa iniziativa? «Abbiamo creato un gruppo di lavoro tra tifoserie insieme agli avvocati Giovanni Adami e Lorenzo Contucci e abbiamo organizzato una conferenza stampa. Lo abbiamo voluto fare proprio al Senato dove si scrivono le leggi». Molti hanno storto il naso. «È una cosa che possono fare tutti i cittadini. Abbiamo comunicato i nostri nomi e cognomi con una settimana di anticipo. C’erano tre-quattro relatori, uno dei quali ero io. C’erano giornalisti, senatori, responsabili di una trentina di tifoserie di calcio». Ti sei messo giacca e cravatta? «È stato emozionante, per certi versi. E ho ricevuto molti complimenti, qualcuno mi ha detto “ma cosa hanno a Bergamo con te?”. Perché ho capito che è Bergamo il mio problema. Quando esco dalla città mi rispettano, anche le istituzioni, qui invece hanno messo la croce sulla mia persona». Ce l’hanno con te? «Prendi l’ultima: la Digos di Bergamo mi ha denunciato per la conferenza stampa al Senato». L’ennesima denuncia. «Secondo loro non potevo prendere parte a una manifestazione pubblica in quanto sorvegliato speciale». Non è così? «Sono partito da Bergamo dopo le 6 e sono rientrato a casa prima delle 22. Soprattutto quella non è una manifestazione pubblica ma una conferenza stampa. È una persecuzione. Qualcuno ha giurato che io l’Atalanta non l’avrei mai più rivista allo stadio. Se la sono legata al dito». I giornali hanno scritto: «il Bocia non può entrare in uno stadio ma al Senato sì». «Si tocca sempre la mia persona, questo mi secca moltissimo. Ma chi c’era ha visto il cuore e la passione che ci anima. È troppo facile sbattere in prima pagina il Bocia e colpirlo con meschinità. Sempre così, ogni volta così, anche quando vorremmo solo riportare la gente a tifare. Ma li vedi gli stadi?». Cosa hanno? «Sono vuoti. Ormai l’Europa ci bagna il naso». In che senso? «Negli anni ’80 e ’90 noi italiani eravamo i maestri del tifo organizzato. In Germania, Belgio, Francia, Inghilterra dopo la strage dell’Heysel non c’era una coreografia, una bandiera, uno striscione. Noi eravamo un esempio per tutti. Oggi le coreografie in Europa sono un spettacolo, noi siamo finiti in un vicolo cieco». Perché? «Troppi divieti. Trasferte vietate, biglietti che non si riescono a comprare, la tessera del tifoso che è un disastro, striscioni, tamburi, megafoni, tutto vietato». La tessera del tifoso è una questione di sicurezza, no? «Ma va, è un buco nell’acqua. Oggi è più facile diventare dottore che entrare in uno stadio. Ti pare normale che uno non possa decidere alla mattina di prendere la macchina e seguire la sua squadra del cuore in trasferta?». L’ha voluta l’ex ministro Maroni. «Ha fatto un disastro». Ma se è appassionato di calcio. «Peggio ancora. Non si può calpestare la passione della gente che lavora e fatica tutta la settimana, poi va allo stadio e si ritrova quel pezzo di curva, che per alcuni significa una vita intera, chiusa o divisa. Noi chiediamo una cosa semplice: il politico faccia il politico, il calciatore faccia il calciatore, noi siamo tifosi, lasciatecelo fare». In concreto cosa chiedete? «Le trasferte tornino libere, senza divieti. La tessera del tifoso sia facoltativa. Ci sia la possibilità di esprimere la fantasia senza vincoli. Gli striscioni vanno approvati sette giorni prima della partita, ma come faccio a sapere cosa voglio scrivere? Una volta, due giorni prima di una partita sono morti dei ragazzi dell’Atalanta in un incidente stradale, volevamo esporre i loro nomi e non ce li hanno autorizzati. Poi c’è un ultimo punto, fondamentale». Quale? «Se uno sconta la diffida poi deve poter tornare allo stadio». Qui sei parte in causa. Quante diffide hai accumulato? «Boh, chiedi alla Questura. Penso nove, dal 1992 a oggi. L’ultimo Daspo mi è scaduto lo scorso anno, eppure non posso entrare allo stadio». Ci sarà un motivo. «Hanno applicato l’articolo 9 della legge Amato. La diffida è finita ma nel frattempo ho preso una condanna in primo grado a tre anni per motivi simili ed è scattato il divieto di entrare allo stadio per altri cinque anni». Non è giusto? «No. È come se uno ruba al supermercato e poi, una volta finita la condanna, non può più andare a fare la spesa. Che logica è?». Tu quindi non vai allo stadio. «Quando mi è scaduta la diffida non vedevo l’ora di rientrare. Mamma mia che bello sarebbe stato... Ma ormai sono fuori da vent’anni, tra una diffida e l’altra». Ce l’hai con le forze dell’ordine? «Io chiedo che ognuno stia al suo posto e che loro non facciano la carriera sulla mia pelle e sulla pelle dei tifosi. Che si occupino dei problemi più gravi della bergamasca». Che fai durante le partite dell’Atalanta? «Gioco a calcio in Seconda categoria con la squadra del mio quartiere, a Redona. Poi spiegami perché noi ultras veniamo demonizzati, però quando andavamo in trasferta con i treni speciali le Ferrovie dello Stato ci rincorrevano». In che senso? «Quando giravamo per l’Italia eravamo clienti fissi. Portavamo soldi. E loro mi chiamavano: “Galimberti, facciamo il treno speciale?”». Chi chiamava? «I dirigenti delle Ferrovie lombarde. Quando hanno bloccato le trasferte erano dispiaciutissimi, han pianto in cinese. Eravamo soldi sicuri». Però c’è la questione della violenza. «Negli anni Ottanta e Novanta era molto peggio. In Italia non ne vedo troppi di incidenti, però la minima cosa viene ingigantita da quei giornali che vogliono identificare il problema del calcio con gli ultras». Tu hai detto una volta: «Se non sei ultras non capisci certe logiche, anzi ti fanno schifo». «Un ultras vuole tifare. Se gli togli questo cosa rimane? La rabbia. Se uno Stato non ti vuole più, è inevitabile che anche il cane più buono del mondo, a forza di prender bastonate e mangiare male, diventa rabbioso. Noi diciamo: lasciate fare alle curve un tifo colorato. Ridateci responsabilità e noi ci metteremo la faccia. Altrimenti...». Altrimenti? «I giovani che vanno allo stadio non ne possono più di andare in carcere per una torcia accesa o essere diffidati per banalità. La repressione ha fatto danni incredibili». Con le tifoserie rivali lo scontro fisico è legittimo? «Fa parte della storia del calcio, è il campanilismo che divide l’Italia. Ma sono cose che non esistono più, noi da otto anni non andiamo più in trasferta per far capire che “o si va tutti o nessuno”. Noi abbiamo la dignità e non la svendiamo alle istituzioni». Perché nel rugby non ci si picchia mentre nel calcio sì? «Oh, il calcio è una palla ro- tonda e magica». In che senso? «Quando Lippi ha vinto i Mondiali non si è più parlato di Calciopoli. Quando abbiamo vinto i Mondiali nel 1982 forse anche tua nonna è scesa in strada a festeggiare. Il calcio sposta ventimila persone da una città all’altra. Il calcio sposta i popoli, che cavolo». A proposito: al rugby si deve una delle vostre iniziative solidali. «L’Aquila rugby gioca con la maglietta neroverde ma hanno stampato sopra la Dea, simbolo dell’Atalanta, e la scritta “Curva nord”. È bellissimo. Dopo il terremoto li abbiamo sostenuti, non solo economicamente. Li abbiamo accolti a Bergamo come dei re. Abbiamo anche raccolto fondi per gli alluvionati nella bergamasca, in Liguria, per i bambini disabili o con malattie particolari, per un asilo in Ruanda, per il reparto pediatria di Bergamo, per i terremotati di Moglia nel Mantovano. Altro che teppisti. Molte famiglie e molti bambini stanno con noi». Bocia, hai una condanna a tre anni in primo grado, un altro processo appena iniziato. Non sei un santo. «Ho la coscienza a posto. Non mi piango addosso, affronto tutto senza problemi però qualcuno continua a giocare sporco su di me». Nel 2009 hai detto «la mia droga è picchiare gli altri ultrà». «Dai, sono frasi a effetto, dette così. Il rispetto dell’avversario viene prima di tutto. Se poi nei derby infuocati c’era una scazzottata, finiva lì. Quando invece uno usa armi improprie, come i coltelli, viene meno al rispetto dell’avversario e alla lealtà». Ma ci sono stati anche dei morti. Per De Santis hanno appena chiesto l’ergastolo... «Su questo non voglio dire nulla».