Giuliano Zulin, Libero 25/4/2016, 25 aprile 2016
«TUTTO CASA, SCUOLA E MOTOGP COSÌ RADDOPPIO I DIPENDENTI» [Enrico Bracalente] – Enrico Bracalente è il patron di NeroGiardini
«TUTTO CASA, SCUOLA E MOTOGP COSÌ RADDOPPIO I DIPENDENTI» [Enrico Bracalente] – Enrico Bracalente è il patron di NeroGiardini. L’anno scorso, fra scarpe e borse, ha fatturato 209 milioni (+2,5%). Attualmente l’80% del giro d’affari viene dall’Italia, ma l’obiettivo è arrivare a muovere mezzo miliardo, grazie a una crescita dell’export. Per farsi conoscere NeroGiardini ha investito nella MotoGp. E ieri, sul circuito di Jerez, non è passato inosservato il marchio italiano. Bracalente, ma lei va in moto? «Andavo, ora l’ho abbandonata. A 18 anni presi la Honda 500 Four, mio padre però non voleva assolutamente, gli dicevo che era di un mio amico. Solo grazie a mia madre riuscii poi a fargli accettare l’idea». Aveva paura? «Sì, io sono di Monte San Pietrangeli, provincia di Fermo... tutte quelle curve in collina... Mapoia18anniseiunpo’incosciente. Comunque sono sempre stato appassionato dei motori, poi col tempo la passione svanisce, ma l’adrenalina non passa mai». L’adrenalina è passata sul lavoro? «È una questione di carattere, ognuno di noi ha delle attitudini. Io ho trovato la mia strada in azienda». L’ha trasmessa ai figli la passione per i motori? «Mia figlia non è interessata, anzi è contraria. Mio figlio invece corre con le auto, nella F2 Italian Formula Trophy. Lui ha una passione doppia della mia». Ha trasmesso anche la passione per il suo lavoro? «Direi di sì, Alessandro cura la parte gestionale, ufficio acquisti. Mentre Gloria è nell’ambito della progettazione, collabora con gli stilisti, i modellisti interni...». Perché in azienda? «Hanno deciso loro, nessuna scelta a tavolino. Dopo la laurea, Alessandro in Economia e Commercio e Gloria in Filosofia, hanno scelto di impegnarsi in azienda». E lei come ha deciso di fare questo lavoro? «Finite le medie, alla mia epoca, negli anni ’70, c’erano due strade: o si andava avanti a studiare o si iniziava a lavorare. Io non potevo proseguire gli studi, andai in un’azienda artigiana a imparare il lavoro di tagliatore. Poi con mio fratello ci siamo messi in proprio, nel 1975. All’inizio lavoravamo per conto terzi, a fine anni ’80 decidemmo di proporci direttamente al mercato. Stava cadendo il muro di Berlino, dissi a mio fratello: Luigi, non possiamo più dipendere dagli altri. Facciamo qualcosa di nostro, col nostro marchio». Come avete scelto NeroGiardini? «Marchio di fantasia». Come sono stati gli inizi di NeroGiardini? «Difficili, come per tutti quelli che si mettono in proprio. La svolta fu nel 1993, quando riuscimmo a vendere tutto il fabbisogno giornaliero: 800-850 paia. Fino a quel momento continuavamo a fare anche il conto lavorazione». Quand’è che siete esplosi? «Nel 1999. Un anno prima rilevai tutte le quote dei miei due soci, comprese quelle di mio fratello». Avevate litigato? «Non c’era condivisione sulla strategia. Dovevamo investire in comunicazione per fare il salto di qualità in un mercato globalizzato. Dovevamo differenziarci. Avevamo bisogno di essere riconosciuti. Ma mio fratello non era d’accordo, per cui le nostre strade si sono separate. Nel 1999 iniziai così a fare comunicazione in grande stile: su 22 miliardi di lire investii 500 milioni, da lì in poi ho sempre investito il 5-6% del fatturato. Negli anni della crisi però arrivai a spendere in comunicazione anche l’8%». Perché? «Per non perdere quote di mercato, per dare ulteriore visibilità al nostro marchio. Questo ha pagato. Dai 22 miliardi di lire del ’99 siamo arrivati ai 230 milioni del 2011. Ora siamo marchio leader in Italia». In che rapporti è con suo fratello? «Buoni, lui lavora sempre per il nostro gruppo, ma con una sua azienda». Restiamo agli anni ’90, quando tutti delocalizzavano. Anche lei è andato a produrre all’estero? «Andai a vedere anch’io gli stabilimenti nell’est Europa, poi però ho pensato: se delocalizzo non posso più fregiarmi del made in Italy, non posso più dare la garanzia di un certo standard qualitativo, deludendo le aspettative del consuma- tore finale... Così decisi di non delocalizzare. E questa strategia ha pagato». Ma come ha fatto a resistere? All’epoca si diceva che chi non delocalizzava era fuori dal mondo. Poteva portare a casa più margini... «Io avevo un consulente, ora in pensione, che mi diceva sempre: “un utile, un utile onesto, ma continuativo nel tempo”. Tanta gente mi diceva che bisognava andare all’estero perché qua la manodopera costava troppo, perché le infrastrutture in Italia erano insufficienti... Io andai controcorrente: feci economie di scala e puntai alla razionalizzazione dei costi per competere con marchi di livello mondiale. Senza però rinunciare a produrre qui. E ora, col made in Italy, diamo un servizio che altri non riescono a dare producendo in Cina». A proposito di controcorrente, mentre tutti vanno via, lei invece aumenta la sua presenza in Russia. Non ha paura dell’embargo? «Dopo la tempesta arriva sempre il bel tempo. Sì, la Russia è in crisi, soffre il petrolio basso, il rublo svalutato... ma poi? Noi ci stiamo organizzando per la ripresa. Abbiamo aperto un magazzino a Mosca per dare un servizio al retail. Oltre alla Russia, puntiamo all’intero mercato europeo. Da 10 anni siamo presenti in Belgio con ottimi riscontri. In Francia e in Spagna NeroGiardini si sta posizionando bene. E ora si punta anche su Germania, Austria, Svizzera, Inghilterra, Paesi Balcanici, Est Europa». Lei sembra controcorrente anche sull’online: non si vedono le sue scarpe su Za- lando. Perché punta sui negozi tradizionali? «Guardo alle grandi multinazionali. Apple continua ad aprire negozi, anche se potrebbe vendere solo online. Vogliamo dare servizi ai clienti e tutelare i commerciali. Non voglio penalizzare i miei rivenditori. Il cliente potrebbe provarsi la scarpa in negozio e poi comprarla su internet. Io sto investendo milioni di euro da 15 anni per far conoscere il mio marchio. Ma rischio di bruciarlo, perché il consumatore potrebbe dire: NeroGiardini si trova a tutti i prezzi». Ma non pensa agli utili? L’online taglia tante spese... «Rimango fedele alla filosofia “utile, onesto, ma continuo”. Se andrò su internet lo farò ai miei prezzi e come voglio io, con una mia piattaforma». Da testimonial della controcorrenza, chissà se esiste questa parola, lei è uscito da Confindustria. Cosa non le piaceva? «Che è politicizzata e sindacalizzata. Non fa gli interessi della piccola e media impresa. Là dentro ci sono 3 categorie: la piccola, la media, come la nostra, e infine le multinazionali. Sono interessi diversi». Tipo? «Noi e la piccola abbiamo certi problemi. La piccola ad esempio ha bisogno di farsi conoscere al mercato mondiale, ma ha pochi mezzi. Noi abbiamo l’Irap e una marea di tasse da pagare. L’Irap ce l’abbiamo solo noi in Italia, preciso. Le multinazionali invece portano la sede in Olanda o a Londra per risparmiare sul fisco e per poter competere nel mercato globale. Confindustria dovrebbe battersi per abbassare le tas- se. Perché allora debbo pagare la mia quota, quando non conto nulla e la mia parola non vale niente? È solo un centro di potere. Per la piccola e media impresa non fa nulla». Adesso però ha vinto Vincenzo Boccia, che viene dalla piccola industria... «Non lo conosco, non voglio dare giudizi...». Lei si lamenta delle tasse: è vero che è un paladino del made in Italy, però non ha mai pensato di andare all’estero? «No, un imprenditore ha una responsabilità sociale verso la comunità e il territorio che hanno contribuito a far diventare questa azienda leader del mercato nazionale e spero fra i big mondiali. Ho sempre creduto che la ricchezza di un’azienda sia il capitale umano». Quanti dipendenti ha? «La spa 350, poi l’indotto è di 2500 dipendenti. Con prospettive, grazie all’internazionalizzazione, di poter raddoppiare il personale». Alla politica ci ha pensato? «Gente come me non è ben accetta in politica, perché dice quello che pensa. Ognuno di noi però è nato per fare un lavoro. Io sono partito da dipendente e ora faccio l’imprenditore. Non potrei mai fare anche il politico». Lei però sembra un’isola felice in un’Italia che fatica a scrollarsi di dosso la crisi... «L’Italia dovrebbe essere gestita come un’azienda. Si è votato per le trivelle, ma il nostro petrolio è il patrimonio culturale. Noi abbiamo 46 milioni di turisti l’anno, la Francia invece ne ospita 80 milioni. Potremmo raddoppiare i visitatori e creare posti di lavoro, consumi, Pil. Ci vogliono però gestioni manageriali, così come al governo». Un consiglio al premier? «Pochi giorni fa ho letto un articolo sulla spesa pubblica: per beni e servizi spendiamo 140 miliardi l’anno, con aste al ribasso potremmo risparmiarne 40. La Consip...». ...Quell’ente che dovrebbe essere la centrale unica degli acquisti della Pubblica amministrazione? «Sì, quella. Pensi che su 6 euro spesi dalla Pa, solo uno passa dalla Consip. Ogni ente fa bandi per conto proprio. Così si spreca. Basta vedere la sanità: costi enormi e servizi scandalosi. Ripeto: gestione manageriale». E i politici dove li mettiamo? «Molti professionisti hanno messo da parte le loro competenze e si sono adagiati in politica. Vadano a casa. Stanno portando il Paese al fallimento, quando invece l’Italia potrebbe essere leader mondiale nella moda, nell’agroalimentare, nel turismo. Altro che trivellazioni: è solo fumo negli occhi». Avrà fiducia in qualcosa? «Credo nei ragazzi». I ragazzi? «Ho voluto fortemente un corso di formazione per operatore calzaturiero. Se non formiamo i giovani, vera risorsa per le nostre aziende, non avremo futuro. Così sei anni fa incontrai per la prima volta padre Sante Pessot, direttore del Centro di formazione professionale “Artigianelli-Opera Don Ricci” di Fermo. Non esitai un solo istante e decisi di finanziare il corso. Padre Sante mi chiese: “Ma poi i ragazzi che fine faranno?”. Lo guardai negli occhi e risposi deciso: li assumo tutti con le aziende del Gruppo NeroGiardini. E così è stato. Pensi, volevo farla con Confindustria un’esperienza del genere, ma non ci riuscii: quello è un apparato che non si schioda». Che scuola è? «Si tratta di un corso professionale per operatore calzaturiero riconosciuto anche dall’Ue. I primi due, biennali, si sono conclusi: 22 diplomati e tutti assunti. Ne abbiamo ora altri due: uno biennale di 14 iscritti, uno triennale di 15. Col passaggio al triennale il corso ha fatto un bel salto di qualità: nel primo caso era rivolto a ragazzi dai 16 ai 18 anni, adesso invece è destinato ai 14enni». Cosa vuol fare da grande? «Voglio che NeroGiardini replichi in Europa i risultati ottenuti in Italia, che diventi una firma: abbiamo investito nella MotoGp, uno sport seguito in tutto il mondo, perché, grazie allo sport, abbiamo l’obiettivo di diventare un marchio leader prima in Europa e poi nel mondo. Lo sport da sempre attira i grandi marchi: guardate i risultati ottenuti da Rolex con la Formula Uno o da Prada con la Coppa America».