MICHELA A. G. IACCARINO, il Fatto Quotidiano 25/4/2016, 25 aprile 2016
SERBIA E KOSOVO, IL VOTO CON LA GUERRA DENTRO
Più che la traiettoria politica dei prossimi quattro anni a Belgrado, i serbi alle urne sceglieranno la rotta futura verso Mosca o Bruxelles. All’alba del voto sono spaccati quasi perfettamente in due tra la matrigna occidentale che chiede loro il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo e severe misure economiche per entrare in Europa, e la sorella Mosca, in una Russia che insieme alla Cina, non ha mai riconosciuto l’autonomia albanese nella regione kosovara e ha mai imposto a quel che rimaneva della Grande Serbia sanzioni per la guerra nell’ex Jugoslavia. Oggi la Serbia è una nazione in due Stati e uno Stato che vuole tenere i piedi in due staffe: una nell’Unione, una nella Federazione. Dopo queste elezioni non potrà più esserlo.
Serbi dentro e fuori. Per la prima volta andranno al voto anche i cittadini dimenticati delle enclavi–ghetto in Kosovo, una centinaio di migliaia che non hanno voluto abbandonare le loro case dopo la guerra e vivono in quelle che sembrano riserve indiane filo-spinate e video-sorvegliate dove l’acqua scarseggia come l’elettricità.
“Non è un vero voto”, si ostinano a ripetere le autorità della capitale Pristina, solo “una raccolta di schede elettorali”. A Mitrovica come a Belgrado la scelta avverrà a metà mandato del presidente in carica di Aleksader Vucic, conservatore moderato, insieme nazionalista e europeista, un ibrido politico accettabile per l’Unione, che ha chiesto elezioni anticipate per assicurarsi altri 4 anni di Governo e realizzare le riforme promesse entro il 2020.
Oppure la croce della scelta cadrà sul partito di chi promette di non dimenticare, l’Srs, il partito radicale serbo, che ha ripreso a parlare di quel “newborn state”, auto-battezzatosi senza chiedere il permesso ai vicini di casa e dichiaratosi indipendente il 17 febbraio 2008. Si chiama Kosova in albanese, Kosovo i Metochija per i serbi.
Nominato persona non grata da Pristina appena è stato dichiarato innocente dal tribunale dell’Aja dopo 12 anni di prigione, dove era accusato di crimini di guerra e contro l’umanità durante le guerre dei ‘90 in Croazia e Bosnia, è tornato in circolazione da uomo libero il serbo bosniaco Vojislav Seselj, il teorico della Grande Serbia. Infuocando di parole la platea durante i suoi comizi, Seselij ha dato alle fiamme bandiere Nato ricordando che “la Russia non ci ha mai bombardato. Dobbiamo unirci ai nostri fratelli russi. Non vogliamo entrare in Europa, ci sono tutti i vecchi nemici della Serbia”.
A stringergli la mano è arrivato il vice-premier russo Dimitry Ragozin a Belgrado. Come non accadeva da molto tempo, Seselij ha ricordato a tutti che durante il conflitto del 1999, l’Europa ha bombardato Belgrado: “Mai niente di buono ci è venuto dalla Ue, dall’America e dagli altri tradizionali nostri nemici in Occidente. Ci hanno bombardato, hanno ucciso i nostri figli e ci hanno portato via le nostre terre”, ha detto tra gli applausi Seselij.
La Nato volò su Belgrado il 24 marzo 1999 e 78 giorni di bombe dopo, la guerra era finita. Comunque dichiarata vinta. Bill Clinton, con il migliore sorriso che aveva allora, sussurrava alla stampa internazionale: “siamo in Kosovo perché vogliamo sostituire la pulizia etnica con la tolleranza; l’ umanità prevarrà, i profughi torneranno a casa”. Ora la sua statua troneggia a Pristina centro, a pochi centinaia di metri dalla scritta gialla New Born che fece il giro del mondo. Per contrappasso nel museo delle cere serbo si fa la fila per osservare da vicino la riproduzione del presidente Putin. Questa sarà un’elezione scontata che porterà alla vittoria Vucic, ma arriverà da destra, una spallata imprevista del partito radicale che forse riuscirà a raggiungere il 10% dei seggi. Nonostante lo neghi in pubblico durante le visite nel Kosovo serbo, dove al suo arrivo a inizio aprile è accolto con il ritrovamento di una granata all’impianto sportivo dove era atteso, Vucic ha deluso molti con la sua politica sul Kosovo ceduto a poco a poco, “un tradimento della Nazione”. Sedici anni dopo, piantata la base militare più grande d’Europa proprio in Kosovo – camp Bondstill -, la democrazia americana esportata 16 anni fa ha bisogno ancora di cavalli di frisia, filo spinato, fucili e sorveglianza armata 24 ore su 24. Secondo la risoluzione 1244 delle Nazioni Unite, il Kosovo è ancora sotto controllo governativo e “temporaneo” dell’Unmik. E ancora oggi a Mitrovica, Pec, Prizren o Grazaniza, in comunità strette attorno ai luoghi di culto, i kosovari slavi non vogliono abbandonare quei microcosmi chiusi in una manciata di km quadrati in un oceano ormai mono etnico, albanese e mussulmano, perché significherebbe davvero aver perso la guerra e il Kosovo per sempre. In assenza di dati certi per boicottaggio del censimento albanese, si stima che ci siano ancora più di 100mila serbi nelle enclavi, nei villaggi e intorno ai monasteri millenari.
Luka, 30 anni, se n’è andato via e vive a Belgrado, perché di vivere in gabbia a Grazanica non ne poteva più. Se gli chiedi di Misha, invece, un ragazzo con cui è cresciuto nell’enclave insieme, ti dice di andare in monastero. Il ragazzo scapestrato ha scelto la fede, la pace, la resistenza e ha voluto diventare monaco. È in tunica, molto spesso, che si continua a resistere in Kosovo.
Accade a Prizren, dove padre Andrej cammina per le strade sfidando occhi musulmani e stupiti: “vedere un prete ortodosso qui è come vedere un orso polare in Congo”. La vita dei suoi dodici allievi serbi scorre in poche stanze, è un’adolescenza segregata in cortile. È lì che si chiedono per quanto altro tempo pagheranno per gli errori di criminali di guerra come Mladic che scintilla su certi murales e sul perché quasi vent’anni dopo, i criminali kosovari albanesi non siano mai stati processati o dichiarati colpevoli.
Ma si scappa anche quando la battaglia è stata vinta. Sopravvissuti all’ultima guerra europea del Novecento nei Balcani, i profughi kosovari nel 2015 si sono rimessi in marcia proprio come nel 1999. Dove la disoccupazione colpisce il 70% della popolazione in un Paese dove due terzi ha meno di 30 anni, quando il conflitto armato è finito è cominciato quello economico. Così oltre il filo spinato, insieme ai rifugiati mediorientali, siriani e afgani, centomila kosovari albanesi hanno cominciato a inseguire una vita migliore in Germania.
La verità è che ormai si convive con l’oblio e i ghetti di resistenza serba sono lontani da Pristina quanto da Belgrado. Il monastero di Decany è sorvegliato da due truppe italiane per evitare quello che accadde nel 2000, nel 2004 e nel 2008, ovvero, tentativi di incendio e di decapitazione, spari, Rpg puntati contro la croce dei monaci di una città chiamata Pec dai serbi, Peje dagli albanesi. È in quella chiesa che viene acceso il candelabro di ferro forgiato dalle spade dei serbi morti in battaglia a Kosovo Polje, “il campo dei merli”. La parola che da nome a questa terra è slava: kos in slavo vuol dire merlo. “Questa è la terra dei merli e dei monasteri”.
La leggenda vuole che questi uccelli, beccando i cadaveri dei guerrieri uccisi, li facciamo rivivere ogni volta che sorvolano le nuvole, per ricordare a tutti l’eroica resistenza contro gli ottomani musulmani nel 1389. Le teste dei guerrieri slavi furono mozzate dal sultano e sistemate in una macabra torre di teschi che i serbi vanno ancora a vedere a Nis, perché “Kosovo je Serbia”, il Kosovo è Serbia.
Quattro numeri e quattro C, 1389 e le iniziali di camo slogo crbina cpasava, “solo l’Unione salva i serbi”, sono le scritte più usate per coprire i manifesti elettorali, a Mitrovica, epicentro della protesta, enclave di circa 60mila persone del Kosovo nord, che risponde con le barricate a ogni decisione di abbandono o repressione presa sia da Pristina che Belgrado. A sud del ponte di Mitrovica l’alfabeto è latino, la lingua albanese, la religione mussulmana e bandiera americana; a nord l’alfabeto è cirillico, la bandiera è serba, la religione è ortodossa, la slavofilia estrema. A dividere questi due mondi solo cinquanta chilometri di cemento sospesi sul fiume Ibar, un ponte che si chiama Austerliz per i kosovari albanesi, “Glavnij Most” per i serbi. Un ponte che nel resto del mondo sarebbe metafora d’unione e qui, dove la guerra non è mai finita, ne diventa simbolo opposto, di vendetta, odio e discordia.
MICHELA A. G. IACCARINO, il Fatto Quotidiano 25/4/2016