Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  aprile 25 Lunedì calendario

ALEX SCHWAZER – ROMA Gli occhi hanno di nuovo un orizzonte. La voce è più allegra. Se prima era un uomo nell’angolo, ora sembra fuori dalle tenebre

ALEX SCHWAZER – ROMA Gli occhi hanno di nuovo un orizzonte. La voce è più allegra. Se prima era un uomo nell’angolo, ora sembra fuori dalle tenebre. Alex Schwazer, 31 anni, torna in gara l’8 maggio a Roma. «Finalmente». Nella Coppa del mondo di marcia. Dopo 3 anni e 9 mesi di squalifica per doping, ultimo giorno: venerdì. Cerca il pass per Rio, ma soprattutto la redenzione. È diverso dal ragazzo che vinse a Pechino nel 2008 e che non arrivò mai a Londra nel 2012. Piangeva entrambe le volte: a 24 anni di gioia, a 28 di disperazione. Prima era un tesserato per il gruppo Carabinieri, ora per una società (Lg Brixen) che ha solo lui. Prima aveva sponsor, ora solo una maglia no logo. Prima dava i numeri, ora non vuole più sentire parlare di numeri. Prima era nauseato, ora ha voglie. Prima era fidanzato, ora pure (ma non più con Carolina Kostner). Schwazer, ci siamo. «Torno a marciare in gara. In più nel mio paese, non mi è mai capitata una grande competizione in Italia. È la prima volta. Sarà bello. Soprattutto perché sto bene, non ho più pesi, né guardo l’orologio. E sulla maglia avrò solo la foto di un cane, Sumi, che incontro ogni giorno al parco. E che verrà al mio rientro con il suo padrone, un ingegnere che ha perso il lavoro». Torna il traditore o il redento? «Chiedo serenità. Io l’ho trovata, anzi forse l’ho costruita. Volevo troppo e alla fine non sentivo più niente. Mi sono rovinato a forza di pensare agli altri, ora non ci casco più. Trovo piacere in quello che faccio, mi basta, anche perché io senza sport impazzisco. Ho sempre cercato l’attività fisica, la scuola non mi ha mai appassionato, tanto che ci andavo in tuta. E quando ho preso il diploma nell’istituto dove mia madre era bidella, ho giurato: mai più in un’aula. Se quattro anni fa la marcia per me era un tormento, ora è un privilegio. Rientro e spero si mettano da parte le polemiche. Ho sbagliato, ho pagato. Liberi di insultarmi e di pensarla diversamente. Mi sono anche chiarito con qualche compagno come Rubino. Però adesso basta, voglio andare avanti. Lo dico a tutti quelli che anche dall’estero vengono ad intervistarmi, attratti dal fatto che sono una storia». Come si aspetta il rientro? «Mi verranno in mente tante cose alla partenza, già lo so. Toneranno a galla pensieri. Donati, il mio allenatore, mi ha chiesto: cosa vuoi che ti urli in gara? Niente per carità, ho risposto. E soprattutto non segnalarmi i chilometri. Quando sei al 15esimo e ne hai ancora davanti 35 non vuoi proprio che qualcuno te lo ricordi. Di questo sono sicuro: sarò un po’ scombussolato. Ma 50 chilometri sono una fatica che non permette distrazioni. Ti rimettono subito in riga, anche perché si fanno sentire». Non ci saranno i russi. «No. A Roma no. È giusto che paghino. Ma sono sicuro che verranno riammessi a Rio. Mi sembra difficile immaginare un’Olimpiade senza l’atletica russa. Ma perché parlare degli altri? Non voglio più riflettermi nelle facce degli avversari. È stato il mio errore. Basta, non lo faccio più. Ho ritrovato la strada, in tutti i sensi, da tempo non prendo nemmeno più psicofarmaci per la depressione». In tanti temevano per lei. «Lo so. Ma non potevo suicidarmi perché così avrei ammazzato mia madre. Però potevo finire come Marco Pantani, in quella solitudine lì. Ci ho pensato, è stata un’immagine che ho avuto per tanto tempo davanti agli occhi. Ma mi sono detto, non è giusto finire così, in maniera così disgraziata. Per me voglio un’altra uscita: felice, con sensazioni buone, non a testa bassa. Anche perché io troppo solo non sono mai stato. Il gruppo stretto è rimasto con me, e io non mi sono lasciato andare». Roma c’entra? «Roma ha funzionato. Mi ha accolto, mi è stata a fianco, senza troppo voglia di puntarmi il dito. Temevo l’inverno, lontano dal mio paese di montagna Calice, un pugno di abitanti in Alto Adige, invece dopo 30 settimane di lavoro il tempo è volato. Mi sono allenato tra pensionati, gente comune, persone disoccupate. Insomma con problemi veri, grandi, devastanti. Mi ha aiutato a rimettere tutto nelle giuste proporzioni, anche perché forse noi sportivi siamo abituati a chinarci solo su di noi e non sugli altri. Vivo in un albergo che mi pago sulla Nomentana, che è diventato il mio quartiere e dove per tutti sono Alex e basta». Invita al colpo di spugna? «La mia squalifica scade il 29 aprile. L’ho scontata tutta, senza perdoni. Il dolore che ho provato e provocato non si cancella, ma non posso passare il resto dei miei giorni a scusarmi. Mi rimetto in marcia. Da pulito, da supercontrollato. Da uomo che ha fatto un lavoro su di sé. Sto bene, ho sensazioni positive. Mi guarderanno storto? Pazienza. Li capisco e vado avanti. Se guardo indietro è brutto anche per me: troppi tormenti. Ad ogni gara pensavo: questo a destra è dopato, questo a sinistra pure. Ero devastato, mi torturavo. Mi sono abbrutito, anche fisicamente, per essere all’altezza di quelli che baravano. Ero veramente fuori. Ma sono discussioni tristi». Cosa è cambiato? «Tutto. Sandro Donati ha variato molto la preparazione, non mi sono annoiato: resistenza, accelerazione, frequenza, ritmica. Per la prima volta ho fatto stretching e ginnastica posturale. Abbiamo mischiato molto. Trovo interessante essere allenato da uno specialista della velocità, anzi penso che le varie discipline ogni tanto dovrebbero parlarsi e scambiarsi metodiche. Può anche essere un antidoto a combattere la noia che ti viene quando fai sempre le stesse cose». Schwazer-Donati è una coppia di rivincite. «Tutti e due dobbiamo riprenderci qualcosa. Lui ha pagato per aver denunciato il doping, io per esserci cascato. Quando siamo andati alla federazione di atletica a incontrare il presidente Giomi e gli altri, Donati mi ha detto: “Ti rendi conto? È la prima volta dopo 29 anni che rimetto piede qui”. “Tranquillo”, gli ho risposto, “per me è la prima”». Cambiata anche la vita sentimentale? «Sì. Ho una nuova storia, ho voltato pagina. È una ragazza bruna, non bionda, non romana. Non è dell’ambiente. E ho cambiato anche musica, Massimo De Vita, non vedente, di Napoli, che suona nel duo Blindur, mi ha dedicato la canzone per Alex e mi ha aperto un mondo». La marcia azzurra maschile è scomparsa. «La marcia è un settore fatto da tanti piccoli gruppi diversi. E da tante realtà. Sempre stato così. Non dico: adesso torno a trascinarvi tutti, ma se ho avuto un merito è stato quello di concentrare tutta l’attenzione e la pressione su di me. Ero io che dovevo rispondere alle aspettative. E questo ha lasciato i miei compagni più liberi, però ora la gara di Roma è il mondiale a squadre, bisogna tutti dare il massimo». È ottimista? «Sì. Vado più forte oggi di quando mi drogavo. Ho fatto prove di fondo lungo e lento a 4’30” al chilometro. Recupero bene. Sbaglia chi pensa che io sia accecato dalla rabbia di tornare sul trono. So che tutti pensano: partirà a razzo e si brucerà. Proprio per niente: sarò prudente. La 50 km non è roba per chi deve improvvisare vendette. Bisogna sudarsela. E sono contento che ci saranno anche i miei genitori». C’è Giuseppe Fischetto, ex medico federale, come delegato antidoping a Roma. «Non ho nessuna difficoltà ad affrontarlo. Resto dell’idea che le prove per squalificare i russi dopati ci fossero, molto prima di quest’ultimo scandalo doping. Ma basta, sul tema ho già dato». Cosa vede sulla strada? «Ho fatto del bene, ma anche molto male. Rivoglio una vita, una passione, un futuro. Figli e famiglia. Marciare a testa alta. Senza dovermi vergognare. Sì avanti ho Rio, ma stavolta ho soprattutto me stesso». EMANUELA AUDISIO, la Repubblica 25/4/2016