paggina99 23/4/2016, 23 aprile 2016
PIU VOTATI E MENO AMATI. LA CORSA DI CLINTON E TRUMP
Se ce la puoi fare a New York, ce la puoi fare ovunque. Anche fino alla Casa Bianca. Il classico di Frank Sinatra ora vale anche per la corsa presidenziale. Ed è una rarità perché da decenni ormai le primarie dello Stato della Grande Mela, per via del calendario (ad aprile di solito i giochi sono quasi fatti) contavano poco o nulla nella selezione dei candidati. Quest’anno invece, in una competizione affollata da newyorchesi di nascita (Trump nel Queens, Sanders a Brooklyn) o di adozione (Clinton), la convincente vittoria dei favoriti martedì 19 può segnare un punto di svolta.
Nel campo democratico la nomination di Hillary assume ormai i contorni della certezza. In quello repubblicano, l’affermazione di Trump si accompagna a un deciso salto di qualità della sua campagna. La fase eroica in cui The Donald puntava tutto sul brand personale (un candidato che spendeva più per i gadget – cappellini in primis – che in stipendi per lo staff) è finita. Dopo aver denunciato – non senza ragioni – le opache regole del gioco che in una eventuale resa dei conti nella Convention del partito a Cleveland, a metà luglio, consegnerebbe la vittoria al candidato più abile a conquistare delegati dietro le quinte (e Cruz surclassa il neofita in questo gioco), Trump ha deciso di reinventarsi come candidato professionista, o quasi. E ha assoldato un veterano delle campagne (Paul Manafort ha iniziato consigliando Gerald Ford negli anni ’70) per mettere a punto una costosa macchina da guerra elettorale. Così se anche non dovesse toccare la quota magica di 1.237 delegati, il Trump addomesticato (che ora chiama il principale avversario «Senator Cruz» e non «Lying Ted») potrebbe spuntarla.
Ma non dovrebbe essere necessario. La vittoria a New York pesa molto anche in termini matematici e le tappe nordorientali di martedì 26 aprile (Pennsylvania, Maryland, Delaware, Connecticut e Rhode Island ) potrebbero consegnare la nomination a Hillary e aprire a Donald la strada per la consacrazione in California (7 giugno). Tra una settimana o poco più inizierà quindi de facto la campagna vera – tra Hillary e (presumibilmente) Donald – per la Casa Bianca. E sarà dura, chiunque prevalga.
Perché gli umori del popolo americano registrati dai sondaggi dicono che sarà inviato alla Casa Bianca un presidente poco amato. Ed è vero per Trump, ma anche per Hillary, che nel corso dell’aspra competizione con Sanders ha accumulato giudizi sfavorevoli tra gli elettori. I dati di un recente sondaggio Nbc-Wall Street Journal sono preoccupanti per la candidata, la differenza tra pareri positivi e negativi ha raggiunto quota -24 (Obama sta a +5, Sanders a +9) e arriva fino a -40 tra gli uomini (-9 tra le donne). Clinton perde consensi perfino nella sua roccaforte, tra gli elettori delle minoranze (è passata da +21 a +2 tra i latinos nel primo trimestre di quest’anno). La sua fortuna sarà appunto che probabilmente sfiderà Trump, che genera molta più avversione di lei ed è nettamente sfavorito nello scontro diretto (John Kasich e perfino Marco Rubio stando ai sondaggi invece batterebbero Hillary Clinton). Ma una volta tagliato il traguardo, per il nuovo inquilino della Casa Bianca potrebbe essere assai complicato svolgere il suo mandato.
Certo siamo solo a primavera, il primo martedì di novembre è lontano, e l’erosione della popolarità di Hillary Clinton corrisponde anche ad acciacchi stagionali. Il candidato più preparato per l’incarico (più di Sanders, secondo la direzione di questo giornale) ha il tempo e la capacità di suscitare un’appassionata mobilitazione elettorale per arrivare senza affanni alla Casa Bianca. E se così non fosse, anche un capo di Stato con una fragile o incerta legittimazione popolare governa ovviamente con i pieni poteri (o anche più, pensiamo al primo mandato di George W. Bush dopo la vittoria arraffata nel 2000) perché è la carica che fa il presidente, non il contrario. Ma in un’età segnata da un conflitto politico che ha già paralizzato la macchina dello Stato (e visto crescere il peso del Congresso), al neo-presidente potrebbe essere difficile imporre il proprio programma di governo. E un’eventuale crisi di leadership, in un’America in cui serpeggia la tentazione di volgere le spalle al mondo riguarderebbe anche il resto del globo. Perfino noi.