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 2016  aprile 23 Sabato calendario

Le idee di Piercamillo Davigo


ALDO CAZZULLO, CORRIERE DELLA SERA 22/4 –
Piercamillo Davigo – consigliere presso la Cassazione, nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati – 24 anni fa era nel pool di Mani Pulite.
Dottor Davigo, com’è cambiata l’Italia da allora?
«Con i colleghi stracciammo il velo dell’ipocrisia. E questo ha peggiorato le cose».
Vale a dire?
«La Rochefoucauld diceva che l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù. Nella Prima Repubblica se non altro si riconosceva la superiorità della virtù. Quando Tanassi fu arrestato e parlò di “delitto politico”, io non capivo cosa dicesse. Poi ho realizzato che forse intendeva dire: “È un delitto politico perché vado in galera solo io”. Noi magistrati siamo come i cornuti: siamo gli ultimi a sapere le cose; perché quando le sappiamo partono i processi».
E partì Mani Pulite.
«Dopo l’arresto di Mario Chiesa, Craxi disse che a Milano non un solo dirigente del Psi era stato condannato con sentenza definitiva, fino al “mariuolo”. Nessuno esplose in una fragorosa risata. Il velo dell’ipocrisia teneva ancora».
E ora?
«Non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo: “Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare”. Ma non sono soldi loro; sono dei contribuenti».
«Non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti». Lo disse davvero?
«Certo. In un contesto preciso. Ma mi citano fuori contesto per farmi passare per matto».
Qual era il contesto?
«Appalti contrattati tra partiti e imprese: chiunque avesse avuto un ruolo in quel sistema criminale non poteva essere innocente; uno onesto nel sistema non ce lo tenevano. Prenda la Metropolitana Milanese. Costruita da imprese associate, con una capogruppo che raccoglieva il denaro da tutte le aziende e lo versava a un politico che lo divideva tra tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione. Di giorno fingevano di litigare; la notte rubavano insieme».
Voi però l’opposizione non l’avete colpita.
Davigo si inalbera: «Non è vero! Questa è una leggenda diffusa ad arte per screditarci! Io stesso condussi una perquisizione a Botteghe Oscure!».
Ma Forlani si dimise, Craxi morì ad Hammamet. Occhetto e D’Alema restarono al loro posto.
«Forlani fece una figuraccia al processo Enimont. Su Craxi si trovarono le prove, infatti fu condannato. Su altri non trovammo le prove. Il Pci era finanziato dalle coop in modo dichiarato e quindi legittimo. Ma a Milano, dove partecipavano alla spartizione delle tangenti, abbiamo mandato sotto processo diversi dirigenti comunisti».
Il Paese era con voi.
«Gli italiani non hanno mai avuto una grande considerazione di sé: siamo gli unici a dire di noi stessi cose terribili nell’inno nazionale, “calpesti”, “derisi”, “divisi”. All’epoca sembrò che tutto potesse cambiare. Ricordo un’intervista ai volontari che friggevano le salamelle alla festa dell’Unità; erano i primi a volere in galera i dirigenti che li avevano traditi. Ma cominciò presto il coro opposto: “E gli altri, perché non li avete presi?”».
Oggi la situazione è come allora?
«È peggio di allora. È come in quella barzelletta inventata sotto il fascismo. Il prefetto arriva in un paese e lo trova infestato di mosche e zanzare, e si lamenta con il podestà: “Qui non si fa la battaglia contro le mosche?”. “L’abbiamo fatta – risponde il podestà —. Solo che hanno vinto le mosche”. Ecco, in Italia hanno vinto le mosche. I corrotti».
Davvero pensa questo del nostro Paese?
«È il rimprovero che mi fece Vladimiro Zagrebelski. Al Csm erano ospiti 35 magistrati francesi, che mi chiesero di Tangentopoli. Risposi che nel 1994 erano crollati cinque partiti, tra cui quello di maggioranza relativa e tre che avevano più di cent’anni. Però noi eravamo stati come i predatori che migliorano la specie predata: avevamo preso le zebre lente, ma le altre zebre erano diventate più veloci. Avevamo creato ceppi resistenti all’antibiotico. Perché dovemmo interrompere la cura a metà».
Fu Berlusconi a fermarvi?
«Cominciò Berlusconi, con il decreto Biondi; ma nell’alternanza tra i due schieramenti, l’unica differenza fu che la destra le fece così grosse e così male che non hanno funzionato; la sinistra le fece in modo mirato. Non dico che ci abbiano messi in ginocchio; ma un po’ genuflessi sì».
Ad esempio?
«La destra abolì il falso in bilancio, attirandosi la condanna della comunità internazionale. La sinistra, stabilendo che i reati tributari erano tali solo se si riverberavano sulla dichiarazione dei redditi, introdusse la modica quantità di fondi neri per uso personale. E nessuno obiettò nulla».
Con Renzi come va?
«Questo governo fa le stesse cose. Aumenta le soglie di rilevanza penale. Aumenta la circolazione dei contanti, con la scusa risibile che i pensionati non hanno dimestichezza con le carte di credito; ma lei ha mai visto un pensionato che gira con tremila euro in tasca?».
Renzi ricorda spesso di aver aumentato le pene e di conseguenza la prescrizione per i corrotti.
«Ma prendere i corrotti è difficilissimo. Nessuno li denuncia, perché tutti hanno interesse al silenzio: per questo sarei favorevole alla non punibilità del primo che parla. Il punto non è aumentare le pene; è scoprire i reati. Anche con operazioni sotto copertura, come si fa con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta. Lo diceva anche Cantone; anche se ora ha smesso di dirlo».
Perché Cantone ha smesso di dirlo?
«Lo capisco. E non aggiungo altro».
Quindi si ruba più di prima?
«Si ruba in modo meno organizzato. Tutto è lasciato all’iniziativa individuale o a gruppi temporanei. La corruzione è un reato seriale e diffusivo: chi lo commette, tende a ripeterlo, e a coinvolgere altri. Questo dà vita a un mercato illegale, che tende ad autoregolamentarsi: se il corruttore non paga, nessuno si fiderà più di lui. Ma se l’autoregolamentazione non funziona più, allora interviene un soggetto esterno a regolare il mercato: la criminalità organizzata».
Com’è la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati?
«L’unica conseguenza è che ora pago 30 euro l’anno in più per la mia polizza: questo la dice lunga sulla ridicolaggine delle norme. Tutti abbiamo un’assicurazione. Non siamo preoccupati per la responsabilità civile, ma per la mancanza di un filtro. Se contro un magistrato viene intentata una causa, anche manifestamente infondata, gli verrà la tentazione di difendersi; ma così non farà più il processo, e potrà essere ricusato. È il modo sbagliato per affrontare un problema serio: perché anche i magistrati sbagliano».
Renzi viene paragonato ora a Craxi, ora a Berlusconi. Lei che ne pensa?
«Non mi piacciono i paragoni».
E del caso Guidi cosa pensa?
Davigo sorride: «Non ne parlo perché se capita a me in Cassazione poi mi ricusano».
«Non ci sono troppi prigionieri; ci sono troppe poche prigioni». Autentica anche questa?
«Sì. Ma non è una mia opinione; è un dato oggettivo. L’Italia è il Paese d’Europa che ha meno detenuti in rapporto alla popolazione. Ed è il Paese della mafia, della ‘ndrangheta, della camorra, della sacra corona; e della corruzione diffusa. Certo che servono nuove carceri. Con le frontiere ormai evanescenti, i Paesi con una repressione penale più forte esportano crimine; quelli con una repressione penale più debole lo importano».
L’Italia lo importa.
«Una volta a San Vittore trovai un borseggiatore cileno. Era stato arrestato quattro volte in un mese. Mi accolse con un sorriso: “Che bel Paese, l’Italia!”. Prima era stato arrestato a Ottawa ed era stato in galera due anni».
In Italia ci sono troppi avvocati?
«In una riunione europea degli Ordini professionali il presidente di turno ha detto che nell’Ue ci sono quasi 900 mila avvocati; e un terzo sono italiani. I più interessati al numero chiuso a giurisprudenza dovrebbero essere gli avvocati; se non altro per tutelare i loro redditi».
E ci sono troppi pochi magistrati?
«Ne mancano un migliaio. Ma non è un mestiere facile: ogni anno facciamo un concorso con 20 mila domande per 350 posti, e non riusciamo ad assegnarli tutti. Non è che ci sono pochi magistrati; è che ci sono troppi processi».
Come ridurli?
«In Italia tutte le condanne a pene da eseguire vengono appellate; in Francia solo il 40%. Sa perché? Perché in Francia si può emettere in appello una condanna più severa rispetto al primo grado. Facciamo così anche in Italia, e vedrà come si decongestionano le corti d’appello».
Ci sono troppi magistrati in politica?
«Secondo me i magistrati non dovrebbero mai fare politica. Perché sono scelti secondo il criterio di competenza; e avendo guarentigie non sono abituati a seguire il criterio di rappresentanza. Per questo i magistrati sovente sono pessimi politici».

***

MICHELE AINIS, CORRIERE DELLA SERA 23/4 –
Azione, reazione. Fra politica e giustizia funziona spesso così: io ti ficco un dito nell’occhio, tu mi ricambi con un morso sull’orecchio. O altrimenti può scoppiare un putiferio come dopo l’intervista che Piercamillo Davigo ha rilasciato ieri al Corriere . Ma a prendere le botte sono i cittadini, alle prese con un sistema giudiziario lento e capriccioso, dove le garanzie costituzionali rimangono sovente sulla Carta.
Colpa dei nostri antichi mali, d’un arretrato processuale che rotolando a valle s’ingrossa come una slavina, d’un fiume di leggi che a sua volta cresce senza sosta, alimentando l’incertezza del diritto. Ma è colpa altresì dello spirito rivendicativo dal quale sono animati i contendenti, è colpa degli opposti corporativismi che infiammano la cittadella politica e quella giudiziaria, ciascuna arroccata contro l’altra. Insomma, dalla separazione alla divaricazione dei poteri. E pazienza se viceversa la Consulta, ormai da tre decenni, indichi un canone di «leale collaborazione», giacché la macchina pubblica dopotutto è sempre una, e non può viaggiare se una ruota accelera mentre l’altra frena.
Da qui la conclusione, riassunta nelle parole dell’ambasciatore americano John Phillips, anch’esse registrate dal Corriere : i guai della giustizia italiana scoraggiano gli investitori stranieri, sono la palla al piede della nostra economia.
Ed è un delitto, perché il clima di scontro che si respira nuovamente in questi giorni rischia d’annullare i progressi — certo ancora timidi, episodici, parziali — del lumacone giudiziario. C’è infatti la lieta novella dei tribunali delle imprese, che nel 70% dei casi decidono in meno di un anno. Calano le pendenze civili: da 5,9 milioni di procedimenti nel 2009 a 4,5 milioni l’anno scorso. Dimagrisce il contenzioso davanti alla Corte di Strasburgo, anche se l’Italia resta pur sempre il quarto Paese (dopo Ucraina, Russia e Turchia) per numero di ricorsi. E il Consiglio d’Europa promuove le riforme fin qui varate dal governo per accorciare i tempi processuali.
Ma l’orologio dei nostri tribunali rimane comunque un orologio rotto: 8 anni per i giudizi civili, oltre 5 per quelli penali. Da qui le 130 mila prescrizioni che si contano ogni capodanno, altrettanti delitti senza castigo. Da qui l’allarme lanciato da Giovanni Canzio, presidente della Cassazione: la Suprema Corte è a rischio default, assediata da 80 mila nuovi ricorsi l’anno, che s’aggiungono ai 105 mila già pendenti. Da qui 8.382 cause civili aperte nel secolo passato, un elisir d’eterna giovinezza. Da qui fatti e misfatti giudiziari come l’inchiesta su un traffico di droga a Sulmona (udienza preliminare il 7 luglio, dopo 10 anni) o come la palazzina del Seicento vicentino pignorata nel 1994 e mai andata all’asta (l’ennesimo rinvio è stato fissato a maggio). Da qui, in conclusione, la fuga dalla giustizia pubblica verso forme d’arbitrato, o altrimenti la rinunzia tout court a difendersi in giudizio, tanto si sa che è tempo perso.
Ecco, è di questo che dovrebbero discutere giudici e politici, invece d’insultarsi. Dovrebbero ragionare su un sistema dove l’eccesso di garanzie si è convertito nel suo opposto, nell’assenza di qualunque garanzia. Dove la giostra d’appelli e contrappelli nega la tutela dei diritti, quando in Spagna, in Germania, in Francia l’appello viene consentito in pochi casi. Senza dire degli Usa (lì ne hanno diritto soltanto i condannati a morte). Dovrebbero sedersi attorno a un tavolo per mettere un tappo ai ricorsi in Cassazione (nel Regno Unito quest’ultima deposita non più di 80 sentenze l’anno). Dovrebbero studiare una misura per rendere omogenei i tempi giudiziari nelle diverse aree del Paese: se a Trieste l’1,8% appena delle cause civili in appello ha più di tre anni, mentre a Potenza quella stessa percentuale supera il 50%, significa che l’accesso alla giustizia dipende dal territorio che ti è capitato in sorte, negando il valore universale dei diritti. E infine giudici e politici dovrebbero ascoltarsi reciprocamente sulle intercettazioni, sulla prescrizione, sui limiti alla custodia cautelare, sulle regole che scandiscono i processi. Senza corporativismi, correntismi, giustizialismi o tutti gli altri ismi che intossicano la nostra vita pubblica. Perché se litighi non risolvi i problemi. Li crei.

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ALESSANDRO TROCINO, CORRIERE DELLA SERA 23/4 –
«Le dichiarazioni del presidente Davigo rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno». È secca la reazione del vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, alle accuse pronunciate da Piercamillo Davigo al Corriere della Sera . Ma il neopresidente dell’Anm dapprima non torna indietro e rincara la dose, poi cerca di allentare la tensione. Suscitando comunque l’ira del Pd renziano. E le perplessità del procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, che a Otto e mezzo spiega: «Davigo è una persona intelligente e brillante, ma sbaglia a generalizzare. Dicendo che sono tutti ladri, facciamo il gioco dei ladri». Quanto a Renzi, spiega Gratteri: «Non penso che abbia intenzione di attaccare i magistrati, ma potrebbe fare di più per il dialogo».
Davigo, nell’intervista ad Aldo Cazzullo, aveva spiegato che «i politici rubano più di prima». Con un’unica differenza: «Ora non si vergognano». Parole fuori luogo, secondo Legnini: «Tanto più mentre si sta tentando di ottenere, con il confronto anche critico, riforme, personale e mezzi per una giustizia efficiente e rigorosa». Non è il caso di intervenire su Davigo, spiega Legnini: «Il Csm è impegnato ad affermare in concreto l’indipendenza della magistratura e non è utile invocarne l’intervento sanzionatorio, pur a fronte di affermazioni non condivisibili, peraltro rese nell’esercizio di una funzione associativa».
Davigo, però, non torna indietro: «Dire che i magistrati devono parlare solo con le sentenze, equivale a dire che devono stare zitti». E lui non ne ha alcuna intenzione: «La classe dirigente di questo Paese, quando delinque, fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada. E fa danni più gravi». Nessun mea culpa della magistratura: «Chi ci dice che abusiamo della custodia cautelare è senza vergogna». Parole sgradite al presidente dell’Unione delle camere penali, Beniamino Migliucci: «Considerazioni demagogiche, datate e banali. Davigo è manicheo: si candida a rappresentare il bene. Forse gli dà fastidio che la politica si riprenda gli spazi e la magistratura non detti più l’agenda». In serata la precisazione di Davigo: «Mai pensato che tutti i politici rubino, non ho mai inteso riferirmi ai politici in generale ma ai fatti di cui mi sono occupato».
Nel Pd scatta la rivolta dei renziani, per le frasi in cui Davigo non risparmia il premier: «Questo governo fa le stesse cose di prima». David Ermini, responsabile Giustizia: «Le parole di Davigo fanno paura ai magistrati. Cerca la rissa ma non la troverà. I giudici parlino con le sentenze, noi rispettiamo il loro lavoro». Per Andrea Romano, «a Davigo è scappata la frizione»: «È nostalgico, vuole tornare al 1992». Matteo Orfini: «Le classi dirigenti non dovrebbero parlare come al bar». Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, a Washington, preferisce non commentare. Dario Ginefra invoca Mattarella: «Si renda protagonista di una stagione di rasserenamento». Luciano Violante è netto: «L’intervista di Davigo è un errore. Spero che la prossima sia più misurata». Ma non tutti nel Pd la pensano così. Il lettiano Marco Meloni: «Ottimo Davigo: una magistratura implacabile contro la corruzione serve alla politica».
Alessandro Trocino

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SILVIO BUZZANCA, LA REPUBBLICA 23/4 –
«Non ho mai pensato che tutti i politici rubino, anche perché ho più volte precisato che se così fosse non avrebbe senso fare processi che servono proprio a distinguere». È sera quando Piercamillo Davigo detta alle agenzie una dichiarazioni che dovrebbe mettere fine alle ostilità con il Pd e un pezzo della magistratura. Uno scontro iniziato di buon mattino, quando nel Palazzo hanno letto un’intervista del neopresidente dell’Anm al
Corriere della Sera.
Davigo dice che «i politici non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi». Aggiunge che oggi la situazione «è peggiore », rispetto a Tangentopoli. Parole sferzanti che suscitano subito la reazione del Pd. «Davigo cerca la rissa, ma non lo troverà. I giudici parlino con le sentenze, noi rispettiamo il loro lavoro», replica Davide Ermini, responsabile Giustizia del Pd.
Ma Davigo non vuole proprio tacere. Anzi. Così nel pomeriggio a Pisa per una lezione universitaria replica. «Dire che i magistrati devono parlare solo con le loro sentenze equivale a dire che devono stare zitti». E rincara la dose. Su tutto.
Per esempio le intercettazioni. «Oggi inchieste recenti dimostrano che il sistema corruttivo è proseguito ininterrotto», dice. «E a noi - aggiunge - ci dicono che abusiamo della custodia cautelare: sono senza vergogna». Parla ancora dei politici: «La classe dirigente di questo paese quando delinque fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada e fa danni enormi».
Parole durissime che però non piacciono ad altri magistrati. «Penso che Davigo abbia sbagliato a generalizzare, se si dice che “sono tutti ladri”, facciamo il gioco dei ladri”, dice Nicola Gratteri, neo procuratore capo di Catanzaro. Anche Luca Palamara, ex presidente dell’Anm, prende le distanze: «Le generalizzazioni a me non piacciono».
Parla anche Giovanni Legnini: «Parole che rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il paese non hanno alcun bisogno», dice il vicepresidente del Csm. Il Pd attacca Davigo, i grillini lo difendono. Con loro anche un democratico: Marco Meloni: «Magistratura autonoma e implacabile contro la corruzione serve a politica e istituzioni. Ottimo Davigo», twitta il deputato lettiano.

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ALDO CAZZULLO, CORRIERE DELLA SERA 23/4 –
Dottor Cantone, lei è presidente dell’Autorità anticorruzione. Piercamillo Davigo sostiene che in Italia hanno vinto i corrotti. E lei?
«Non è assolutamente vero. Dire che tutto è corruzione significa che niente è corruzione, e il sistema non può essere emendato. Io non accetto questo pessimismo cosmico. Mi ribello a questa visione che esclude qualsiasi ricetta. Il pessimismo fine a se stesso diventa una resa. E questa resa nell’Italia di oggi non c’è».
Quindi non è vero che oggi è peggio di Tangentopoli?
«No, non è vero. È vero che Tangentopoli non sradicò la corruzione, che è continuata come un fiume carsico. Ma ora vedo molte persone che vogliono provare a uscirne. E pensano che la soluzione non sia solo la repressione, che la ricetta non sia solo la stessa del 1993, che all’evidenza ha fallito. Uno non può ripetere le stesse cose a distanza di anni, e dire che è sempre colpa degli altri se le vecchie ricette non hanno funzionato».
Che cosa intende?
«L’idea che tutto si risolva con le manette è stata smentita dai fatti. La repressione da sola non funziona. Colpisce ex post; spesso in modo casuale; sempre quando i danni sono già fatti. La prevenzione ha tempi più lenti. Ma nei Paesi del Nord Europa, dove la corruzione è bassissima, ha funzionato».
Anche Davigo parla di prevenzione, di agenti infiltrati che incastrino i politici. E dice che pure lei, fino a qualche tempo fa, ne parlava.
«E continuo a farlo. Ho parlato di agenti infiltrati un mese fa, a un convegno di magistrati. Capisco che Davigo possa non seguire quello che dico, ma in questo caso non è molto informato. Lo stimo, sono stato tra i primi a fargli gli auguri. Condividiamo l’amore smisurato per la magistratura; ma l’amore porta lui a vedere solo gli aspetti positivi; e porta me a vedere gli aspetti critici».
Quali aspetti critici?
«Molto spesso la magistratura non riesce a dare risposte ai cittadini, perché è sovraccaricata di compiti non suoi. Si pensa che debba occuparsi soprattutto dei grandi temi, e un po’ meno del senso di giustizia individuale. Sul piano dei tempi e della prescrizione la risposta è insufficiente. Non a caso Ilvo Diamanti sostiene che la magistratura negli ultimi anni ha perso oltre il 20% della sua credibilità, passando dal 70% a sotto il 50. Si può sempre dire che la colpa è degli altri? Io mi ribello a questa logica del fortino assediato. La magistratura ha meriti eccezionali; ma sarebbe scorretto non evidenziare che certi meccanismi organizzativi non funzionano».
A cosa si riferisce?
«A tante persone che vengono in contatto con il sistema giustizia — non gli imputati; i testimoni, le parti lese — e non ne darebbero questi giudizi entusiasti. Non è giusto dire: va tutto bene madama la marchesa, e se va male la colpa è altrui. Ci sono testimoni che sono andati dieci volte ai processi e dieci volte sono stati rimandati indietro. Ci sono uffici giudiziari che danno risposte, e altri che non lo fanno. Ripeto: io amo la magistratura. Ma ho un’idea diversa del suo ruolo».
La sua idea qual è?
«In certe battaglie la magistratura è uno dei soggetti. Davigo pensa che sia l’unico a poter risolvere i problemi. Non condivido una visione autoreferenziale e salvifica. La magistratura non deve salvare il mondo; deve accertare i reati penali e decidere i processi civili. In nessun Paese del pianeta ha il monopolio nelle questioni di legalità; altrimenti finisce per esercitare una funzione di supplenza nei confronti della politica».
Se i politici smettessero di rubare darebbero una bella mano, non crede?
«Certo. La politica deve fare molto di più. Ma è ingiusto non riconoscere quanto è stato fatto negli ultimi anni. Dire che non cambia mai nulla è funzionale all’idea di non far cambiare mai nulla. Noi come magistratura abbiamo chiesto nuove norme sul falso in bilancio, sul voto di scambio politico mafioso, sull’autoriciclaggio: e queste riforme sono state fatte. Alcune potevano essere scritte meglio, ma qualche perplessità è stata superata dalle interpretazioni della giurisprudenza. Non riconoscere che qualcosa si può fare è come dire che non c’è più niente da fare, che l’unica strada sono le manette. Ma non è così».
Il sentire diffuso è che il governo stia facendo poco contro la corruzione, e usi lei come foglia di fico.
«Io sto ai fatti, non alle allusioni. Tutte le volte che c’era da criticare il governo non mi sono mai tirato indietro. Il primo a denunciare il rischio dell’innalzamento dei contanti a 3 mila euro sono stato io. Ma per la prima volta c’è in Italia un’Autorità indipendente contro la corruzione cui sono stati dati poteri, secondo una visione nuova che non è affatto alternativa alla magistratura, al contrario di quel che qualcuno tende a pensare. L’Ocse, che bacchetta sempre l’Italia, ha elogiato il nostro lavoro sull’Expo. Il nuovo codice degli appalti ci attribuisce poteri autentici».
Non direi: potete intervenire solo sugli appalti sopra i 5 milioni di euro, escludendo il 95% dei contratti.
«Non è così. Quella soglia riguarda solo le commissioni di gara; i nostri poteri riguardano tutti gli appalti».
Sicuro?
«Ci sono criticità, ma c’è uno sforzo autentico, e se ne vedranno i risultati».
Però continuano gli scandali. E gli arresti.
«Sono fatti molto gravi. Ma se emergono è la prova che il sistema reagisce. Fino a poco fa qualche leader politico sosteneva che la corruzione non esisteva; oggi nessuno la nega. Non dico che la strada sia conclusa, sarei un folle. Ma è sbagliato non prendere atto di quel che è avvenuto, grazie al Parlamento che ha votato andando oltre la maggioranza di governo».
È d’accordo con Renzi che parla di «barbarie giustizialista»?
«Barbarie giustizialista è un’espressione esagerata. C’è stato un periodo in cui non tanto la magistratura, quanto l’interpretazione dei provvedimenti della magistratura ha creato eccessi: bastava essere indagato per venire messo alla gogna».
I paragoni sono sempre impossibili, ma viene in mente che, in un contesto diverso, Falcone quando andò a lavorare per il ministero di Grazia e Giustizia si ritrovò isolato.
«Una parte della magistratura è convinta che collaborare col potere politico ti inquina. Io dico che in questo periodo, e sono disponibile a essere sfidato sul piano della verità, nessun politico di nessuna parte mi ha mai chiesto di fare qualcosa che non potevo fare. Quando facevo il magistrato, qualcuno ci ha provato».
Chi le ha fatto pressioni?
«Nessuna pressione. Semmai, il sentore che qualcuno ci stesse provando: poteva capitare il collega che diceva “ti stai occupando del processo X…”. Nessuno è mai andato oltre. Ma lo posso testimoniare in qualsiasi tribunale, soprattutto nel tribunale della mia coscienza: l’idea che ci sia un mondo tutto pulito, la magistratura, e un mondo tutto sporco, la politica e la burocrazia, è comoda da vendere come fiaba; ma è falsa. La magistratura è fatta al 99 per cento di persone perbene, ma le mele marce ci sono; come ci sono persone perbene in politica. Il retropensiero che ci si debba sporcare con i rapporti istituzionali, malgrado quello che è successo a Falcone, continua a essere usato: con allusioni e attacchi ingiustificati, basati sul nulla. In che cosa noi dell’Autorità abbiamo fatto da ruota di scorta? Se Renzi la evoca di continuo è perché finalmente l’Autorità sta provando a lottare contro la corruzione, non perché ci sia un rapporto incestuoso. Se qualcuno ha le prove di rapporti incestuosi, le tiri fuori; non usi illazioni. Altrimenti finisce come quando Falcone veniva chiamato eroe dagli stessi che lo appellavano come traditore».
A chi si riferisce?
«Ero uditore giudiziario quando partecipai ad assemblee di magistrati che, quando fu fatta la Direzione nazionale antimafia, usavano per Falcone parole tra cui la più buona era traditore. Quegli stessi, 15 giorni dopo, usavano la parola eroe».
Quegli stessi chi?
«Riportare i nomi di chi interveniva in assemblee private non mi pare corretto. E comunque non è una cosa che sto improvvisando: l’ho scritta in un libro del 2007».
In Italia servono più carceri?
«Sì, ma la questione riguarda soprattutto l’ordine pubblico: per i reati di criminalità di strada abbiamo una legislazione e un’applicazione della legislazione eccessivamente elastiche».
Ci sono troppi magistrati in politica?
«Ci sono stati troppi magistrati in politica; e molto spesso non hanno fatto grandi figure. Il nostro lavoro non ti abitua certo alla ricerca del consenso. È sbagliata l’idea che un magistrato non possa fare politica; è sbagliato semmai che dopo aver fatto politica torni a fare il magistrato».
Lei la politica non la farà mai?
«Non ci penso assolutamente. Il mio mandato scade nel 2020. E la mia idea è tornare a fare il magistrato».

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GIOVANNI BIANCONI, CORRIERE DELLA SERA 23/4 –
Nemmeno chi temeva la sua eccessiva irruenza mediatica, tra i colleghi che l’hanno eletto presidente dell’Associazione nazionale magistrati, pensava che il problema si sarebbe materializzato così presto. Ad appena due settimane da quella scelta le toghe delle altre correnti — soprattutto le principali e più forti, Unità per la costituzione e Area, il centro e la sinistra giudiziaria — si trovano a fare i conti con un capo che, hanno commentato fra loro per tutta la giornata di ieri, «sta schiacciando l’Anm su posizioni che sono le sue, non le nostre». Con buona pace della Giunta unitaria che lo sostiene nel sindacato dei giudici. Tre o quattro interventi a seguire, su quotidiani e tv, hanno mostrato un Davigo all’attacco della politica senza fare troppe distinzioni tra questo o quel partito, con una lettura «da guardie e ladri» della storia d’Italia degli ultimi 25 anni che non tutti condividono. E che qualcuno non esita a definire «di destra o qualunquista»; non tralasciando di ricordare che nel lontano 1994, agli albori del primo governo Berlusconi sorto sulle ceneri di Tangentopoli, la proposta di Davigo ministro della Giustizia (da affiancare a Di Pietro all’Interno) veniva da Alleanza nazionale.
Certo, l’ex pm di Mani pulite è stato il più votato alle ultime elezioni interne, nonostante la sua corrente sia minoritaria (Autonomia e solidarietà, gli scissionisti del gruppo di destra Magistratura indipendente), ma questo non fa che confermare una indiscutibile leadership personale. Il resto, la cosiddetta «linea politica» che esiste in qualsiasi organismo di rappresentanza, è un’altra cosa. Mercoledì prossimo alla riunione già convocata, la Giunta discuterà delle esternazioni del presidente e dovrebbe arrivare un chiarimento interno. Per andare avanti uniti, anche perché non sembra esserci alternativa, ma con l’obiettivo di registrare toni e argomenti di dibattito. Tra le rare dichiarazioni di solidarietà e di sostegno a Davigo giunte dai palazzi della politica spiccano quelle di Di Maio e Salvini, cioè Cinque stelle e Lega: un particolare che allarma chi paventa l’idea che l’Anm si ritrovi — strumentalmente o meno — al fianco delle opposizioni più rumorose al governo Renzi.
«Non è il momento di alimentare un inutile scontro fra politica e magistratura, il conflitto fa notizia ma noi dobbiamo evitare di essere portati su questo terreno», ha commentato Luca Palamara, che dell’Anm è stato presidente e oggi, al Consiglio superiore della magistratura, guida i centrista di Unicost. Cercando di tessere mediazioni non solo tra le componenti togate, ma pure con i «laici» dell’organo di autogoverno, in particolare quelli di centro- sinistra. Proprio il Csm — e proprio all’esito di queste alleanze ancora incerte — sceglierà a breve il nuovo procuratore di Milano, e fra i tre concorrenti il favorito resta Francesco Greco, un altro ex pm di Mani pulite. Ma i giochi non sono fatti. Tra lui e Davigo ci sono grandi differenze, anche di ispirazione politico-culturale, ma sul piano della comunicazione e dell’immagine (che conta molto, in politica come in magistratura ormai) le uscite del neopresidente dell’Anm non aiutano la candidatura di Greco.

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GIANLUCA DI FEO, LA REPUBBLICA 23/4 – 
Competenza, rigore e meriti di Piercamillo Davigo sono fuori discussione. Come pubblico ministero ha condotto indagini fondamentali sulla corruzione: è stato la mente giuridica del pool che ha svelato Tangentopoli, con un ruolo determinante nel trasformare le inchieste in processi. Poi come giudice ha scritto sentenze che ne hanno confermato l’autorevolezza. Lontano dagli stereotipi sulle “toghe rosse”, in quasi quarant’anni di onoratissima carriera non ha mai rinunciato a esprimere le sue idee: una visione netta, senza sfumature, in cui bianco e nero sono sempre distinti. Una posizione tradotta in metafore estremamente efficaci, che ripete dal 1992.
Due settimane fa, la sua nomina al vertice dell’Associazione nazionale magistrati, il “sindacato” della categoria, è stata una sorpresa: solo un anno fa Davigo ha lasciato la corrente “moderata”, a cui era iscritto dal 1978, denunciando la prevalenza di «una sudditanza dalla politica». E la scelta dell’intera Anm di eleggerlo alla presidenza è apparsa subito come un messaggio chiaro al governo Renzi: la manifestazione di un malessere diffuso verso le esternazioni del premier. Con l’intervista al Corriere della Sera quel segnale ora rischia di trasformarsi in una dichiarazione di guerra.
Dopo un intervento dai toni altrettanto duri a un convegno, ieri sera il “dottor Sottile” – come Davigo era stato soprannominato ai tempi di Mani Pulite - ha cercato di correggere il tiro: «Mai pensato che tutti i politici rubino, mi riferivo ai fatti di cui mi sono occupato e a quelli che ho successivamente appreso essere stati commessi». Ma la portata del discorso espresso come presidente dell’Anm resta pesante.
Quanti magistrati condividono questa linea? Per tutta la giornata, procuratori, sostituti e giudici si sono interrogati, in un dibattito rimasto sottotraccia. Molti si sono sentiti spiazzati. Le ultime dichiarazioni di Matteo Renzi non sono piaciute a nessuno ma il distinguo rispetto alla stagione berlusconiana viene rimarcato spesso, perché nonostante i toni infelici, le critiche del premier finora sono rimaste nei confini istituzionali. Anche sul fronte più caldo, quello delle intercettazioni, il modello evocato da Palazzo Chigi sono le forme di autoregolamentazione volute da procuratori di primo piano come Giuseppe Pignatone e Armando Spataro. E il ministro Andrea Orlando si è dimostrato un interlocutore aperto al dialogo e attento alle istanze delle toghe.
Certo, la magistratura sta vivendo un momento senza precedenti, con un ricambio di massa ai vertici degli uffici giudiziari provocato dai nuovi limiti d’età, forse l’unica vera rottamazione introdotta dal governo. Ma il sentimento dominante tra le toghe sembra essere soprattutto la delusione per le promesse non mantenute dall’esecutivo, a partire dalla riforma della prescrizione insabbiata nei meandri del Parlamento. Tra le buone intenzioni finite nel dimenticatoio si cita pure la commissione a cui Renzi nell’estate 2014 ha chiesto di studiare la revisione dell’intera macchina giudiziaria: lo stesso Davigo è stato chiamato a farne parte, assieme a un altro procuratore duro e puro come Nicola Gratteri. Che ieri ha criticato il collega: «Se si dice che “sono tutti ladri”, facciamo il gioco dei ladri ».
Ecco, questo è il punto chiave. La convinzione – presentata da Edmondo Bruti Liberati – che «non esista una magistratura buona e una politica cattiva». Ribadita poi dal monito del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini sul rischio di «alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno bisogno». Perché un ventennio di guerra e polemiche ha peggiorato le condizioni dei tribunali. Ed oggi c’è bisogno di «riforme, personale e mezzi per vincere la battaglia di una giustizia efficiente e rigorosa, a partire dalla lotta alla corruzione e al malaffare ». Parole– come rivela Liana Milella – concordate con il capo dello Stato. Che sembrano più vicine alla linea della magistratura. E soprattutto alle necessità dei cittadini.

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CESARE MIRABELLI, IL MESSAGGERO 23/4 –
Ancora una volta è la giustizia a tenere il campo, o meglio il tono acuto di una polemica aperta dal nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati nei confronti di leggi sgradite e del mondo politico, che sarebbe popolato da corrotti impenitenti e sfacciati, in un contesto peggiore di quello messo a fuoco nel periodo eroico di “mani pulite”.
Se fossero le personali opinioni, del resto non nuove, di uno dei magistrati protagonisti di quella stagione, non ci si potrebbe sorprendere. Ma si tratta delle prime dichiarazioni pubbliche di chi, per il ruolo associativo ricoperto, sembrerebbe chiamato a dare voce unitaria alle opinioni della “magistratura associata”. Se questa è la linea della associazione, le perplessità che si possono avere per affermazioni tanto pesanti, diventano preoccupazione, sia per come viene impropriamente descritta la realtà del Paese e delle istituzioni, sia per la concezione del ruolo della magistratura che esse manifestano.
Contrastare una visione generalizzante, che considera le istituzioni e la politica come il terreno di coltura della corruzione, non significa affatto esprimere tolleranza nei confronti di questo fenomeno delinquenziale. Significa piuttosto rifiutare di considerare chiunque si dedica, spesso con limpido impegno, alla cosa pubblica un potenziale malfattore. O peggio un malfattore non ancora scoperto. Questo, naturalmente, non vale solo per la categoria dei “politici”.
È sempre una concezione deviante e pericolosa considerare il cittadino un sospettato da trattare come “giudicabile”, e questo vale anche per politici e amministratori.
Non può che condividersi con decisione la necessità di combattere ogni fenomeno corruttivo, sia esso di piccole o di grandi dimensioni. Ma occorre anche ricordare che la risposta efficace non è riservata e ristretta all’azione penale, destinata a salvare la società dai corrotti. Anzi, una organizzazione della pubblica amministrazione che ne assicuri il buon andamento, e regole semplici ed efficaci che ne disciplinino l’azione, costituiscono lo strumento essenziale di prevenzione della corruzione.
Nell’ambito della legislazione penale sono state di recente introdotte dal Parlamento nuove figure di reato, che hanno esteso ampiamente l’area dei comportamenti penalmente rilevanti ed istituito un apposita autorità di contrasto, in rispondenza anche a convenzioni internazionali. Né mancano gli strumenti per una azione incisiva della magistratura orientata a individuare e colpire corrotti e corruttori.
Le intercettazioni telefoniche, rivendicate dalla magistratura come strumento essenziale per le indagini, sono ora disposte con una larghezza sconosciuta ad ogni altro paese, ed i contenuti spesso vengono diffusi al di là delle esigenze del processo.
Il processo, appunto. Non è il terreno di lotta tra magistrati che rappresentano il bene, con il sostegno di una tifoseria popolare, e accusati che incarnano il male e cercano di farla franca. E chi è assolto non è un malandrino più furbo o fortunato, ma un innocente non di rado inutilmente processato. Constatare quante azioni penali promosse con clamore si siano concluse con una assoluzione dovrebbe far riflettere.
La magistratura richiama spesso, e giustamente rivendica, la “cultura della giurisdizione”. Ma questa rischia di essere una formula vuota, se si ha una visione tutta penalistica della realtà sociale e delle istituzioni, quale traspare dalla intervista che apre, da parte di chi rappresenta la magistratura associata, una fase polemica verso le istituzioni politiche. È bene che questa ascia di guerra sia presto sotterrata, per trovare quella convergenza tra istituzioni politiche rappresentative e magistratura necessaria per contrastare efficacemente la corruzione.

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VALENTINA ERRANTE, IL MESSAGGERO 23/4 –
«Bisogna mantenere l’unità e cercherò di fare il mio meglio per essere il presidente di tutti», qualche settimana fa, a poche ore dalla sua elezione, quella dichiarazione di Piercamillo Davigo aveva in qualche modo rassicurato le diverse anime dell’Associazione nazionale magistrati. E invece i sospetti e la diffidenza di alcuni si sono rivelati fondati, perché il clima, ieri, dopo le pesantissime dichiarazioni del presidente, non era soltanto di grande imbarazzo, ma anche di disappunto. Per opportunità, la presa di distanza ufficiale, ampiamente concordata, viene resa pubblica per bocca del predecessore dello stesso Davigo, Luca Palamara di Unicost, che non ha più alcun ruolo nel sindacato. Nessun commento dal segretario dell’Anm, Francesco Minisci, né dal successore in pectore di Davigo, Eugenio Albamonte. Ma i malumori per le dichiarazioni inopportune, che alimentano il conflitto con la politica, sono trasversali e superano le correnti interne all’associazione: da Area a Magistratura indipendente la reazione è identica. Anche la lettura politica è univoca, e arriva soprattutto da sinistra: quelle esternazioni di Davigo servono ad alimentare il malcontento diffuso proprio nella base della magistratura, per le misure non del tutto ”friendly” del governo nei confronti della categoria: dalla diminuzione delle ferie alla legge sulla responsabilità civile. Faccende corporative. Con un obiettivo specifico da parte del presidente: prolungare un mandato che prevederebbe le dimissioni tra un anno.
L’IMBRAZZO
«Davigo descrive quasi un rapporto caricaturale tra magistratura e politica, dimentica di essere presidente dell’Anm e falsa la pozizione dell’associazione», commenta un magistrato di Area. La lettura politica, rigorosamente anonima, arriva da parte di chi nell’Anm ha avuto o ha un ruolo: «Che Davigo fosse così si sapeva, è chiaro che simili dichiarazioni mettano in difficoltà chi rispetta i ruoli istituzionali, ma le parole di Davigo hanno un obiettivo: alzano il livello dello scontro, rompono gli schemi e scaldano il cuore di quanti, all’interno della magistratura, sono scontenti per questioni meramente corporative. Una scelta che dà a grande visibilità al presidente, lo rende più forte e, probabilmente, tra un anno costituirà un ostacolo alla sua successione già prevista». Ma non solo, proprio per i più attenti, all’interno del sindacato le dichiarazioni delle’x pm di mani pulite «rafforzano il governo Renzi». È un altro magistrato a commentare: «Quanto afferma Davigo non corrisponde a una posizione condivisa dall’Anm, alimenta una contrapposizione con la politica di cui non si sente il bisogno, da una parte i ladri, politici, dall’altra i magistrati. Davigo fa di tutta l’erba un fascio e parla come un capo popolo».
LE REAZIONI
Per Antonello Ardituro di Area, «Occorre evitare le generalizzazioni dannose. Forse - dice - l’ex pm anticamorra oggi consigliere del Csm - Davigo ha reso quelle dichiarazioni nelle vesti di ex pm di Mani Pulite. Da presidente dell’Anm occorre maggiore attenzione per evitare di ingenerare l’idea di una magistratura pregiudizialmente conflittuale con la politica. Abbiamo bisogno, invece, di collaborazione, per far funzionare meglio la giustizia». Già dalla prima mattina di ieri, era stato Palamara a prendere le distanze: «Le generalizzazioni a me non piacciono. Non dobbiamo cadere nella trappola del conflitto che ai magistrati non giova». Identico ragionamento di Antonello Racanelli, procuratore aggiunto a Roma e leader di Magistratura indipendente, critico per i «toni eccessivi, parole esagerate, generalizzazioni superficiali e ingiuste». Poi aggiunge: «Bisogna evitare di alzare la tensione tra politica e magistratura, che non fa bene a nessuno. Anzichè offendersi a vicenda - suggerisce Racanelli- occorre rivendicare i mezzi per far funzionare meglio e con maggiore efficienza la giustizia». E neppure Nicola Gratteri, neoprocuratore di Catanzaro, condivide le parole di Davigo: «Penso che abbia sbagliato a generalizzare, bisogna sempre entrare nello specifico. Se si dice che ”sono tutti ladri”, facciamo il gioco dei ladri».
Valentina Errante

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MARCELLO SORGI, LA STAMPA 23/4 –
La nomina di un uomo-simbolo come Pier Camillo Davigo, membro del pool di Mani pulite ai tempi di Tangentopoli, alla guida dell’Anm, era stata salutata come il possibile inizio di un periodo di dialogo tra giudici e politici, dopo più di vent’anni di guerra calda e fredda, e di riforme della giustizia abortite in Parlamento grazie anche alla sorda resistenza del partito dei magistrati eletti nelle Camere. Le prime uscite del nuovo leader del sindacato delle toghe avevano già raffreddato le attese di chi pensava che un uomo del prestigio e del rigore di Davigo potesse trasformarsi in un interlocutore in grado di trovare un punto di intesa sui cambiamenti necessari e vincere al tempo stesso le resistenze di gran parte della magistratura. Ma dopo l’intervista rilasciata al «Corriere della Sera» è apparso chiaro che Davigo non ha alcuna intenzione di aprire un canale di comunicazione né con il governo né con le forze politiche. I politici, ha detto senza mezzi termini, rubano più di prima. E se il centrodestra ha agito in modo grossolano, il centrosinistra lo fa in modo «mirato», e Renzi, quando dice che i giudici devono parlare con le sentenze, lo fa perché li vuole «genuflettere».
Parole che hanno sollevato un prevedibile coro di reazioni preoccupate, a partire dal vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Legnini, dal responsabile renziano del settore giustizia Ermini, dall’ex-segretario dei Popolari Pierluigi Castagnetti, vicinissimo al Capo dello Stato. Perfino un collega e predecessore di Davigo come Palamara, niente affatto tenero quando guidava l’Anm, ha preso le distanze.
Perché al di là delle singole affermazioni e della genericità di alcune accuse che hanno colpito un po’ tutti, è il tono complessivo dell’intervista che ha creato sconcerto. Se anche voleva essere una risposta al duro intervento pronunciato da Renzi al Senato martedì, a conclusione del dibattito sulle mozioni di sfiducia, la reazione è stata senz’altro eccessiva, perché il presidente del Consiglio si riferiva a casi specifici e a modalità temporali sbagliate, come appunto è avvenuto per l’inchiesta sugli impianti petroliferi in Basilicata, venuta allo scoperto a pochi giorni dal voto per il referendum sulle trivelle. Mentre Davigo ha sparato ad alzo zero contro tutti i politici e con un tono che a qualcuno ha ricordato il Grillo dei «vaffa-day». La tregua tra politici e magistrati, di questo passo, è destinata a restare un miraggio. Dopo la carica suonata da Davigo, la guerra invece è destinata a riprendere.

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UGO MAGRI, LASTAMPA.IT 23/4 –
Nei palazzi romani sono tutti imbufaliti con Camillo Davigo, neo presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Il quale nel ’93 fu protagonista di Mani Pulite e ora sostiene che è «peggio di Tangentopoli, i politici non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi, rivendicano con sfrontatezza quello che prima facevano di nascosto» (dall’intervista con Aldo Cazzullo sul «Corsera»). Insomma, secondo Davigo si ruba addirittura più di prima. Ma è proprio così, oppure il capo sindacale delle toghe ha voluto esagerare?
Nel 1993 la politica letteralmente si reggeva sulla corruzione. Le mazzette non servivano per finanziare questo o quell’esponente, ma per alimentare l’intero sistema dei partiti, dei loro giornali, delle correnti, dei galoppini, dei comitati elettorali: ogni anno cifre mostruose, sull’ordine delle centinaia di milioni attuali. Prelevare un «pizzo» alle imprese era la regola consacrata, un meccanismo istituzionalizzato al punto che i protagonisti si riconoscevano reciprocamente il diritto di rubare. Gli amministratori dei partiti (senza eccezioni) incassavano valigette colme di banconote, stile Al Capone. Tutti lo sapevano e, in un certo senso, Mani Pulite scoprì l’acqua calda. Ma il panico nei politici fu tale che, sull’onda di Tangentopoli, crollò la Prima Repubblica. Insomma, fu un fenomeno di proporzioni epocali.
Nel 2012, i parlamentari con problemi di giustizia erano 117, soprattutto berlusconiani; oggi se ne contano un’ottantina, solo in parte per reati che riguardano il patrimonio. Lo scandalo Mose ha incastrato Galan, il quale era stato ministro. Un altro ex ministro, Scajola, ha fatto parlare di sé per la casa acquistata a sua insaputa, ma l’hanno assolto. Lusi, tesoriere della Margherita, si impadronì della cassa e venne scoperto. Milanese, aiutante del ministro Tremonti, è sotto processo... Le cronache giudiziarie sono ricche di casi, sì, però molto più a livello locale che centrale. Riguardano soprattutto sindaci, assessori, consiglieri regionali di ogni colore politico. Grillo ne ha contati 22 del Pd durante il 2015. Pure qualche grillino è finito nei guai, uno addirittura mentre trafugava un portafogli. Se Davigo intende dire che la politica rimane ad altissimo rischio, impossibile dargli torto. Idem se si riferisce al livello morale degli italiani. Ma se si fa un raffronto con Tangentopoli, alcune differenze balzano agli occhi.
I partiti, ormai, non ci sono più; nella turbo-democrazia degli anni Duemila i leader decidono dalla «a» alla «z». Le liste dei «nominati»hanno reso superflue le dispendiosissime campagne elettorali dove si contavano le preferenze. Dunque per il furto, oggi, non esiste più nemmeno la giustificazione, o presunta tale, usata vent’anni fa da quanti venivano colti con le mani nel sacco: «Sono soldi che ho preso per il partito e non per me». Adesso la corruzione finisce tutta quanta e interamente nelle tasche di chi la pratica. La cifra globale non può raggiungere le vette di una volta, al confronto si rubacchia. Però nessuno può più accampare motivazioni ideali: chi arraffa, lo fa solo ed esclusivamente per sé e per i suoi cari.

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PIERO COLAPRICO, LA REPUBBLICA 23/4 – 
«Non esiste una magistratura buona contro un’Italia di cattivi, vederla così è in linea di principio sbagliato, e inoltre si scontra con la realtà». Con Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore capo di Milano, ex membro del Csm, per anni all’Associazione nazionale magistrati, da qualche mese in pensione, proviamo ad analizzare le nuove tensioni che dividono politica e magistratura.
Dottor Bruti, le battaglie tra magistrati e politici cominciarono in Italia negli anni Settanta del secolo scorso… «Sì, lo scontro viene a galla quando la magistratura acquisisce nei fatti un’indipendenza e una volontà di non fermarsi di fronte ai santuari, dagli scandali Lockheed e petroli, alla strage di piazza Fontana, ma i paragoni con il passato servono a comprendere l’evoluzione, non l’oggi. L’essenziale per l’Anm è esprimere con chiarezza la propria opinione sui problemi della giustizia, ma altrettanto essenziale è che l’Anm non esca dal suo ruolo».
Se una parte del paese chiede ai politici corrotti un passo indietro e i politici non ascoltano, come se ne esce?
«Comunque non tocca ai magistrati affrontare “il problema della corruzione”, i magistrati si occupano di casi singoli che costituiscono reato. Non danno ricette né affrontano i problemi deontologici altrui. E, sinceramente, un passo avanti c’è sull’aspetto della prevenzione grazie all’Anac, l’autority anti- corruzione. L’abbiamo vista a Milano con l’Expo. L’Anac ha ricoperto il suo ruolo di “investigatore” nelle pratiche amministrative, la magistratura ha svolto indagini penali e i processi in tempi rapidi, mentre il prefetto con le interdittive antimafia ha eliminato alcune aziende sospette. Fine. L’Anac è giovanissima, deve ancora assestarsi, ma uno strumento per non sprecare denaro pubblico con appalti fasulli ora c’è».
Oggi come ieri, però, la tensione cresce sempre sullo stesso tema, la corruzione dilagante, o no?
«Rispetto al passato, la magistratura riesce a indagare sino in fondo su casi rilevanti. Questo suo compito, riconosciuto, deve essere rispettato dalla politica. Viceversa, non ci siamo quando si dice o si fa capire che può essere la magistratura a risolvere questioni di costume o di etica pubblica. Se fossimo ridotti a questo saremmo davvero un povero paese».
Quindi?
«Ipotizzare una magistratura buona contro l’Italia dei cattivi è sbagliato in linea di principio e si scontra con realtà. Purtroppo abbiamo avuto casi di corruzione nella magistratura e non sempre la deontologia che l’Anm propone come codice etico è rispettata. Ognuno dovrebbe guardare al suo interno. Ma la politica non deve sottovalutare il malessere dei tanti magistrati che lavorano in condizioni frustranti per mancanza di mezzi e personale».
Non c’è una differenza tra Berlusconi che accusava le «toghe rosse» e Renzi che dice ai magistrati di parlare con le sentenze e non con le inchieste mediatiche?
«Non faccio paragoni, la rilevanza mediatica di alcune inchieste che coinvolgono la politica c’è oggi come ieri. Quanto alle celerità dei processi, si farebbero passi avanti significativi se alcune riforme di cui si parla sullo snellimento delle procedure fossero approvate».
E la riforma sulle intercettazioni?
«A Milano le abbiamo ridotte del 30 per cento in collaborazione con gli Aggiunti e con la polizia giudiziaria, valutando, soprattutto in previsione dei primi atti che con la “discovery” diventano pubblici - ad esempio con la richiesta d’arresto - quelle che sono strettamente indispensabili. Tocca al pm la prima cernita e poi, in udienza stralcio davanti al gip in contraddittorio, la seconda».
Tutto in mano ai magistrati?
«La discrezionalità del magistrato è ineluttabile. Come si dimostra anche ora che si parla di modificare la legge sulla legittima difesa. A chi può essere affidata la valutazione conclusiva se ci sia stata o no legittima difesa? Il magistrato, però, non deve dimenticare il “costume del dubbio e la prudenza nel giudizio, la permanente possibilità dell’errore di cui ha parlato più volte Luigi Ferraioli».

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MARCO TRAVAGLIO, IL FATTO QUOTIDIANO 23/4 – 
Com’era ampiamente prevedibile, l’elezione di Piercamillo Davigo al vertice dell’Anm ha subito fatto saltare i nervi alla classe politica, specie di quella governativa. Il prestigio che deriva dalla sua storia, il linguaggio franco e tagliente, la capacità di sintetizzare i disastri della politica giudiziaria dei governi con battute comprensibili a tutti senza paraculaggini, sono peccati mortali nel Paese di Tartuffe. Chi lo ascolta e lo confronta coi balbettii dei minus habentes autonominatisi eletti dal popolo capisce subito chi ha ragione. Del resto ciò che Davigo dice da anni e ripete ora lo sanno tutti: i politici rubano più di prima, ma hanno smesso di vergognarsi, anzi rivendicano ciò che prima facevano di nascosto, quindi si guardano bene dal varare riforme efficaci per scoperchiare e combattere il malaffare. E non passa giorno senza che un’indagine lo dimostri. Ma sentirglielo dire con tanta chiarezza, tra tanti suoi colleghi che impiegano un quarto d’ora e duemila parole solo per dire “buonasera”, ha lo stesso effetto dell’urlo “il re è nudo!” del bimbo nella fiaba di Andersen. Siccome i politici parlano male perché pensano e agiscono malissimo, il solo sentir parlare Davigo li manda in bestia. Riecco dunque il vecchio refrain “i giudici parlino con le sentenze” (copyright Craxi&B.) in bocca al responsabile Giustizia (si fa per dire) del Pd David Ermini, molto applaudito da Ncd e da FI.
Sognano un bel bavaglio, oltreché per i giornali, anche per Davigo: come se il rappresentante di 9 mila magistrati non avesse il diritto di dire la sua sulla materia di cui si occupa da 40 anni. L’apparenza però non deve ingannare: di Davigo non spaventano le parole, ma i fatti che potrebbero scaturirne: l’effetto galvanizzante e rivitalizzante su una magistratura sempre più tremebonda, conformista e “genuflessa” al potere. Il rischio (per lorsignori) e la speranza (per noi) è che molti magistrati ritrovino le ragioni della propria missione e perdano i timori reverenziali verso il potere nel momento cruciale in cui devono decidere se indagare o archiviare, se prosciogliere o processare, se assolvere o condannare un colletto bianco. “Non ci attaccano per quello che diciamo – disse Davigo ai tempi di Mani Pulite –, ma per quello che facciamo”. La controprova si chiama Carlo Nordio, procuratore aggiunto a Venezia. Anche lui è prodigo di interviste e, diversamente da Davigo, di articoli sui giornali. Scrive sul Messaggero di Caltagirone. E non fa mai mancare l’appoggio alle controriforme del governo di turno.
Ora è molto eccitato per l’attacco di Renzi a “25 anni di barbarie giustizialista” e per il bavaglio sulle intercettazioni, anche se gli pare “troppo timido”: lui non si contenta di proibire ai giornali di pubblicarle (“una porcheria indegna di un paese civile”); lui vuole proprio abolirle come “fonti di prova” e lasciarle “nel cassetto del giudice”. Al posto suo, eviteremmo di evocare cassetti: nel 2004 Bruno Vespa scoprì che nel suo giaceva dal 1998 il famoso fascicolo sulle presunte tangenti rosse di D’Alema e Occhetto: avrebbe dovuto essere trasmesso 6 anni prima alla Procura di Roma, ma Nordio se l’era scordato. Quando arrivò, era tutto prescritto. In compenso due anni fa fu proprio Nordio a far arrestare 35 persone a Venezia per il Mose, dal sindaco Orsoni al deputato Galan: li aveva visti coi suoi occhi scambiarsi mazzette?
No, orrore: li aveva intercettati. E le conversazioni, anziché nasconderle nel cassetto, le aveva usate come fonti di prova, allegandole orribilmente agli atti, così il gip le usò per arrestarne 35 e i giornali le pubblicarono. Lui però non denunciò la “porcheria indegna” nelle sue copiose interviste sull’inchiesta. E nessuno si sognò di intimargli di parlare solo con i suoi atti. Come nessuno ora gli domanda a che titolo un pm trinci giudizi politici sul Messaggero: Michele Emiliano ha avuto un’“infelicissima uscita” sul referendum, mentre l’amato Renzi fa benissimo ad “affondare la lama” contro i pm e non deve “intimidirsi” per i cattivoni del M5S e di quel che resta della libera stampa (“le anime belle del giacobinismo forcaiolo”) che osano opporsi al bavaglio. Quanto al centrodestra, deve “applaudire il premier” e “incoraggiarlo”, anziché appoggiare il referendum No Triv con gli orrendi “grillini” e l’“estrema sinistra”. Il finale è strepitoso: “La libertà personale è vulnerata dall’eccesso di custodia cautelare”.
Fanno eccezione i suoi 35 arresti per il Mose, s’intende. Ma anche il caso di un pm veneziano che, nel 2000, sequestrò l’auto al cliente di una prostituta anche se non aveva commesso alcun reato: A.P, 25 anni, sorpreso dai carabinieri con una moldava, fu denunciato per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione (delitto previsto per i papponi, non per i clienti) e si vide sequestrare l’auto. Il pm convalidò e il giovane, pochi minuti dopo, si suicidò. Il pm spiegò che “nell’immediatezza del fatto l’operato dei carabinieri si presentava formalmente legittimo”, ma “il cliente non si può assolutamente perseguire in base alla legge”. Perciò dissequestrò l’auto, a funerali avvenuti. Il pm era Nordio: lo stesso che oggi, all’unisono con Renzi & C., strilla contro “la dignità calpestata dalle intercettazioni generalizzate e diffuse”. Forse risulterebbe un filino più credibile se l’avesse tenuta nel cassetto, quella denuncia infondata, anche se non riguardava un potente, ma un ragazzo anonimo che non faceva nulla di male. Nordio però è nato con la camicia: nessuno gli chiederà conto delle sue incoerenze. È come Virna Lisi nello spot della Chlorodont: con quella bocca, può dire ciò che vuole.

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FILIPPO FACCI, LIBERO 18/4 – 
Piercamillo Davigo, da poco diventato presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, è stato cresciuto da una zia che si chiamava Benita e che viene indicata come «rigida e autoritaria», e a voler essere superficiali (molto) ce lo faremmo bastare. Cerchiamo di non esserlo e annotiamo che Davigo è nato a Candia Lomellina il 20 ottobre 1950 (venti giorni dopo Antonio Di Pietro) e cioè in un paese che contava 2500 abitanti (oggi 1600) sito tra Lombardia e Piemonte, a 15 chilometri da Casale Monferrato e comunque terra di nebbia, zanzare, risaie e contadini coi calli sulle mani. L’evento più sensazionale erano le giostre. Suo padre Luigi gestiva una pesca sportiva (cavedani e carpe) e sua madre si chiamava Giannina Soldato, figlia di nonno Camillo che per anni fu sindaco del paese nonché personalità rigorosa, giurista innamorato della Storia, cose che lascerà in eredità a Piercamillo assieme a un’intera casa. Il futuro magistrato crebbe in effetti con zia Benita perché i genitori si separarono quando lui aveva 6 anni; il fratello del nonno inoltre era un padre Scolopio. Crebbe cattolico come tutta la famiglia. Questo un primo quadro.
Alle elementari risulta uno studente modello soprattutto in Storia e nelle materie tecniche (aveva grande memoria), ma poi in adolescenza sbandò come spesso succede. C’è qualche leggenda. L’inviato del Messaggero Fabrizio Rizzi scrisse di un Piercamillo 13enne che alla stazione di Mortara «sfidò la morte e bloccò un treno sui binari», ma la voce fu raccolta nel 1993, quando Davigo era divenuto una celebrità e tutto veniva ingigantito; un altro aneddoto più insistito vuole che il ragazzino fosse sulla corriera che lo portava da Casale a Candia Lomellina quando un onorevole della zona, un potente comunista, gli intimò di cedergli il posto a sedere, e Piercamillo: «Io pago il biglietto e lei no». Sciocchezzuole. Sicuramente da piccolo era già roccioso, studioso, un po’ ribelle, un po’ provinciale: comunque troppo discolo per essere un tipo da liceo. Così lo iscrissero a un istituto tecnico industriale, il Contardo Ferrini di Casale: perito chimico, come Di Pietro, che però divenne elettrotecnico. E anche qui leggende senza importanza, tipo un guaio combinato nel laboratorio di chimica (una modesta esplosione) con tanto di espiazione a costruire un muro di mattoni nel giardino del nonno.
Dall’università fece sul serio. Si iscrisse a giurisprudenza, a Genova, e le sue doti mnemoniche gli favorirono una laurea a 24 anni e mezzo con 110 e lode. È il 1974 e gli mancava solo il militare a Bracciano, dove fece il corso ufficiali per poi tornarsene a Vercelli da sottotenente.
Poi la vita adulta. Il voto universitario gli favorì l’interessamento di aziende come Enel e Solvay, ma lui preferì l’Unione industriali di Torino (lo stipendio era più alto) dove si occupò di sindacato e di affari delle industrie grafiche e di stampa. Nel complesso, due palle così: allora dal 1976 al 1977 partecipò al concorso per magistrato, che prevedeva uno stipendio minore ma uno status maggiore. Passato il concorso, eccolo in una Milano sconosciuta. C’è anche l’aneddoto con lui che doveva fare un interrogatorio a San Vittore (che è abbastanza in centro) ma non riusciva a trovarlo, così chiese a un vigile: scusi, qual è la strada per il carcere? Presto Davigo le imparerà tutte. A scrivere la relazione di gradimento per l’uditore Davigo è Ferdinando Pomarici, anche se era stato assegnato a Emilio Alessandrini. È il 1° febbraio 1979 e comincia a lavorare. È sveglio, sa di procedura, a suo modo è simpatico: racconta barzellette, vizio che non perderà durante Mani pulite quando ne raccontava sui socialisti nell’ufficio del gip Italo Ghitti, mentre i giornalisti origliavano dal bagno.
CONTRO CASIRAGHI
Si fece le ossa su cose tecniche, processi sull’Iva, scandali bancari, mafie, mafiette, riciclaggio. Sposò un’insegnante di scuola media. Portava un cappello Borsalino, ascoltava un po’ di musica classica. Per un paio d’anni finì a Vigevano, ma poi tornò a Milano e divenne uomo ombra del collega Francesco Di Maggio, con cui interrogò a lungo anche il “tebano” Angelo Epaminonda. Nel 1985 incontrò Tommaso Buscetta al commissariato dell’Isola Tiberina, a Roma. C’era anche Falcone. Si incaponì sull’esonero facile dalla leva di Stefano Casiraghi, marito di Caroline di Monaco. Casiraghi aveva evitato il militare certificando un tumore ai genitali che comportava impotenza: ma poi aveva fatto tre figli. Insomma, Davigo era un magistrato ligio e dovizioso che faceva il proprio dovere, oppure, secondo le angolazioni, era un grandissimo rompicoglioni. Però la sua formazione fu anche questa, e sulla cosiddetta società civile non si fece troppe illusioni. Dirà: «Sono le piccole vicende a deprimermi. Mi sono capitati due o tre processi dove centinaia di persone hanno pagato somme di qualche milione per non fare il servizio militare... Questo vuol dire che io pago non solo per non farlo, ma anche perché altri lo facciano al mio posto. Questo rappresenta una mancata percezione del proprio dovere non soltanto verso lo Stato, ma anche verso gli altri... È la stessa cosa, in grande, del non rispettare la fila... Eppure tutti i giovani venivano da buone famiglie che li finanziavano».
Oltre all’esperienza, c’è una base teorica. Appassionato di Storia e politica (Machiavelli, Guicciardini, l’inglese Arnold Toynbee), Davigo ha inteso il nostro Paese come un complicato impasto di cattolicesimo e marxismo e capitalismo che nell’insieme ne ha rallentato lo spirito competitivo. Il magistrato ammicca alla legalità come valore e alla severità dei Paesi protestanti: cui contrappone il nostro perdonismo, il concetto di indulgenza e di peccato veniale, il così fan tutti, le amnistie e i condoni, il “severamente” da aggiungere al “vietato”. Dice – ora – che la recessione favorirà una minor disponibilità alla tolleranza, e che questo ci avvicinerà ad altri Paesi europei. Ha detto: «Non ho mai visto mogli che si separavano perché il marito era un corrotto; ho visto, invece, mogli che denunciavano il marito corrotto perché non passava loro un assegno abbastanza consistente».
Prima di “Mani pulite” comunque lo conoscevano in pochi. Se ne trova traccia sul settimanale “Epoca” del 25 settembre 1991, quando ironizzava circa «l’archivificio di palazzo di giustizia» che coincideva appunto con l’archiviazione del 77 per cento dei procedimenti. Poi “Mani pulite” e Di Pietro, anche se il procuratore capo dapprima gli preferì Gherardo Colombo. Questione di tempo. I giornalisti impareranno a conoscerlo: bassino, schivo, poco sorridente, sfuggente alle immagini degli operatori, camminata celere: da qui Pierbirillo. Più avanti, Piercavillo. Un dottor sottile capace anche di grana molto grossa.
SOLUZIONI GIURIDICHE
Il suo ruolo: tanti, ma Di Pietro annoterà in un suo libro: «Io andavo da Davigo o da Colombo e segnalavo un’operazione che mi puzzava. “Vedi che cosa è successo qui? Questo secondo me è un reato di porcata... Cari Davigo e Colombo, dicevo, cavoli vostri, entro domattina trovate una soluzione che dal punto di vista giuridico non faccia una piega, perché devo procedere”». Traduzione: voglio metterlo dentro, il modo trovatelo voi. Ma più che Colombo, c’era Davigo. L’ha indirettamente confermato anche Primo Greganti, storico inquisito comunista: «Avevano emesso un mandato d’arresto illegittimo... allora Di Pietro ha detto: “Adesso vado da Davigo e vedrai che lui un motivo per tenerti dentro lo trova”».
Davigo, così facendo, incappò anche in incidenti. Incarcerò un certo Generoso Buonanno, per tre mesi, sulla base degli stessi elementi per cui altri poi lo assolsero; lo stesso fece con Antonio De Mitri, un signore ingabbiato per sei mesi e poi assolto – dopo dieci anni complessivi – anche se suo figlio, nel frattempo, si era suicidato. Per entrambi i casi, Davigo querelò lo scrivente, ma non ebbe soddisfazione. In un’altra sua querela, pure persa, si sosteneva tra l’altro che un refuso («Pircamillo») avesse valenza denigratoria. Ha fatto un’ottantina di querele solo dal ’93 al ’98, conservando le cause in un’apposita cartellina.
Fu sempre durissimo, Davigo. Per molti resta quello che dopo il suicidio del parlamentare Sergio Moroni disse che «le conseguenze dei delitti devono ricadere su chi li ha commessi, non su chi li ha scoperti». E ciao.
L’hanno spesso definito di destra, ma non lo è, se non culturalmente. Tra lui e certa destra “legalista” c’è stata spesso consonanza anche sulla funzione retributiva del carcere: in Italia – ha sostenuto – semplicemente ci sono pochi detenuti in rapporto alla popolazione.
Gli piace semplificare. Hanno scritto tutti che si rifaccia al Vangelo: «Sia il vostro dire sì sì, no no. Il di più viene dal maligno». Non crede che alla giustizia servano riforme particolari, ma solo procedure da rivedere o da sfrondare. Davigo è uno che tiene sempre il punto, fazioso per convinzione e per scelta, portato a rifuggire le parole di compromesso perché olezzano di paludoso bizantinismo. Lo scontro tra magistratura e politica non lo spaventa, anzi, pensa che sia fisiologico: è quello che c’è da attendersi.
Le intercettazioni: «La pubblicazione di intercettazioni non pertinenti è già disciplinata dal reato di diffamazione, non vedo il problema». Davigo non vede problemi. La presunzione d’innocenza: «I politici che delinquono vanno mandati a casa senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». La corruzione: «Abbiamo preso le prede più lente e quelle più veloci l’hanno fatta franca». I magistrati scansafatiche: «Quelli italiani sono quelli che lavorano di più in Europa». I loro errori e negligenze: «Dipendono da carichi di lavoro che non hanno equivalenti negli altri Paesi». Il resto viene dal maligno.


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FILIPPO FACCI, LIBERO 21/4 –
Tutto va bene, madama la travaglia: la politica è sporca e non si ripulisce, la giustizia invece è perfetta e non c’è niente da cambiare. Sul Fatto Quotidiano, ieri, il neo presidente dell’Associazione magistrati Piercamillo Davigo si è profuso in un lungo monologo di due pagine che, tramite la trasformazione in neretto di alcune parti del testo, è stato poi ribattezzato «intervista»; lo stenografo si chiama Marco Travaglio, e, data la collaudata ripetitività delle asserzioni di Davigo negli anni, la cosiddetta intervista avrebbe potuto anche scriverla direttamente lui, Travaglio, utilizzando il noto metodo giornalistico marzulliano «fatti una domanda, datti una risposta e riciclala per vent’anni».
In effetti Davigo dice più o meno le stesse cose dai tempi di Mani pulite: storielle, aneddoti, paradossi, freddure, roba da far sorridere una platea alla presentazione di un libro. Ma ora che ha un ruolo politico – capo del sindacato dei magistrati, maggior potere non elettivo del Paese – ogni sua uscita potrebbe diventare una posizione strategica o appunto politica, soprattutto se il presidente del Consiglio ha appena parlato degli stessi temi. È successo ieri. Renzi, in Senato, aveva da poco pronunciato delle doverose ovvietà: che negli ultimi vent’anni questo Paese ha conosciuto «autentiche barbarie giustizialiste», che spesso un avviso di garanzia è bastato per rovinare mediaticamente persone perbene, che per esempio la recente indagine di Potenza ha diffamato un governo prima di qualsiasi sentenza (anche se nessun governativo è indagato) e che le intercettazioni spesso sono diffuse solo per sputtanare: insomma delle banalità, tanto da porre il dubbio sul perché, semmai, certi discorsi non siano stati fatti altre volte.
Ecco: la risposta di Davigo, indiretta, converge come può farlo la pallina di una partita di tennis: l’importante è risbatterla nel campo dell’avversario. Il tappeto rosso steso dal Fatto Quotidiano già non faceva grinze: Renzi, nel titolo, era paragonato a Berlusconi, mentre l’editoriale di Travaglio (titolato «negazionismo peloso») lo paragonava a Craxi. Fine della dialettica. Le negazione totale di qualsiasi problema o difetto in seno alla magistratura italiana, da parte di Davigo, lasciava peraltro intendere quanto il personaggio appaia indisponibile a muoversi da una posizione di arcigna schermaglia sindacale, e quanto poco insomma appaia disposto a un cosiddetto confronto fondato perlomeno su una minima presa d’atto della realtà in cui si vive. Macché: «Non c’è nessuna guerra» tra politica e magistratura, dice Davigo, e l’unico problema è che la politica e le istituzioni non rimuovono il personale da rimuovere. Cioè chi, i condannati? No, s’intendono quelli da rimuovere «in base a un giudizio morale o di opportunità». Che spetta a chi? Forse a Davigo e al Fatto Quotidiano?
La leggerezza con cui Davigo nega o liquida qualsiasi cosa fa capire che la «sua» magistratura non vuole fare prigionieri, o meglio, vuole fare tutti prigionieri. Il conflitto tra politica e magistratura? «Naturale conseguenza della loro separatezza e indipendenza». Le intercettazioni penalmente irrilevanti? «Bastano e avanzano le norme sulla diffamazione e sulla privacy», come è noto.
Ma perché le intercettazioni irrilevanti non le eliminano direttamente i magistrati? Facile: perché possono essere irrilevanti per tizio ma rilevanti per caio. Le raccomandazioni? «Sono reato». La presunzione d’innocenza? Quella è un fatto tecnico, «un fatto interno al processo, non c’entra nulla coi rapporti sociali e politici», cioè: «un fatto penalmente irrilevante può essere deontologicamente disdicevole». E via così, i problemi non esistono: i tempi della giustizia? «Tutte le inchieste arrivano a sentenza», «i giudici italiani sono quelli che lavorano di più», «Parlamento e governo non possono dire che combattono l’evasione fiscale», l’insindacabilità dei parlamentari non viene mai violata, anche questo governo denota «una certa allergia al controllo di legalità». Tutto così: questo il biglietto da visita di un uomo che dovrebbe essere di «trattativa» ma che pare incazzato anche quando dorme.

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MARCO TRAVAGLIO, IL FATTO QUOTIDIANO 20/4 – 
Piercamillo Davigo, dopo l’inchiesta di Potenza Renzi parla di “25 anni di barbarie giustizialista”, mentre Napolitano denuncia un “riacutizzarsi” del conflitto politica-giustizia e invoca la riforma delle intercettazioni.
Non commento le dichiarazioni del presidente del Consiglio. Ma è una vecchia storia, questa del ‘giustizialismo’ e del ‘conflitto’. Non c’è nessuna guerra. Noi facciamo indagini e processi. Se poi le persone coinvolte in base a prove e indizi che dovrebbero indurre la politica e le istituzioni a rimuoverle in base a un giudizio non penale, ma morale o di opportunità, vengono lasciate o ricandidate o rinominate, è inevitabile che i processi abbiano effetti politici. Se la politica usasse per le sue autonome valutazioni gli elementi che noi usiamo per i giudizi penali e ne traesse le dovute conseguenze, processeremmo degli ex. Senza conseguenze politiche.
Il conflitto fra politica e magistratura è fisiologico?
Le frizioni fra poteri dello Stato sono la naturale conseguenza della loro separatezza e indipendenza. Chi vuole che tutti i poteri vadano d’amore e d’accordo dovrebbe proporre il ritorno alla monarchia assoluta, dove il sovrano deteneva tutti i poteri senz’alcun conflitto: il re era sempre d’accordo con se stesso. È questo che vogliono? Io, se non ci fosse tensione fra politica e giustizia, mi preoccuperei.
Napolitano e Renzi reclamano una legge che vi imponga di espungere dagli atti le intercettazioni penalmente irrilevanti o riguardanti i non indagati, così i giornali non potranno più pubblicarle.
Non ne vedo la necessità. Bastano e avanzano le norme sulla diffamazione e sulla privacy, che puniscono chi mette in piazza fatti davvero privati e privi di interesse pubblico: si possono sempre aumentare le pene, specie per la violazione della privacy, ma poi si va a sbattere contro la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che sconsiglia lo strumento penale contro la libertà di stampa. E, soprattutto, ha già affermato che, quando un giornalista pubblica notizie anche penalmente irrilevanti, ma moralmente importanti, su personaggi pubblici, non può essere punito.
Ma la legge dice che dovete essere voi magistrati a cancellare dagli atti le conversazioni extra-penali.
A parte il fatto che una conversazione può essere irrilevante ai fini del reato per cui si procede e non di un altro per cui è comunque lecito procedere. Ma poi, chi decide cosa mettere o togliere? Il pm? Il gip? E i diritti della difesa chi li tutela? Mi meraviglia che questi discorsi vengano da chi sbandiera garantismo un giorno sì e l’altro pure: ma lo sanno o no che ciò che è irrilevante per il pm o per il giudice può essere rilevantissimo per il difensore? Esempio: Tizio intercettato racconta una sua serata con un trans. Tutti diranno: orrore, privacy, bruciare tutto! Già, e se poi quella serata col trans serve a uno dei due interlocutori come alibi per provare che la sera di un delitto erano altrove? Siccome l’alibi è stato distrutto, l’innocente rischia la condanna. Bel garantismo.
A Potenza si procede anche per traffico d’influenze illecite, reato istituito nel 2012 con la Severino per punire chi usa amicizie o vicinanze con un pubblico ufficiale per farsi dare soldi o altre utilità da chi vuole favori leciti o illeciti da quest’ultimo.
E mica l’hanno scritta i giudici, quella legge. Era per ottemperare alla Convenzione Ue anticorruzione, ratificata dall’Italia nel 1999 e mai attuata, anche se forse bastava ritoccare le norme sul millantato credito. Non entro nei processi in corso. Ma è ovvio che, per processare Tizio per la sua influenza su Caio, e Caio, si debba verificare quali rapporti aveva con Caio.
Dicono: le raccomandazioni son vecchie come il mondo.
E io rispondo: le raccomandazioni sono reato in tutta Europa, tant’è che la Convenzione Ue ratificata da tutti gli Stati, buon’ultima l’Italia, prevede il traffico d’influenze.
Violante dice che le cronache politiche sembrano ormai mattinali di questura.
Perché processiamo gente abbarbicata alla poltrona, che nessuno si sogna di mandare a casa malgrado condotte gravissime.
Aspettano la Cassazione: Renzi ricorda la presunzione d’innocenza, per lui conta solo la sentenza definitiva.
Ma la presunzione d’innocenza è un fatto interno al processo, non c’entra nulla coi rapporti sociali e politici. Ha presente il professore universitario che faceva sesso con le allieve, e sempre prima degli esami (e mai dopo, il che esclude che fossero innamorate di lui)? L’hanno assolto e il preside s’è detto ansioso di riaverlo in cattedra. Come se un fatto penalmente irrilevante non fosse deontologicamente disdicevole. Ecco, i politici ragionano così.
Che dovrebbero fare?
Smetterla di delegare ai magistrati la selezione delle classi dirigenti, e poi di lamentarsi pure. Dicono: aspettiamo le sentenze. Poi, se arriva la condanna, strillano. Se il mio vicino di casa è rinviato a giudizio per pedofilia, io mia figlia di sei anni non gliel’affido quando vado a far la spesa. Poi, se verrà scagionato, si vedrà. La giustizia è una virtù cardinale: ma anche la prudenza! Tutti, al posto mio, si comporterebbero così. Perché ciò che vale nella vita quotidiana non vale nel mondo politico-imprenditoriale?
Appena è esplosa l’inchiesta di Potenza, Renzi ha accusato la Procura di non arrivare mai a sentenza.
Ma che discorso è? Tutte le inchieste arrivano a sentenza. Che può essere di condanna, di assoluzione o di non doversi procedere per prescrizione. Se intende lamentare un eccesso di prescrizione, può modificarne le norme.
Il governo dice di averlo fatto almeno per la corruzione.
In realtà ha aumentato un po’ le pene, dunque ha un pochino allungato la prescrizione. Ma il problema è rimasto pressoché inalterato: abbiamo una prescrizione relativamente lunga prima che il reato venga scoperto, e scandalosamente breve dal momento in cui iniziano le indagini. Per i reati puniti fino a 6 anni, compresi molti contro la PA, è di 6 anni, prorogabile al massimo fino a 7 anni e mezzo (dal giorno in cui il reato è stato commesso, s’intende): se il delitto viene scoperto dopo 6 anni, restano 18 mesi per indagini, udienza preliminare e tre gradi di giudizio. Le pare serio? Il nostro sistema, dopo il dimezzamento dei termini causato dalla ex-Cirielli, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte di giustizia europea per le frodi comunitarie, con l’invito ai giudici italiani a disapplicarlo. Così abbiamo un doppio binario: i reati contro l’Ue non si prescrivono mai, tutti gli altri quasi sempre. Basta una norma di una riga che sospenda la prescrizione col rinvio a giudizio, o almeno con la prima sentenza: perché non la fanno?
Renzi dice che dovete lavorare di più.
Mettere in relazione la durata dei processi con l’accusa ai giudici di essere dei fannulloni è un’offesa e una bugia. Segnalo i dati della Commissione del Consiglio d’Europa sull’efficienza della giustizia: i giudici italiani, su 47 Stati membri, sono quelli che lavorano di più. Il doppio dei francesi e il quadruplo dei tedeschi. Se i processi durano troppo è perché se ne fanno troppi e con troppi gradi e fasi di giudizio. Invece di lanciare accuse infondate, i politici facciano qualcosa per scoraggiare il contenzioso e i ricorsi, così calerebbe il numero dei processi. E siano più severi con chi viola la legge e più attenti ai diritti delle vittime, così calerebbero i reati.
Napolitano vi chiede di “collaborare” con la politica.
Se collaborare vuol dire fornire un apporto tecnico, come fa per statuto il Csm, alle leggi in discussione sulla giustizia, l’abbiamo sempre fatto. Poi però noi magistrati facciamo un mestiere diverso: se prendiamo un politico che ruba, dobbiamo processarlo. Non collaborare.
Come valuta la deregulation renziana sui reati fiscali? Dal tetto alzato a 3 mila euro per i pagamenti in contanti alle soglie più alte di non punibilità per l’evasione?
Parlamento e governo sono liberi di fare le leggi che vogliono. Anche di depenalizzare i reati tributari, se l’Europa glielo permette. Ma non possono dire che così combattono l’evasione fiscale.
L’inchiesta di Potenza fa molto discutere anche perché, secondo alcuni, si rischia di processare la tal legge, il tal emendamento, violando l’insindacabilità dei parlamentari.
Del caso concreto non parlo. Ma, in linea di principio, la Costituzione tutela il parlamentare nell’esercizio delle funzioni quando vota, non quando prende mazzette o riceve favori per votare. In uno Stato di diritto, nessuno è al di sopra della legge.
Renzi s’è scandalizzato perché è stato intercettato il capo di Stato maggiore della Marina, “mettendo a rischio la sicurezza nazionale”.
Quand’ero militare, mi insegnarono che è vietato trattare argomenti classificati al telefono. Ergo, chi intercetta un militare non può mai violare alcun segreto: semmai, accertare una violazione del segreto da parte di chi dovrebbe custodirlo.
Nota differenze fra questo governo e quelli precedenti nel rapporto con la magistratura e la legalità?
Qualche differenza di linguaggio, ma niente di più: nella sostanza, una certa allergia al controllo di legalità accomuna un po’ tutti. Paolo Mieli mi ha detto che ho sempre litigato con tutti i governi. Gli ho risposto che è un segno di imparzialità. Sa, io ho subìto molti processi penali e non mi sono mai messo a strillare: mi sono difeso nel processo. E sono sempre stato archiviato. Non perché fossi un magistrato: perché ero innocente. Capisco che chi finisce imputato non gradisca, ma chi ricopre cariche pubbliche non deve mai usarle per tutelare i suoi interessi personali o per invocare trattamenti privilegiati.
Giuliano Ferrara spera che lei sia un presidente Anm così forte e rappresentativo da firmare la pace con la politica. Come l’israeliano Begin con l’egiziano Sadat.
Se vuol dire che tengo unita la magistratura, lo prendo come un complimento. Se qualcuno pensa che io sia qui per svendere la magistratura e la legalità, si sbaglia di grosso. L’Anm deve tutelare l’indipendenza dei magistrati, non asservirli alla politica.
Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 20/4/2016

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GOFFREDO BUCCINI, CORRIERE DELLA SERA 21/4  –
Superato il referendum anti-trivelle, resta tuttavia sul cammino di Matteo Renzi e del suo governo lo strascico dell’inchiesta di Potenza, che per qualche settimana ha infiammato la consultazione popolare, altrimenti incomprensibile ai più: con le intercettazioni del «quartierino» e la generosa illusione di votare per i buoni contro i cattivi, paladini dell’ambiente di qua e sodali dei petrolieri di là. Il problema non attiene tanto alla sostanza penale, che potrebbe rivelarsi fumosa quanto il reato di traffico di influenze che la genera; riguarda piuttosto l’ombra politica che i faldoni di Tempa Rossa proiettano nel rapporto tra poteri dello Stato. In questo senso l’inchiesta lucana si pone come una specie di spartiacque nelle relazioni tra Renzi e i giudici. Una questione che il premier non potrà eludere troppo a lungo, nemmeno volendolo.
Renzi s’è risentito, e molto, nei giorni più caldi che hanno preceduto il referendum di domenica 17, per quelle che gli sono apparse irruzioni dei magistrati nell’iter legislativo: è, infatti, la legge di Stabilità che ha sbloccato la protratta paralisi dell’impianto lucano e proprio su un suo emendamento hanno messo gli occhi i pm, provocando l’ira renziana con l’audizione da teste di Maria Elena Boschi che, in quanto ministro per i rapporti col Parlamento, accompagnava quell’iter.
Il premier pareva propenso al contropiede («in Basilicata le inchieste sul petrolio si fanno ogni quattro anni, come le Olimpiadi. Non si è mai arrivati a sentenza!») politicizzando a sua volta il referendum sulle trivelle e l’inchiesta stessa. Un’occhiata al calendario deve averlo indotto a cambiare toni: le amministrative di giugno — con il rischio di perdere a Roma, Milano e Napoli — ma soprattutto il referendum istituzionale di ottobre, al quale Renzi ha legato la propria sopravvivenza politica, non sono appuntamenti da affrontare avendo in corso uno scontro con la magistratura, specie se questa ha deciso di affidare il proprio organismo di rappresentanza, l’Anm, a un giudice famoso e affilato nel dibattito come Piercamillo Davigo, l’antico dottor Sottile di Mani pulite. Dunque il premier ha frenato, assicurato che non meditava interventi a gamba tesa sulle intercettazioni, sostenuto che voleva solo incitare i magistrati a celebrare processi veloci. Ma in queste ore è tornato a picchiare sulla «barbarie giustizialista», quasi d’impeto. Il tema è delicato e controverso. Del resto il reato di traffico di influenze — che può fare da innesco a uno scontro di più vasta portata — fu una fattispecie sponsorizzata dal Pd bersaniano quattro anni fa, al tempo della Severino, e non è certo semplice sconfessarlo ora. Esiste in tutta Europa, dove però è normalmente disciplinata l’attività di lobbying : il che traccia un confine tra il lobbismo lecito e la pressione illecita da noi inesistente. Questo vuoto nel nostro ordinamento assieme alla peculiarità del rapporto politica-giustizia in Italia, fa sì che, nella malaugurata assenza di un attento lavoro di vaglio, il traffico di influenze diventi un reato omnibus, su cui caricare tutto e il contrario di tutto, riempiendo i faldoni di intercettazioni irrilevanti penalmente ma dal forte contenuto di contesto e dunque micidiali all’approssimarsi di qualsiasi appuntamento politico. Chi ha capito davvero di cosa è accusato Ivan Lo Bello, icona dell’antimafia siciliana? Anonimi a parte, in quali parole si coglie la responsabilità penale dell’ammiraglio De Giorgi, artefice dell’operazione Mare Nostrum? Dove arriva il lecito dialogo tra soggetti pubblici o privati e comincia il lavorìo del faccendiere?
Le intercettazioni, su cui il presidente Napolitano ha riaperto il dibattito, potrebbero dunque essere (magari accompagnandole alla attesa revisione dei termini di prescrizione dei reati) il primo passo d’un percorso quasi obbligato: solo il primo, se i pezzi sulla scacchiera sono questi. Con una domanda inevitabile: quale riformismo immagina Renzi sulla giustizia?
Il presidente del Consiglio è stretto tra la necessità di non sembrare «un altro Berlusconi» evitando così il cementarsi di una nuova Santa Alleanza ventennale simile a quella contro il Cavaliere (Massimo Cacciari di recente ne evidenziava giustamente i rischi, in primis la paralisi del Paese) e il bisogno di proteggere provvedimenti di sviluppo come lo Sblocca Italia o la ripresa delle grandi opere da iniziative giudiziarie talvolta così elastiche da coprire nei faldoni grandi distanze geografiche e logiche (si pensi al salto tra l’inquinamento ambientale di Viggiano e le telefonate per il porto di Augusta). Difficile non pronosticargli un anno accidentato, da qui alla primavera del 2017 nella quale, secondo molti, potrebbero collocarsi elezioni politiche anticipate. Semmai ne nascesse un esecutivo infine forte, starebbe quasi nelle leggi della fisica l’urto con la magistratura che, essendo stata chiamata per oltre vent’anni alla supplenza di una politica debole e ricattabile, potrebbe trovare innaturale qualsiasi passo indietro.
Perciò l’indagine di Potenza, con le sue suggestioni e le sue velleità «sistemiche», è assai diversa dall’inchiesta sulla Banca dell’Etruria, concretamente per tabulas , e assume il contorno di una profezia. Se Renzi avrà modo di proiettarsi in una strategia di medio periodo, pur tenendosi lontano da guerre di religione con le toghe (le direttive di procuratori saggi come Pignatone e Spataro in questo lo aiuterebbero) difficilmente potrà scansare il nodo della giustizia: quello vero. Che potrebbe portare con sé persino scelte gravi e complesse come una reale separazione delle carriere, la riforma del Csm e la discrezionalità dell’azione penale. Scogli su cui, solo a parlarne, più d’uno prima di lui s’è arenato.