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 2016  aprile 22 Venerdì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - IL CENTRODESTRA ALLO SBANDO


REPUBBLICA.IT
ROMA - Sempre più teso il clima nel centrodestra. Da Forza Italia, che nei giorni scorsi sembrava vacillare sulla scelta del candidato, arriva l’annuncio: nessun ripensamento sul nome di Guido Bertolaso. "La lista di Forza Italia a supporto di Guido Bertolaso verrà presentata il 29 aprile", ha detto il coordinatore romano di Forza Italia Davide Bordoni al termine di una riunione a palazzo Grazioli con Guido Bertolaso e alcuni parlamentari romani di Fi. "Abbiamo fatto il punto sulle candidature in municipi e in consiglio comunale - aggiunge -. Non cambia nulla, ma si va avanti con un agenda fitta di impegni sul territorio".
Il capogruppo alla Camera degli azzurri, Renato Brunetta, ha poi chiarito che il mandato assegnato ieri al presidente Berlusconi per incontrare Meloni e Salvini, "al fine di tornare all’unità della coalizione", ha come obiettivo non tanto l’unanimità del Centrodestra su uno dei tre candidati in campo quanto l’appoggio di Fdi e Lega alla figura del solo Bertolaso. E lancia la sfida agli alleati: "Meloni e Salvini sono miei amici. Sono i nostri alleati per vincere politicamente. Noi diciamo che loro con Berlusconi avevano deciso di candidare Bertolaso il 12 febbraio. Io rimango alla parola data in quell’occasione e io credo che in politica la parola data sia la base per qualsiasi altro ragionamento".
Poche ore prima, inaugurando la sede della Lega e Lista Noi con Salvini in piazzale Flaminio, era arrivata l’ennesima bordata a Silvio Berlusconi e al suo candidato, Guido Bertolaso: "Siamo stufi delle beghe politiche. Noi, rispetto agli altri, il candidato ce l’abbiamo ben chiaro: è Giorgia Meloni", ha detto. Sul tavolo per tutta la conferenza stampa in bella mostra una ruspa giocattolo.
Al leader del Carroccio ha fatto eco Giorgia Meloni, escludendo - fin dalla prima mattina - un incontro con il leader di Forza Italia.
Dritti verso il Campidoglio. Ormai è impossibile ricompattare l’alleanza. Ma che la cosa fosse difficile, si era capito già, quando Salvini aveva annunciato in mattinata che la lista ’Lega - Noi con Salvini’ "è sostanziamente pronta. La prossima settimana inizieremo la raccolta firme". Salvini, che ribadito di avere più a cuore il futuro della Capitale che non le poltrone, ha attaccato le persone intorno all’ex Cavaliere: "A me di Bertolaso o del vice di Bertolaso interessa zero. C’è in ballo Roma. Io penso che Berlusconi abbia più di un barlume di lucidità. Penso che sia circondato da gente che pensa solo alla poltrona e che se si presentasse non prenderebbe nemmeno il voto di sua sorella".
Su una cosa, però, Salvini non ha dubbi: "Noi andiamo avanti con Giorgia Meloni e con i romani che, secondo tutti i sondaggi, non pensano che Bertolaso possa mai diventare sindaco in questa vita mentre Giorgia Meloni sì".
Nessun incontro con Berlusconi. Anche Meloni va dritta verso l’obbiettivo: dice di non avere paura di nulla in questa competizione: "Non non mi spaventa niente. Penso di poter vincere. Il ballottaggio tra due donne sarebbe una cosa nuova. Il ballottaggio con Giachetti invece sarebbe più tradizionale". L’unico timore è l’allontanamento degli elettori dalla politica: "Temo l’astensionismo, il qualunquismo, il fatto che nella confusione la gente, infastidita dalla politica, e non ha torto, dica preferisco non andare a votare". Che poi "è un po’ il gioco che si fa. Il gioco che fa Renzi".
Corsa a tre. Ma sui concorrenti non ha dubbi: "A Roma lo scenario è abbastanza chiaro e semplice. Ci sono tre persone in campo: due, diciamo a sinistra, ossia Roberto Giachetti ma anche Virginia Raggi; e poi ci sono io. È vero che ci sono altri tre candidati, ma non hanno alcuna possibilità di arrivare al ballottaggio".
Non è mancata una frecciata all’avversaria del Movimento 5 stelle: "C’è una differenza tra me e Virginia Raggi, io non prendo ordini da nessuno: non vado con la mia valigetta a Milano, io mi sono formata in un partito. Ho tanti alleati - Salvini oggi - più ne ho e più sono contenta, ma decido con la mia testa".
Roma, Bertolaso a Palazzo Grazioli: "Io non mollo, problema è che non mi mollano"
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Bertolaso non molla. Forte del sostegno rinnovato di Berlusconi, Bertolaso non arretra di un centimetro: "Se avessi solo la percezione che Berlusconi volesse staccare la spina, sarei il primo a ritirarmi. Ma non è cosi’" e quindi "io non rinuncio, io rilancio" e "ho chiesto a Berlusconi di sparigliare la situazione, cambiare le carte", ha sritto su Twitter il candidato sindaco di Roma, che dopo la riunione a palazzo Grazioli con i parlamenti di Forza Italia, si fermato a via del Plebiscito per una colazione di lavoro con l’ex premier.
Possibile
accordo con Marchini. "Se ci sarà un accordo io ne sarò felice", ha detto l’ex capo della Protezione civile su un’eventuale convergenza con Alfio Marchini. E a chi gli chiede se l’imprenditore in corsa per il Campidoglio sarà presente alla riunione operativa a Palazzo Grazioli risponde: "Io non so nulla. Mi occupo della parte tecnica. Di quella politica se ne occupa il presidente Berlusconi"

ARTICOLO DI ERNESTO MENICUCCI SUL CORRIERE DI STAMATTINA
ROMA È l’ora di pranzo a Palazzo Grazioli e a tavola, al fianco di Silvio Berlusconi, c’è una ristretta cerchia di «fedelissimi» che va dall’avvocato Niccolò Ghedini alla portavoce Deborah Bergamini, passando per Mariarosaria Rossi e naturalmente per lui, Guido Bertolaso, quello che ha «sfidato i khmer rossi» ma che si trova impantanato nella palude romana. Un pasto veloce: prosciutto e melone, mozzarella, insalata di pollo, una fetta di dolce. Berlusconi, coi suoi commensali, è chiarissimo: «Già ve l’ho detto: io ho una parola sola. E ho dato la mia parola a Bertolaso».

Frasi inequivocabili, quasi più di quelle pronunciate in ufficio di presidenza di Forza Italia, convocato per qualche ora prima in quello che chiamano «il parlamentino» della residenza romana dell’ex Cavaliere. Lì, alla spicciolata, arrivano tutti. Maurizio Gasparri con la prima pagina del Corriere dello Sport che esalta le gesta di Totti, i capigruppo di Camera e Senato Renato Brunetta e Paolo Romani, poi Antonio Tajani, Marcello Fiori, Mara Carfagna (Berlusconi le ha proposto di fare la capolista a Napoli: e lei potrebbe accettare), Renata Polverini, Anna Maria Bernini, Mariarosaria Rossi. Un incontro che Berlusconi, la sera prima, ha preparato nei dettagli, telefonando a quasi tutti i partecipanti. Obiettivo: ricompattare il partito su Bertolaso e far vedere, a chi invece punta a un cambio di cavallo e a una «virata» su Giorgia Meloni, che la loro posizione non è maggioritaria. Anche Bertolaso è a casa di Berlusconi, ma lui — seppur invitato — preferisce non partecipare a una riunione nella quale si possono decidere le sue sorti. La riunione è tesa, vibrante. Con un paio di momenti clou. Il primo quando Romani e Tajani, che rappresentano due scuole di pensiero (uno per l’appoggio alla Meloni, il secondo per mantenere Bertolaso e, casomai, girare su Alfio Marchini), se ne dicono quattro in faccia, piuttosto animatamente. Gli assenti riferiscono: «Si sono quasi menati». Ma non è vero. Di sicuro, il comunicato ufficiale che doveva uscire non si fa più. Basta questo, all’ex premier, a dimostrare la sua teoria: il partito è spaccato in due. In molti sono per Meloni (Romani, Toti, Gasparri) per «salvaguardare l’unità del centrodestra». Ma contrarie a questo accordo, e pronte a valutare una convergenza su Marchini, ci sono le persone più vicine a Silvio: una di loro è Francesca Pascale, l’altra la Rossi. E si sa quanto peso abbiano le due donne su Berlusconi. Ma anche in ufficio di presidenza molti lo ammoniscono. La più esplicita è la Polverini: «Guarda che Meloni punta alla leadership nazionale. E Salvini, candidandola a Roma, se la vuole togliere di torno». La riunione finisce con un «mandato a Berlusconi di esplorare le possibilità di una convergenza su un candidato unico». Bertolaso, ben oltre le 16, esce da Palazzo Grazioli molto rinfrancato: «Convergenza? Se è sul mio nome, ok. Il ticket con la Meloni? Dobbiamo prendere un autobus?». Guido è «tranquillo e sereno», sorridente. Nei colloqui privati con Berlusconi, sia l’altra notte che ieri, è stato chiaro: «Io vado avanti. Anche solo con una mia lista civica». Berlusconi parla anche con la Meloni: «Apro le consultazioni, poi ci sentiamo».

La leader di FdI, assieme a Matteo Salvini, va ad aprire la campagna elettorale al Pincio e Berlusconi le fa «un in bocca al lupo». Ma sulla terrazza che guarda Roma — la stessa dove Alemanno presentò la sua lista civica, nelle elezioni perse del 2013 — Silvio non c’è: con la leader si vedono donna Assunta Almirante e il principe Ruspoli, Isabella Rauti, Rita Dalla Chiesa (che viene contestata dal pubblico), Irene Pivetti. E l’alleanza con Berlusconi? «Non ci interessa più. Se vengono, porte aperte. Altrimenti, tutti sapranno di chi è la responsabilità di una sconfitta», dice Ignazio La Russa. Salvini, che passa metà pomeriggio a fare dirette Facebook col panorama sullo sfondo, parla di «un Berlusconi mal consigliato». Giorgia, dal palco, è netta: «Squadra che vince non si cambia. Se andiamo al ballottaggio da soli, non facciamo apparentamenti». Ma, senza alleanze, battere M5S diventerebbe davvero un’impresa.
Ernesto Menicucci

FABRIZIO RONCONE SUL CDS
ROMA Aspettiamo Guido Bertolaso a Montecitorio. Folla di cronisti, faccendieri, cameraman, fotografi, imbucati, portaborse, commessi curiosi. C’è grande attesa. Bertolaso ha confermato la conferenza stampa congiunta con Gianfranco Rotondi: tutti pensiamo che se viene dopo la tribolata mattinata trascorsa a Palazzo Grazioli, è solo perché ha dichiarazioni importanti da fare.
Magari molla.
Annuncia un passo indietro.
Oppure no: ci dirà che ha accettato di fare il vice della Meloni.
Rotondi è già seduto. «Speriamo che il Cavaliere non abbia cambiato idea: noi siamo qui per assicurare a Bertolaso il sostegno di Rivoluzione cristiana». Rivoluzione… «Cristiana! È il mio movimento. Non lo conosce?». No. «Eh eh… male, molto male».
Bertolaso, in ritardo.
Alcuni cronisti sicuri: è il pomeriggio del colpo di scena finale.
Alla portavoce di Rotondi entra un sms. «Uscito ora da Palazzo Grazioli».
( Sta venendo a piedi. Sfoggia una serenità da togliere il fiato. Gli piazzano i microfoni davanti e lui scherza, cammina e fa battute, cammina con un’allegria addosso, un’euforia che certi romani, in piazza di Pietra, si girano perplessi: c’è così tanto da ridere?
«E certo che continuo a candidarmi… Berlusconi mi ha confermato tutta la sua fiducia». «Sono stato sotto il fuoco dei Khmer rossi, volete che mi spaventi per qualche polemica?». «Ticket con la Meloni? Ah ah ah! Sì, sull’autobus…». «Io, il vice-sindaco di Marchini? Beh, c’è chi nasce numero uno, e chi nasce numero due…». «Non capisco cosa ci sia da ridere quando dico che mi piacerebbe far fare il bagno nel Tevere ai romani». «Sono un candidato scomodo, questa è la verità». «Nella mia carriera ho collezionato 3 medaglie al valor civile, 4 lauree honoris causa e 57 cittadinanze onorarie…».
Cammina e dà buffetti, pacche sulle spalle, e poi ancora ridacchia, allude, fa l’ironico, lo spavaldo. Si mette tutto serio solo quando arriva in via della Missione, sale i tre scalini ed entra a Montecitorio ).
Eccolo.
Rotondi lo cerca con lo sguardo: tutto okay?
Lui annuisce.
Poi chiede un po’ d’acqua (indossa un maglione blu notte con una camicia celeste).
Si alza, si avvicina il microfono, inizia.
«Io vado avanti…».
Il cronista barbuto di un talk-show sbatte un pugno sul tavolo, in un miscuglio di stupore e delusione. Un commesso, a voce bassissima, piuttosto ammirato: «Ammazza, questo è de fero…» . Piano piano s’intrufola Ignazio La Russa, plenipotenziario di Fratelli d’Italia, e va a sedersi in ultima fila.
Bertolaso sta dicendo che si sente un democristiano dentro, perché «ho lavorato sia con Giulio Andreotti, sia con Nino Andreatta». Poi ci ricorda i successi, gli incarichi di prestigio, dieci anni al comando della Protezione civile, «mi chiamavate Mister Emergenza, ricordate?», sorvola sui gravi procedimenti giudiziari in cui è imputato.
L’atmosfera è surreale.
Bertolaso fa finta di niente.
Non un filo di imbarazzo, non un’incertezza.
Una giornalista alza la mano e prova a fare una domanda tosta: lei ha la fiducia di Berlusconi ma non quella dei deputati e dei senatori di Forza Italia, che infatti hanno incaricato il Cavaliere di continuare a trattare con la Meloni e con Salvini. Come si sente? E lui: «Mi sento benissimo! Berlusconi tratta e tratterà perché non ha ancora rinunciato all’idea di avere tutto il centrodestra compatto…». Allora alza la mano un’altra cronista: i sondaggi la danno terzo se non addirittura quarto, non si sente umiliato? «I sondaggi dicono che sarei un candidato debole? Ah ah ah! E allora perché, mi scusi, sono due settimane che parlate solo del sottoscritto?».
Di gomma.
Nel genere, un fuoriclasse.
Gira voce che prima, quand’era a pranzo con il Cavaliere, fosse molto mogio e gli sia scappata pure una frase tipo: «Non me lo merito, Presidente, di essere trattato così».
Qui, comunque, ha messo su un’aria da spaccone. Ignazio La Russa: «Ma lo sentite? È uscito da un racconto di fantascienza». Due fotografi dicono che è meglio andare al Pincio, dove la Meloni sta inaugurando la sua campagna elettorale.
Si volta Bertolaso: «Salutatemi Giorgia, mi raccomando».

VERDERAMI SUL CORRIERE
Dopo aver soffocato l’ammutinamento il giorno prima, Berlusconi aveva tolto all’Ufficio di presidenza di Forza Italia l’allure di un Gran Consiglio. Sarà per questo che ieri si è spesso assopito durante la riunione.
Ridestato a tratti dai fragorosi colpi di tacco della Rossi e dalle discrete scosse alla sedia di Matteoli, che gli stava accanto, a un certo punto il Cavaliere non ha reagito più nemmeno alle premurose sollecitazioni, e non solo perché il dibattito sulla sindacatura di Roma non lo appassionava, ma anche perché deve aver percepito che in sala nessuno pensava al futuro del partito. Ognuno pensava solo al futuro di se stesso.

Ed è così che (forse) ha voluto marcare la distanza, incurante del dramma dei romani e delle manovre di Romani, che insieme a Toti cercava di indirizzarlo verso l’intesa per il Campidoglio con Salvini e la candidata Meloni, in nome dell’«unità del centrodestra». L’operazione era stata sicuramente studiata, se è vero che d’un tratto il presidente della Liguria ha estratto dalla tasca un foglio dove aveva scritto a mano un ordine del giorno: un inno al «valore politico» dell’alleanza per chi l’ha letto, un atto di lesa maestà al limite del tradimento per chi l’ha ascoltato, la prova — secondo molti presenti — che un pezzo di forzismo nordista sta precostituendosi un percorso insieme al capo della Lega e alla leader di Fratelli d’Italia, con l’obiettivo di giocarsi la leadership del centrodestra alle primarie.

Non è dato sapere se anche Berlusconi l’abbia pensato: in quel momento non c’era, o almeno ha fatto mostra di non esserci. Pare non ci fosse nemmeno quando Tajani, popolarista ortodosso in Europa e convinto sostenitore di Marchini a Roma, ha invitato con una certa veemenza i colleghi di partito a troncarla con il mito del salvinismo, «che sotto il Po non prende un voto e nella Capitale ha ereditato solo qualche fascio»: «Lui non conosce Roma e se la conoscete voi, allora venite a candidarvi qui». Attaccati dai romani, Romani e Toti avevano però avuto anzitempo l’accortezza di non mostrarsi troppo adesivi verso gli alleati, visto che il capogruppo al Senato li aveva appena definiti «due bestie» e il governatore aveva spiegato che «a loro non darei nemmeno da parcheggiare la mia auto». C’è un limite a tutto, e il limite (per ora) è «il nostro leader».

Ma il «leader» si era perso l’acme di una disputa che ha mostrato quali siano le condizioni dello sfascio interno e quale sia l’appeal esterno del partito. Almeno a Roma, almeno a sentire l’analisi dei dirigenti capitolini, che si sono messi a ragionare su numeri da titoli di coda: «Con Bertolaso e le liste civiche, possiamo arrivare al 10% grazie al nostro 4%». Non il massimo per Forza Italia, che faceva all’incirca il 30% quando si chiamava Pdl, e che ieri era chiamata a scegliere. Solo che scegliere voleva dire spaccarsi. Ecco allora che Brunetta ha ripetuto il copione di ogni vertice: «Propongo di decidere che sia delegato a Berlusconi il compito di decidere». A quel punto l’ex premier non ha potuto esimersi dal tornare tra i presenti, dedicando loro una staffilata: «Però, non mi sarei mai aspettato che toccasse a me...».

E visto che toccava a lui ha fatto finta che quell’ordine del giorno pro-Meloni non ci fosse mai stato, che di Marchini non si fosse mai parlato, e che Bertolaso — dietro la porta e pronto a scatenare un putiferio fosse stato giubilato — venisse tranquillizzato. Resta lui il suo candidato, per ora. E quel per ora potrebbe dilatarsi fino alle elezioni, così da far capire che — per quanto debole — può ancora essere l’ago della bilancia per le ambizioni di chi mira al Campidoglio. Ma il gioco è vuoto a perdere: come un Sansone desideroso di infliggere la pena ai Filistei che stanno dentro e fuori Forza Italia, Berlusconi ha riempito di elogi la Raggi «e quegli altri giovani formati per andare in tv, che stanno portando al successo i Cinquestelle. Loro sì che sfondano». L’autocritica non è contemplata, come peraltro il ricambio generazionale. Ma nessuno ha avuto l’ardire di farglielo notare. Agli atti resta solo la sfida del Cavaliere ai «ragazzotti» Salvini e Meloni, che da tempo lo chiamano «l’ottantenne», tanto che a forza di ripeterlo al leader leghista è scappato di dirlo anche in tv. Se questa è un’ alleanza...

MASSIMO FRANCO SUL CORRIERE DELLA SERA
L e convulsioni sono così forti da avere prodotto soltanto l’ennesimo rinvio. Formalmente, Silvio Berlusconi non cede alle lusinghe e alle minacce di Lega e FdI sulle candidature al Campidoglio. Di fatto, bisognerà aspettare l’esito della trattativa un po’ surreale che il vertice di FI gli ha affidato ieri. L’irritazione leghista fa pensare che la frattura durerà ancora. I contrasti sono politici e geografici. Incrociano i calcoli di una nomenklatura consapevole di essere di fronte non tanto alle Amministrative di giugno, ma al dopo-Berlusconi: il fondatore del centrodestra non riesce più a saldare spinte diverse.

La domanda è a quali cederà alla fine. A premere per un accordo con la candidata di Lega e FdI, Giorgia Meloni, sono i settori «nordisti» di FI. Temono che lo scontro per il Campidoglio si ripercuota sulla stabilità delle giunte con il Carroccio. Matteo Salvini alimenta il timore, avvertendo: «Berlusconi ha pessimi consiglieri che lo vogliono far perdere. Chi non appoggia Meloni aiuta Renzi. E chi aiuta Renzi non sarà nostro alleato». Ma dentro FI c’è chi vede negli avvertimenti leghisti un bluff: nel senso che la capitale rimane un caso a parte, senza contraccolpi altrove.

Certo, se Berlusconi abbandonerà Guido Bertolaso al proprio destino di candidato additato da alleati e sondaggi come perdente, sconfitto sarà anche lui. L’aspirante sindaco assicura però che il suo capo gli ha detto di andare avanti. E il risultato è che ieri la Meloni ha aperto la campagna elettorale a Roma lasciando «la porta aperta» all’appoggio berlusconiano, che non è arrivato. Ma ormai l’esito dello scontro diventa quasi secondario: comunque vada a finire, sta andando in soffitta l’idea di un centrodestra unito a lungo.

Il patto Lega-FdI, forze un tempo divise anche dalla geografia, secessionismo del Nord contro nazionalismo centro-sudista, spacca proprio FI. La divergenza, però, è su strategia e coordinate culturali di gruppi dirigenti e di elettorati che negli ultimi anni si sono allontanati, e in parte dispersi nell’astensione. Molti, nel movimento berlusconiano, non si riconoscono in un’alleanza guidata da una Lega che insulta il capo dello Stato, ironizza su Papa Francesco in tema di migranti, archivia l’Ue, e accarezza la xenofobia. Il miracolo dell’intesa regge nella prospettiva di condividere il potere, non quando la prospettiva è di presidiare l’opposizione; perché anche su come combattere la sinistra le idee divergono.

«Bertolaso resta in campo? Il finale di questo film lo vedremo il 5 giugno», commenta il candidato del Pd, Roberto Giachetti. Salvini continua a sospettare che Berlusconi non voglia vincere a Roma per favorire Palazzo Chigi. Eppure, il rapporto con Renzi è già compromesso: troppo sbilanciato a favore del premier. E il «finale del film» si capirà solo al ballottaggio. Magari con qualche sorpresa regalata da un ex Cavaliere che forse non vuole tanto far vincere Renzi, quanto dimostrare che senza di lui il centrodestra è fuori dai giochi.

TOMMASO CIRIACO SU REP
TOMMASO CIRIACO
ROMA.
«Devi sostenere Marchini, non hai scelta. Se poi vuoi suicidarti inseguendo quei due...». Al telefono con Silvio Berlusconi, Fedele Confalonieri non gira attorno al problema. A nome del “partito delle aziende”, sconsiglia una deriva lepenista. E al telefono propone all’amico una mediazione “centrista” in grado di rianimare Forza Italia. Fa breccia, perché nel pomeriggio Berlusconi confida: «Fedele ha ragione. Se rompo con gli alleati, rischio. Ma se non rompo perdo la leadership. Ci siamo cacciati in un bel casino». Fotografia perfetta, visto che dopo un giorno di guerriglia una clamorosa scissione è dietro l’angolo: Giovanni Toti e Paolo Romani, a capo della pattuglia settentrionale, non sono disposti ad accettare lo strappo con la Lega. E meditano l’addio.
Anche un messaggio postato su Instagram dimostra l’eruzione in corso. Sul profilo di Francesca Pascale, primo sponsor di Guido Bertolaso, c’è la foto di Matteo Salvini e un commento: «Inginocchiati ai meridionali, troglodita». Se la fidanzata picchia sul Carroccio, il cerchio magico berlusconiano si occupa di demolire Meloni durante l’ufficio di Presidenza. La scintilla la provoca Toti, proponendo una bozza di documento che allude a un’intesa con Meloni e Salvini. «Non se ne parla», lo stronca Maria Rosaria Rossi. «Non possiamo accettare la resa incondizionata», fa eco Renato Brunetta, sostenuto dalla maggioranza del parlamentino azzurro. Non però da Paolo Romani, che si ritrova a un centimetro da un furioso Antonio Tajani. «La Meloni gioca a fare la Le Pen - urla il vicepresidente dell’Europarlamento - ma io con i fascisti non ci vado. Piuttosto me ne vado!».
Il peggio deve ancora venire. Nel pomeriggio è tempo di una riunione ristretta. Ci sono Berlusconi, Toti, Debora Bergamini, Annagrazia Calabria, Rossi e Tajani. Il presidente della Regione Liguria, che con la Lega deve governare, riparte all’attacco: «Se andiamo da soli prendiamo il 5%, Presidente. È una c...». Tajani lo gela: «Anche se ci alleiamo con la Meloni prendiamo il 5%, e in più cediamo la leadership». Per Bertolaso è il segnale. Corre alla Camera e rivendica: «Sono in campo». Poco dopo, in piazza Montecitorio, si esalta: «Per fermarmi devono legarmi. Quanto ero carico, eh?». A Palazzo Grazioli il cerchio magico prepara un comunicato con cui sfiduciare la leader di Fratelli d’Italia. Alla fine la nota resta in freezer. Sotto il palco del Pincio, intanto, Meloni e Salvini ironizzano sull’anziano leader: «Sarà lui che ci chiederà l’alleanza per il ballottaggio».
La battaglia interna a Forza Italia infuria. Toti, Romani e Maria Stella Gelmini – a nome dell’asse del Nord - sono pronti a fare i bagagli. Non accettano lo schema che, attraverso l’ex capo della Protezione civile, conduce fino a Marchini. L’imprenditore è pronto a costruire un’alleanza civica “moderata” con Bertolaso e Francesco Storace. E nel frattempo osserva defilato la frantumazione: «A Roma si sta celebrando il funerale del centrodestra e del centrosinistra. Serve discontinuità, altrimenti consegneremo la città ai grillini».
Berlusconi incontrerà gli altri due leader, pare già oggi. Per questo, la partita non è ancora conclusa. Resta la sensazione di una storia finita. Lo dimostra l’incursione di Ignazio La Russa nella sala stampa, mentre Bertolaso parla alle tv: «È tutto surreale. Berlusconi? Propone tre cose diverse, così poi può dire che l’aveva detto... ». A due passi, se la ride Fabrizio Cicchitto: «Temo che Silvio non sia nelle condizioni di decidere. Cambia idea ogni mezz’ora».

UGO MAGRI SULLA STAMPA
Che Salvini stesse preparando qualche uscita delle sue, nel giro di Arcore l’avevano sospettato: troppo ostentatamente distratto sulle vicende romane, troppo indifferente da giorni alla sorte di Bertolaso, troppo attendista insomma per essere genuino. Mentre Giorgia Meloni faceva fuoco e fiamme, e premeva perché il candidato berlusconiano venisse scaricato in fretta, dal leader della Lega nemmeno un segnale, zero pressioni o telefonate. Strano, no? Così è stato fino a ieri sera, quando di colpo Salvini ha scoperto le carte. Il suo asso consiste nello slogan «chi non appoggia Meloni aiuta Renzi». E nella conseguente minaccia: «Chi aiuta Renzi non sarà alleato della Lega». Berlusconi stia molto attento, è il senso, ci pensi bene prima di insistere con Bertolaso, perché questa sua cocciutaggine può scatenare a destra una guerra totale. In cui Silvio verrà etichettato come l’amico del premier, che insiste contro ogni logica sul cavallo perdente perché sotto sotto preferisce Giachetti, il candidato Pd.
Forza Italia nel caos
Per ora è solo una minaccia, appunto. E sono in parecchi a dubitare che Salvini possa davvero rompere con il Cav. Tra l’altro c’è di mezzo Milano, dove insieme sostengono Parisi contro Sala: far volare gli stracci proprio adesso non converrebbe a nessuno, tantomeno alla Lega. Però la sfida sembra lanciata apposta per allargare le crepe di Forza Italia. Dove regna la confusione più totale. Praticamente tutti gli esponenti berlusconiani del Nord (con l’eccezione di Brunetta) insistono per dare retta a Salvini e sacrificare dunque Bertolaso sull’altare dell’alleanza. Laddove i «ras» del Centro e del Sud (Tajani e Micciché in testa) esortano il Capo a non cedere per una questione, affermano, di dignità che viene prima della politica. Nell’ufficio di presidenza, ieri mattina, le due fazioni si sono scontrate a viso aperto. Con alcune singolari inversioni di ruolo. Il più «leghista» di tutti era Romani, che di solito viene considerato un orfano del Nazareno; mentre Brunetta, che di Renzi è la bestia nera, si è sentito additare come una «quinta colonna» del premier. Se non sono volati i vaffa, c’è mancato poco.
L’enigma Berlusconi
Mentre intorno a lui se ne dicevano di ogni colore, Berlusconi sembrava una sfinge. Nessuno ha realmente capito che cosa gli passasse per la mente. È rimasto ad ascoltare senza muovere un muscolo del viso. Idem più tardi a pranzo, con Bertolaso seduto a tavola insieme con alcuni gerarchi e il «cerchio magico». Per tirargli fuori un’indicazione, piccola piccola, l’ex capo della protezione civile ha dovuto ricorrere a uno stratagemma. Ha domandato al Cav, in separata sede, se poteva tenere o meno una conferenza stampa già programmata nel pomeriggio a sostegno della propria candidatura. «Assolutamente sì», è stata la risposta. Bertolaso l’ha interpretata come un via libera, un «vai avanti, nessuno ti chiederà di rinunciare». Ma di libera interpretazione si tratta, e nient’altro.
La pancia e il cervello
Chi assiste l’ex Cavaliere non scommette un cent sulla sua decisione finale. O meglio: ritiene che Berlusconi sia ancora scisso tra quanto gli suggerisce l’istinto e ciò che invece l’intelligenza consiglierebbe di fare. Un calcolo freddo e spassionato spingerebbe Silvio a ricucire con gli alleati. A passare sopra gli ondeggiamenti della Meloni, che prima non voleva candidarsi e poi l’ha preteso. Dunque a scaricare Bertolaso che lui stesso aveva indotto a candidarsi. Ma poi c’è la «pancia», cioè l’orgoglio ferito del leader non ancora rassegnato a chinare la testa. Che non ha stima vera di chi vorrebbe strappargli lo scettro. Che più si sente stretto in un angolo e più avverte l’obbligo di reagire incitato, dicono, dalla fidanzata Francesca. Se Berlusconi è ancora quello di una volta, alla fine la pancia avrà la meglio sul cervello