Marco Ferrari, Focus 5/2016, 22 aprile 2016
L’AMORE ALL’ETÀ DELLA PIETRA
A giudicare dai cartoni animati, Wilma era una perfetta massaia e Fred Flintstone un marito tutto casa, caccia e raccolta. E i loro vicini di caverna erano una coppia ideale. In questo quadretto, i nostri antenati formavano quella che in molti ritengono essere la famiglia “naturale”, in cui la monogamia è la regola. Un’idea contro la quale si sono scagliati lo psicologo Christopher Ryan e sua moglie Cacilda Jetha, cercando di cambiare secoli di antropologia con il libro In principio era il sesso (Odoya), che ha attirato interesse e anche molte critiche.
UN LUI E UNA LEI. I Ryan affermano che la visione della coppia umana come monogama sia sbagliata, e lo fanno allargando lo sguardo a tutti gli aspetti della vita. Per esempio, si sa da tempo che le tribù dei cacciatori-raccoglitori sono (ed erano) egualitarie, e dividono appena possono cibo e aiuto tra tutti i membri della tribù. È un metodo perfetto per aumentare la coesione sociale, e far sentire tutti parte del gruppo. Insieme alla condivisione di assistenza e prodotti della caccia, affermano i due, i nostri progenitori si scambiavano anche favori sessuali; erano cioè, in definitiva, promiscui. Attenzione però, dicono gli autori: non era una promiscuità come la intendiamo oggi, cioè priva di discriminazione e amore. Anzi; anche se esistevano le coppie di moglie e marito, ognuno dei due aveva rapporti anche con altri componenti della tribù, ma non con gli estranei.
Una promiscuità non differente dalla generosità con cui i membri del gruppo si scambiavano parti di un animale appena ucciso, o si davano una mano a costruire una capanna. Il libro contrasta dunque con la concezione della famiglia “naturale” supportata dal senso comune e dalla morale corrente.
TUTTI UGUALI, NELLA SAVANA. Nel frattempo, però, la paleoantropologia tradizionale ha costruito un quadro molto complesso della nostra specie, più di quanto non si pensasse qualche decennio fa. Dapprima si è visto che le femmine non erano addette solo a raccogliere qualche foglia di insalata nel giardinetto dietro casa; il loro contributo al bilancio alimentare era importante. E, invece di avere una netta divisione del lavoro tra maschi e femmine, l’intera società era egualitaria e cooperativa. Non solo; lo scambio di cibo, riparo e aiuto nel gruppo avveniva con molta più frequenza rispetto alle altre scimmie antropomorfe. Sulla riproduzione, invece, sempre secondo la linea di pensiero dominante, l’affresco era questo: tutto partiva da un dato indiscusso, cioè la ricerca della certezza di paternità. I nostri antenati sono tra i pochi animali, diceva la maggior parte degli studiosi, in cui il maschio voleva avere la certezza di essere il padre dei bambini nati dall’accoppiamento. Questo perché il maschio “investiva” energia e sforzi nell’allevare il piccolo. La femmina doveva essere protetta, il figlio allevato, nutrito e tenuto lontano dai pericoli. Insomma, i nostri tris-trisnonni si caricavano di un alto “investimento parentale”. Se la madre avesse avuto un’avventura col prestante vicino di capanna, il padre si sarebbe trovato ad accudire un bimbo portatore di geni estranei: tempo ed energia sprecati, quindi. Stare fedelmente accanto alla femmina, secondo questa visione, sarebbe stata un’assicurazione contro il tradimento.
GELOSI E ATTENTE. L’atto dell’accoppiamento in sé, però, è poco costoso per il maschio; gli spermatozoi sono facili da produrre in quantità, a differenza delle uova femminili. E allora, oltre alla “sua” femmina, per l’uomo c’erano continui tentativi di accoppiarsi con altre: ecco, nella visione “ufficiale”, da dove nasce la figura del maschio geloso, ma non immune da avventure extraconiugali. Anche le femmine cercavano altri partner, ma erano più attente nella scelta. Il loro “investimento” era molto più elevato di quello del compagno. Nove mesi di gravidanza e forse due o tre anni di allattamento costavano un sacco di tempo ed energia; accoppiarsi con il maschio dotato dei geni sbagliati voleva dire avere figli poco adatti alla sopravvivenza e gettare al vento gli sforzi fatti.
AMORE DIFFUSO. Ma su questa visione della scienza tradizionale i Ryan non sono d’accordo. Quello che si pensa essere l’obiettivo principale degli accoppiamenti, cioè la riproduzione, per loro è quasi un effetto collaterale. Per dimostrarlo fanno notare che la specie umana, a differenza della maggior parte degli animali, effettua per ogni bambino che nasce circa mille accoppiamenti, molti dei quali – secondo loro – promiscui; mentre la media degli altri mammiferi è di poche decine. È quindi “naturale” la gelosia, si chiedono i due? Se la madre ha numerose storie con altri maschi, che senso ha questo sentimento?
Un altro punto cruciale è il mito dell’orgasmo femminile, che decenni di studi antropologici hanno dichiarato essere meno ambito (dalle nostre antenate) di quanto non lo fosse quello maschile. Ma non è affatto vero che le femmine fossero disinteressate al sesso, dicono Christopher e Cacilda, e lo dimostrerebbe la scoperta di falli artificiali di oltre 30.000 anni fa. Forse erano rituali, oppure erano veramente come i moderni sex toys. Anche se, ai giorni nostri, persino la pornostar Valentina Nappi pensa che gelosia e monogamia siano tratti “innati” della nostra specie, secondo questa nuova ipotesi ognuno dei nostri antenati (e forse anche noi) era alla ricerca di soddisfazioni sessuali che poco hanno a che fare con i figli. E quindi la monogamia, la gelosia, la possessività e altri aspetti che consideriamo “naturali” non lo sono affatto. Se fosse vero, però, come si è passati dalla situazione paritaria originaria a quella attuale? Ciò che ha cambiato tutto, dicono i Ryan, è stata l’agricoltura. Con la coltivazione e l’allevamento, infatti, sono nate la proprietà, la società strutturata, le religioni e le gerarchie. Con la donna costretta a rimanere in casa e l’uomo, sposato solo con lei, che si fa carico dei figli. Questa tesi non è stata accolta da tutti, e ha sollevato animate discussioni. È vero che la monogamia non è alla base delle antiche società, ma la tesi dei Ryan, che ci fosse completa uguaglianza tra i sessi, non è comunemente accettata. Secondo Marco Aime, docente di antropologia all’Università degli Studi di Genova, al contrario, l’agricoltura ha favorito lo scambio di partner, rendendo possibile la convivenza di molte famiglie. E si è passati da matrimoni all’interno dello stesso gruppo a quelli tra persone appartenenti a gruppi diversi. «Già in questo», spiega Aime, «non c’è nulla di naturale. In antropologia si pensa che di “naturale” ci sia solo la determinazione biologica alla riproduzione». Tutto il resto è dovuto alla cultura, insomma.
VARIETÀ. «La norma in natura, riguardo alle famiglie, è la diversità di soluzioni; noi ci affezioniamo a un modello (ritenendolo più “naturale” degli altri) per ragioni più culturali che biologiche», conclude Telmo Pievani, docente di filosofia della biologia all’Università di Padova. «Sappiamo benissimo che la famiglia è una costruzione culturale che dipende dall’evoluzione sociale, ma poi diciamo che quella monogamica in senso stretto è l’unica “normale” e “naturale”».
Il dibattito sulla famiglia e sulla sua evoluzione è appena cominciato. E le ombre del passato, sotto forma del comportamento dei Flintstones, continuano a proiettarsi anche nelle nostre case.
Marco Ferrari