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 2016  aprile 22 Venerdì calendario

APPUNTI SU TOTTI PER IL FOGLIO ROSA


MALCOM PAGANI, RIVISTA UNDICI N. 4 –
Lei non ama parlare della Roma.
«Lo faccio solo con i miei simili. Parlo pochissimo del mio rapporto con la Roma proprio perche lo definisco un rapporto. E non si racconta in giro di come fai l’amore con la tua donna. Finiti i tempi delle descrizioni sofferte dei flirt adolescenziali, su certe cose, non c’è niente di meglio del silenzio».

L’hanno cercata per chiederle di schierarsi tra Totti e Spalletti?
«L’hanno fatto, certo. E io gli ho detto di non azzardarsi. Io nasco come romanista a prescindere dal mestiere che faccio e dalla persona che sono. Non l’ho scelto».

È stato automatico.
«Tra il campione quasi quarantenne e l’allenatore di ritorno, Roma si è divisa. Sono stati giorni sofferti. È come se avessimo avuto un grave problema di famiglia. Non è che uno non prenda posizione per ignavia, ma solo perché è troppo complicato».

Giorni complicati.
«La sofferenza è un’altra cosa, però ci incontravamo al bar tra persone romaniste con certe facce che erano un programma: “Ma tu stai male?” “Benissimo non mi sento”. È stato come se le chiacchiere di casa tua, quello che ne so, fatte a Natale tra un sette e mezzo e una stoppa, fossero rese pubbliche. Lo so che sembra ridicolo, ma la Roma è qualcosa che va oltre l’amore, gli anni e la passione. È facile dire moriremo romanisti. Il difficile è vivere come tali».

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GIANNI MURA, LA REPUBBLICA 18/4 –
Spalletti dovrebbe sapere che a Roma andare contro Totti è come presentarsi a un convegno di vegani masticando un cosciotto d’agnello. Alla sua età, Totti può essere dosato e discusso, maltrattato no.

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MATTIA FELTRI, LA STAMPA 19/4 –
Ieri sulla Tiburtina, appesa allo spartitraffico, c’era la foto d’un ragazzo morto in incidente stradale ornata da un mazzo di fiori e da una maglietta di Francesco Totti. Altari così, un po’ laici un po’ sacrileghi e anche decisamente sacri, a Roma non sono infrequenti.
Il rapporto del campione e della città è ormai evoluto a una spiritualità strana e commovente per cui, sempre ieri, a una delle radio in cui si dibatte tutto il giorno di romanismo, si è sentito dire che «non si può fare questo a ’sto ragazzo, ve lo dico da laziale». Lo scandalo è tale da assumere imprevedibili aspetti bipartisan, e il dispiacere che gonfia l’orgoglio è sconfinato oltre i territori puramente agonistici. «Dobbiamo riempire la curva così ti spieghiamo cos’è Roma», dice un altro in collegamento col mitologico e cattivissimo Marione. «Ti spieghiamo», si intende all’allenatore Luciano Spalletti, stranamente impegnato a ridisegnare la leggenda al ribasso, proprio ora che la leggenda dovrebbe prendere piano piano il posto del calciatore. E chi si aspetta per pregiudizio una geremiade sbrodolata e irrazionale, sbaglia. Marione e i suoi colleghi delle instancabili radio sportive sono attenti a contenere le inevitabili derive complottistiche. Uno ci prova: «Devo usare una parola grossa: politica. Qui c’è dietro un disegno che porta la società verso una precisa direzione, e ci sono mass media che reggono questo gioco». Adesso non esageriamo, gli rispondono. Un secondo si lancia in complicate analisi azionarie: «Ma scusate, Totti non è socio di minoranza?». «Si, perché?». «Vabbè, allora è tutto chiaro, il compito è quello di distruggere l’immagine di un socio di minoranza potenzialmente molto scomodo». «Ma no, dài, ha quote minime... Non c’entra niente...».
E infatti quando poche settimane fa la questione era stata chiara, la marginalizzazione di Totti decisa dal nuovo allenatore, Roma pareva divisa in due, chi sosteneva l’inadeguatezza al campo, se non per pochi minuti, di un fuoriclasse avviato ai quarant’anni (li compirà a settembre), e chi invece lo voleva più al «centro del villaggio», il punto destinato ai monumenti. Ora Totti guadagna quasi il plebiscito perché, come accennato sopra, la vicenda è andata oltre i moduli, le pagelle, la propensione al gol, la tenuta atletica, adesso ha a che fare con il sentimento intimo e inviolabile di un popolo. «The King of Rome will never die» – il Re di Roma non morirà mai – è la parola d’ordine diffusa da decine di microfoni. I tifosi nemmeno parlano di secondo posto in classifica, di qualificazione diretta in Champions League, parlano di «un uomo solo contro l’ingiustizia», di «senso di malinconia per il tramonto della Storia (il maiuscolo è nostro, ma alla radio si coglieva)», di «mancanza di riguardo per il cuore di milioni di persone». Ecco, di mezzo si è messo il nuovo marziano, l’allenatore Spalletti che maltratta il Re, una specie di Ignazio Marino della panchina le cui colpe vanno oltre i risultati – fin qui per la squadra molto buoni – e investono piuttosto l’idea millenaria di grandezza, anche applicata al calcio, che Roma conserva di sé. «È tornato perché evidentemente aveva dei conti da regolare», dicono gli ascoltatori. E poi: «Se non sai chi siamo, che cosa abbiamo nel cuore, per te non c’è futuro». Nel cuore c’è la speranza che la favola si concluda come era scritto: Totti è rimasto a Roma per venticinque anni, sebbene altrove avrebbe vinto di più, perché le coppe e gli scudetti non sono la cosa più importante; ed è questo che Spalletti non ha capito.
Mattia Feltri, La Stampa 19/4/2016

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LUCA VALDISERRI, CORRIERE DELLA SERA 22/4 –
Ci sono i fatti e ci sono le opinioni. I fatti dicono che Francesco Totti ha dimostrato sul campo di essere ancora un calciatore decisivo per la sua squadra. Non vuole fare il dirigente perché di quelli ne trovi a bizzeffe, mentre i campioni che vincono le partite sono merce rara. A Roma introvabile. L’opinione del presidente James Pallotta, dei suoi consiglieri e di Luciano Spalletti è che indietro non si torna. A Totti, a meno di imprevedibili e clamorosi sviluppi, non sarà offerto il contratto per un ultimo anno in giallorosso.
Non c’è una comunicazione ufficiale, anche perché farla il giorno dopo che Totti ha salvato la Roma sul campo e nel bilancio (la partecipazione alla prossima Champions League vale dai 50 milioni in su) sarebbe impopolare. Ma ha il suo peso che Pallotta non abbia ripreso una vecchia promessa: «Francesco, decidi tu il tuo futuro». Se si desidera una persona, non si aspetta.
Pallotta ha deciso di difendere Spalletti dalla forza «ambientale» di Totti. La decisione non è basata sul «merito» ma sul «metodo». Totti è ancora il più bravo di tutti — per una partita, per un tempo, per un minuto lo decida il tecnico — ma non basta. È quello che Totti rappresenta per la squadra e per la tifoseria (quella da stadio, non quella da tastiera) che deve finire dietro una scrivania. Sul campo di allenamento e sul campo da gioco è troppo ingombrante. A Boston si parla di marketing e di merchandising, di immagine e di mercati da conquistare. La realtà è che la Roma gioca da anni senza lo sponsor e che la maglia più venduta, in Italia e all’estero, è sempre la numero 10. Le tv, i giornali e i siti di tutto il mondo hanno celebrato la serata magica di Totti (Pjanic, alla radio ufficiale della Roma, ha detto quello che a Trigoria non si deve dire: «Totti è la Roma»). Pallotta, mercoledì sera, non è andato oltre «sono molto orgoglioso di Francesco».
Se Totti vuole continuare a giocare — chiedere al Bologna, all’Atalanta e al Torino se ne è ancora capace — dovrà farlo altrove. Per adesso gli è arrivata una ricchissima proposta dall’Al Jazira, la squadra degli Emirati Arabi che voleva coprire d’oro Gervinho. Un’altra possibilità sono gli Stati Uniti, ma Totti aveva congelato tutto perché la sua idea era chiudere, a 40 anni, con la squadra della sua vita.
C’è chi rinfaccia a Totti l’intervista al Tg1, alla vigilia di Roma-Palermo, che gli costò l’esclusione dai convocati. Certo, si poteva evitare. Lo stesso si può dire dello stillicidio delle frasi di Spalletti. L’allenatore ha fatto giocare 3 minuti a Totti contro il Real Madrid («Per vincere le partite ci vuole forza, corsa e sacrificio»); ha scomodato il re dei telecronisti in pensione quando Fabio Caressa ha detto che al derby avrebbe fatto giocare Totti dall’inizio («Si potrebbe proporre un altro sondaggio: far commentare l’Europeo a Caressa o a Pizzul?»); ha messo in dubbio il valore effettivo dei due gol nel derby del selfie l’11 gennaio 2015 («Chi dice che nel primo tempo la Roma non andò sotto perché qualcuno non copriva gli spazi?»); ha usato i dati di un’amichevole con la Primavera per confermare le lacune dinamiche di Totti. Sarebbe come giudicare Valentino Rossi non per ciò che fa in gara ma per il tempo nelle prove libere.
Riscaldandosi, mentre il Torino stava vincendo all’Olimpico, Totti ha detto ai fotografi: «Scattate, che sono le ultime». L’ultima all’Olimpico sarà Roma-Chievo, domenica 8 maggio, alle 12.30. Chissà se qualche dirigente della Roma chiederà alla Lega se è possibile cambiare l’orario o se l’addio di Totti dovrà arrivare tra un boccone e l’altro, con l’indice di ascolto tv più basso possibile.
Luca Valdiserri

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MARIO SCONCERTI, CORRIERE DELLA SERA 21/4 –
O rmai è un’abitudine veder vincere la Juve così ci stiamo quasi scordando che sta accadendo qualcosa di eccezionale. Le vittorie della Juve sono infinite, annullano cento anni di statistiche. E per di più parlano di una superiorità semplice, così evidente e inevitabile da rendere inutili le partite. Vale alla fine di più quello che accade alle sue spalle, ma prima è opportuno dar conto di una precisazione, volando in diagonale sul caso Totti. Quando la Juve annunciò a novembre di due anni fa in una sede istituzionale come l’assemblea dei soci che era l’ultima stagione di Del Piero, non aveva prima parlato con Del Piero. La sua gestione di chiusura fu netta, infinitamente più dura di quella della Roma. Non c’era accordo, ci fu solo una decisione unilaterale. Legittima e forte. La differenza col presente fu nel silenzio di Del Piero che permise una signorilità di fondo anche alla società. Insistendo un attimo, si comprende anche la vera differenza tra le possibilità di scegliere di Juve e Roma. La Roma rappresenta una grande città, un popolo vicino e per forza asfissiante. La Juve rappresenta essenzialmente un’azienda, il suo popolo e infinito ma disperso lungo tutto il Paese. Non c’è scontro culturale possibile né litigio sul pianerottolo. Solo un grande mormorio, una delusione che si calma con i successi. Qui il problema è doppio, nel senso che Totti non è d’accordo e firma lui i successi che dovrebbero emarginarlo. Ne tenga conto Spalletti quando tenta di spiegare cosa sia Totti e cosa sia la Roma. Non tocca a lui decidere una realtà che può solo prescinderlo. Nemmeno lui è la Roma. Nel mezzo del caso Totti cade l’Inter, non male ma non superiore al Genoa. Non meritava la sconfitta, non meritava di vincere. È un brutto arresto che cambia l’idea che la squadra si era fatta di sé. Vale una riga lo stupore di Thohir davanti alle voci disfattiste. Nessuno pensa a una bancarotta, ma è normale che molti si chiedano chi copra i 400 milioni di debito in garanzia dei quali è stata semplicemente ipotecata l’Inter. Su, non prendiamoci in giro. Così alla fine i questa notte di mezza estate molti giochi sono arrivati alla fine. Resta una chance al Milan per fare un po’ di confusione. Vedremo come la sfrutterà stasera con un Carpi che resta ancora salvo.

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MASSIMO CECCHINI, LA GAZZETTA DELLO SPORT 22/4 – Nei pressi del centro sportivo di Trigoria l’ambiente non è di quelli più chic. Lavori in corso stradali su saliscendi poco agevoli, lavori in corso di prostitute più o meno a tutte le ore. In questo contesto, ad un centinaio di metri dal principale cancello del «Fulvio Bernardini», fa da polo di attrazione nel deserto circostante un dignitosissimo bar tavola calda di fede giallorossa. È proprio lì che Francesco Totti pochi giorni fa, appena finito di pranzare in sede, è andato a prendere il caffè. Inutile descrivere lo stupore degli avventori e, a chi gli chiedeva il motivo della sorpresa (il bar del centro sportivo è assai accogliente), il capitano della Roma ha risposto: «Perché lì sono in pochi a volermi bene». Com’è noto, non sono i sentimenti il carburante del calcio del Terzo Millennio, ma di sicuro Totti ieri si è potuto consolare con l’affetto tributatogli da tutto il mondo del calcio.
Giornali e stelle internazionali hanno celebrato la sua doppietta col Torino, tant’è che persino il sito della Uefa lo ha omaggiato: «L’ennesima magia dell’ottavo re di Roma... di un campione amato e discusso, venerato e osteggiato». Ecco, proprio l’ultima definizione fotografa il momento, visto che il rinnovo che la proprietà Usa per ora non ha intenzione di concedere, sta alienando molte simpatie al presidente Pallotta. E se Giovanni Malagò, presidente del Coni, ora «si dice più ottimista» riguardo al prolungamento, nella Roma non vivono lo stesso stato d’animo.
Anche ieri il capitano non ha avuto contatti con Pallotta. Per via indiretta gli sono giunti i soliti complimenti («orgoglioso di Francesco») e le solite frasi («quando verrò parleremo di persona»), ma coloro che hanno il compito di decrittare gli umori presidenziali raccontano come cambi di rotta non ce ne siano, anche se da un personaggio vulcanico come Pallotta è lecito aspettarsi colpi di scena quando tornerà a Roma a fine maggio. Ma a quel punto Totti avrà già danzato il suo ultimo valzer, che per quanto riguarda l’Olimpico è previsto addirittura l’8 maggio per un malinconico Roma-Chievo in programma alle 12.30. Visto che per l’occasione anche gli ultrà più duri stanno riflettendo se tornare a riempire la Curva per omaggiare l’addio del capitano, e pure a Trigoria qualcuno si chiede (a ragione) se non fosse il caso almeno di giocarla più dignitosamente in notturna per favorire la creazione dell’evento, per quanto struggente.
Ma meglio non intristirsi prima del tempo perché, in perfetta coincidenza col Natale di Roma, la Capitale ha davvero ritrovato il suo re virtuale, come politici di ogni ordine e grado hanno ripetutamente sottolineato. E allora molti si chiedono: ma perché Pallotta si ostina al «no» al rinnovo? La esegesi che arriva dalla società è chiara. Il presidente avrebbe tutto il vantaggio di concedere l’ultimo anno al capitano, senza contare che solo col merchandising della maglietta – sempre di gran lunga la più venduta – rientrerebbe dell’ingaggio assai ridotto rispetto al passato (un milione). Non parliamo poi del ritorno d’immagine, folgorante. E allora? La presa di posizione di Pallotta è interpretata così: il presidente è disposto anche a subire le accuse della tifoseria per proteggere Spalletti, evitandogli di vivere una stagione intera sull’orlo dello psicodramma. Morale: la piazza crede poco all’allenatore che dice: «Se Pallotta me lo chiede, gli dico di rifare il contratto a Francesco». Troppe le prese di posizioni contrarie degli ultimi mesi per convincere la tifoseria, e così il paradosso finale lascia ipotizzare una Roma costretta a vincere a tutti i costi (pena polemiche) per farsi perdonare «l’offesa» al più forte calciatore della storia giallorossa. Da parte sua Pallotta in coscienza si sente tranquillo perché, con l’offerta di un contratto da dirigente senza che Totti abbia alcuna qualifica specifica, ritiene di essere più che disponibile
Impressioni? Il capitano ora appare sereno. Sa quello che vuole («giocare ancora») e ha dimostrato quello che vale, tanto che ieri scherzava dicendo: «Adesso agli arabi e agli americani gli chiederò più soldi per andare a giocare da loro». Al momento, il club più pressante sembra essere l’Al Jazira, che farebbe ponti d’oro al numero dieci. Di dorato, invece, gli è arrivato intanto un nuovo tapiro di «Striscia la notizia». E all’intervistatore che gli faceva i complimenti, invitandolo a chiedere a Spalletti di giocare di più, Totti ha risposto: «Glielo dirò». Un consiglio? Meglio non provarci. Tanto il dio del calcio sa già da che parte stare.

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DAVIDE STOPPINI, LA GAZZETTA DELLO SPORT 22/4 – Frammenti del film. Giuseppe , 8 anni, la sa lunga. Entra in campo con Calvarese, prende il pallone, alza lo sguardo e chiede all’arbitro: «Ma tu per chi tifi, tra Totti e Spalletti?». «Io tifo per la mia squadra, quella degli arbitri», risponde Calvarese al bambino. Politically correct. Ma sotto sotto forse la bilancia pendeva per Totti, perché la bizzarra sequenza dei rigori non dati e poi fischiati s’è rivelata una sceneggiatura da Oscar in favore del capitano. E forse ha tirato giù il velo sull’aspetto tecnico di questa storia.
Al netto di partiti e ripicche, di schieramenti, retropensieri e assistenze trasversali di una città che prova gusto a spaccarsi, c’è un fatto che queste tre partite hanno portato alla luce. Totti è entrato in una dimensione che forse neppure lui pensava di avere. Non gli è mai stata riconosciuta, per quanto poche siano state le panchine della sua carriera, una grande capacità di riuscire a incidere entrando a partita in corso. Bologna, Atalanta e Torino sono la firma a un ruolo che forse lo stesso Totti reputa, ancora oggi, stretto. E che lo stesso Spalletti non immaginava così produttivo per la causa. La risposta è sì: Totti può essere ancora un fattore nella fase calda della partita. La soluzione del caso sarebbe semplice, se non ci fossero mille implicazioni di mezzo. Un impiego part time, un Totti «alla Altafini», definizione abusata ma tremendamente appropriata, sarebbe la premessa ideale in un mondo ideale sulla strada del rinnovo. Perché in fondo la via l’ha indicata il d.s. Walter Sabatini, nel bel mezzo del pomeriggio nervoso di Bergamo: «Su Totti c’è una precisa indicazione della proprietà, ma poi io osservo il campo». Come a dire: nella vita si può anche cambiare idea.
Anche perché quel campo emette sentenze ogni maledetta domenica, sotto forma di numeri e record. Totti ha segnato 4 gol in 287’, in questa stagione, una media di una rete ogni 71 minuti e spicci. È l’unico calciatore ad essere andato in gol almeno una volta per 22 campionati consecutivi in Serie A. E con il rigore di due sere fa è diventato il calciatore ad aver trasformato più tiri dal dischetto in Serie A, 69 (su 86 battuti), superando di una lunghezza Roberto Baggio. Quello del «mai mettersi contro un campione, perché il campione non muore mai». Uno che centravanti vero non è mai stato. Totti invece da 10 è diventato 9. E da 9 ha allungato la sua carriera, in un ruolo che Spalletti gli ha cucito addosso. E lui, da centravanti, l’ha ripagato con un movimento sul secondo palo che è fiuto puro, istinto da campione.
Il campione che Spalletti ha deciso di utilizzare a seconda del tipo di partita e del momento degli avversari. Il dinamismo di Totti, evidentemente, non può essere quello di 10 anni fa. Ma l’occhio e il piede non passano di moda. E sono ancora in grado di decidere la direzione di una gara. Magari quando gli avversari abbassano il ritmo e si chiudono a difesa di un risultato, è qui che Totti diventa il fattore da sfruttare a partita in corso. Anche per più di 4 minuti, perché non sempre si può chiedere in prestito un miracolo al Paradiso. Così sarà per le prossime quattro partite, presumibilmente le ultime quattro del capitano con la maglia della Roma. C’è un’ultima rincorsa, un secondo posto da inseguire. E poi sarà chissà cosa.

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ALESSANDRO DE CALO’, LA GAZZETTA DELLO SPORT 22/4 – Come altre religioni, il calcio ha bisogno di dare corpo alle sue icone. La fede si rigenera quando tocca i simboli con mano. La mistica funziona perché qualcuno riesce a trasformare le illusioni in realtà, come ha fatto Francesco Totti l’altra sera, vincendo da solo negli ultimi sospiri una partita già persa. Sembra complicato, invece è molto semplice. Ognuno di noi ha avuto un Totti da amare nella sua vita di tifoso. Il tifo è una malattia dell’infanzia – dalla quale è difficile guarire – che scatena mille meccanismi, anche imitativi. Adesso parliamo di Totti perché è una bandiera che si ostina a resistere nella Roma e riesce a rigenerarsi nel braccio di ferro con Spalletti, l’allenatore che lo sta mettendo da parte. Bellissimo romanzo a puntate. Siamo tutti coinvolti. Resta vivo un paradosso in questa storia. Da una parte ci si lamenta perché le bandiere si stanno estinguendo, nel calcio sempre più mercificato e globalizzato. Dall’altra si tende a considerare le bandiere un ingombro antico, qualcosa che intralcia il traffico, vecchi giocatori da rottamare. In genere, per gli Evergreen non c’è un lieto fine: forse Zanetti può staccarsi dal gruppo. Ma, come ha detto una volta Jorge Valdano, se i calciatori avessero immaginato quanto è duro l’addio, avrebbero fatto altro: gli scultori o i pittori, per non smettere mai. Chiedete a Giuseppe Bergomi o a Paolo Maldini se è stato dolce o amaro il distacco da Inter e Milan, le squadre della loro vita. Sarebbe superfluo fare la stessa domanda ad Alex Del Piero, che pure aveva lasciato i bianconeri con l’onore delle armi: pubblico annuncio del presidente della Juve, Andrea Agnelli, in un’assemblea dei soci. Steven Gerrard ha sofferto come un cane a lasciare il Liverpool, Xavi magnifico direttore d’orchestra del Barça più forte di sempre non riusciva a staccarsi dal Camp Nou ma Luis Enrique gli ha dato la spinta giusta. Ci vuole forza e coraggio. Le bandiere possono diventare una repubblica autonoma dentro ai club. Qualche volta il tecnico di turno fa lo stesso mestiere di Martin Sheen con Marlon Brando in quel capolavoro che è “Apocalypse Now”. «Sei solo il garzone del droghiere venuto a riscuotere il conto» gli dice Brando quando capisce che stava per eliminarlo. A Madrid, Florentino Perez aveva approfittato di Mourinho per liberarsi di Raul Gonzalez e, più avanti, di Casillas. Succede anche dall’altra parte dell’oceano. A Baires, il braccio di ferro tra i dirigenti del Boca e Riquelme era diventato un caso politico mentre scorrevano i titoli di coda sull’avventura dell’ultimo grande Diez. Poi è tornato Tevez: bandiera scaccia bandiera. Una soluzione. L’altra è fare come Roberto Baggio o il Ronaldo brasiliano, che dopo essere stati bandiere hanno inseguito una strada tutta loro. Ibra ha scelto subito la soluzione 2.0. Forse è già avanti. Ma se comanderà solo il mercato, il calcio è destinato a diventare una religione diversa.

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MATTEO PINCI, LA REPUBBLICA 22/4 –
La notte di Totti non cambierà il suo futuro. La notte dell’emozione ha tenuto James Pallotta attaccato allo schermo, ma non l’ha convinto a rivedere i propri piani. Semmai ha regalato un finale da favola al libro della sua storia: il contratto da calciatore scadrà a giugno e il presidente continua a vedere il futuro di Francesco lontano dal campo. In un colloquio recentissimo il club gli ha proposto di farsi un giro negli States, di toccare con mano cosa ha in mente per il suo futuro la società, di valutare confrontandosi personalmente anche con altri ex calciatori e con manager sportivi quali possibilità può riservargli la carriera dirigenziale. Magari da vice presidente, visto che la carica è vacante. Lui aveva persino iniziato ad avere qualche dubbio. Poi una settimana da dio, con l’assist contro il Bologna e i tre gol con Atalanta e Torino, hanno ridato forza alle sue convinzioni: perché smettere se sono ancora decisivo, deve pensare Francesco. Come contro il Torino, però, non è davvero finita finché non è finita: per questo dopo la fine del campionato Pallotta sbarcherà a Roma con l’obiettivo di trattare definitivamente la questione. E di trovare una soluzione il più possibile condivisa. Aperture dal fronte americano a un altro anno da calciatore non ne sono mai arrivate, e pure Totti è rassegnato: ai fotografi, dopo il primo gol, ha detto: “Scattate, tanto sono le ultime”. Solo Pallotta può scegliere un finale diverso.
( m. p.)

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ANGELO CAROTENUTO, LA REPUBBLICA 24/2 -
ROMA
Il testamento che Totti non vuol firmare è dentro un video che dura il tempo in cui Gino Paoli canta “Il cielo in una stanza”.
Quando sei qui con me, esce Keita e il capitano mette piede in campo. Minuto 85 e 30” di Roma-Torino, risultato 1-2. Così comincia quest’attimo lunghissimo, chiuso dentro una bolla che danza sopra l’Olimpico, oltre il tempo, un attimo di due gol in due minuti e quaranta secondi, al termine dei quali tutto sarà diverso e tutto in fondo resta come prima. Keita s’avvia in panchina come sconfitto. Contento non è. Se solo sapesse che sta cambiando la partita. Uscendo.
Entrando, Totti l’ha già cambiata con il Bologna, un assist per il gol del pari di Salah in 45 minuti. L’ha ricambiata contro l’Atalanta sei giorni dopo, un colpo di destro, un altro pareggio, 3-3, e palla della possibile vittoria servita a Džeko, lasciamo stare. Tutto stavolta in 12 minuti. E come in un videogame che ti dà accesso al livello superiore e più complesso, ora contro il Torino gliene rimangono quattro. «Forse dovevo farlo entrare prima», dirà Spalletti. Forse. Almeno sorride.
Questa stanza non ha più pareti ma alberi.
I quattro minuti di febbraio con il Real, presentati come un omaggio al campione, furono vissuti da Totti come un’offesa. Un’onta da lavare davanti al microfono del Tg1. Due mesi e tre giorni dopo, questi stessi quattro minuti che Spalletti gli offre sperando chissà che cosa - certo non quello che incasserà - iniziano con la medesima corsetta a testa alta verso l’area di rigore e si esauriscono in modo opposto. Questo nostro vecchio vizio di giudicare una storia dal finale. C’è Pjanic che sta per battere una punizione. Volendo, Totti potrebbe farsela lasciare. Se non lo fa è perché non vuole. Tira dritto. Non si ferma. È dentro che ha deciso di andare. Dei margini dev’essersi stancato. Nel cuore, allora. Anche se quel posto in fondo non gli appartiene. Diciotto secondi di gioco fermo, altri quattro perché la palla finisca là dove deve. L’occhio di chi guarda coglie soltanto che sbuca da un mucchio e si corica in porta. Ma la testa sa già cos’è successo, la testa sa chi è stato a buttarla dentro. Quando si alza la schiuma in area di rigore, sono sempre gli stessi ad arrivare per primi sulla palla, quelli che sanno dove aspettarla, e là si fanno trovare, sicuri, pazienti, perfino pettinati e sorridenti, come Pablito Rossi al Bernabéu nella finale mondiale ‘82 con la Germania, come Francesco Totti adesso e qui.
Suona un’armonica mi sembra un organo che vibra.
Il modo, poi. Quella spaccata. Se avesse ancora vent’anni, Totti si lancerebbe proprio così. Solo che venti non ne ha più, e neppure trenta, a settembre sono quaranta, e proprio perciò bisogna colpirla allo stesso modo, per non smettere di illudersi proprio adesso che su un campo di calcio il tempo non passa mai. Il vecchio e il bambino fusi in un corpo solo. Un corpo che per Roma è simbolo, è palpito, porta alle lacrime per un 2-2, sì, un 2-2, non è questo il posto in cui vincere è la sola cosa che conta. Del Piero fu licenziato con una nota dell’assemblea dei soci. Maldini non ha più messo piede al Milan. Antognoni ruppe con la Fiorentina. Perciò questo sipario che Totti respinge piace pure a juventini, milanisti, perfino ai laziali. Vorrebbero averla vissuta tutti l’esperienza di farsi carne con il proprio idolo per l’eternità. Lui che urla ti amo per Ilary rimasta a casa, perché uscire e andare allo stadio, ah France’, per 4 minuti adesso è troppo. Lei s’è finanche addormentata sul divano, eppure lo vede mentre piazza la palla venti centimetri oltre il cerchio di gesso, allungando lo spazio come prolunga il tempo. Totti sa che non è una notte da cucchiaio. Sa che con quel tiro si sta forse giocando l’ultimo scatto per i fotografi. Allora si rifugia nel gesto suo, il tiro secco e basso che stavolta neppure lo spirito di Yashin gli avrebbe mai parato. Ecco. Smettere pare meno amaro. Non è più un obbligo triste, ma una scelta, un vero addio. Dopo questi due gol colti in un attimo lunghissimo, può diventare un desiderio. Di questo si nutre il suo rapporto con Roma. Di desiderio. Direbbe Paoli: su nell’immensità del ciel. E noi lasciamoglielo dire.

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LUCIO CARACCIOLO, LA REPUBBLICA 24/2 -
I grandi si svelano nelle crisi estreme. Francesco Totti non ha mai sofferto tanto come in questi mesi, quando si è sentito svilito e abbandonato dalla società alla quale ha regalato tutta la carriera, anche a costo di rinunciare a impreziosirla con le coppe che avrebbe vinto a man salva se avesse accettato di spendere il suo talento nel Real Madrid. Poi quei due gol nei tre minuti magici, forse i più importanti della sua vita di calciatore. Non una coppa né uno scudetto, qualcosa di molto più personale: la consacrazione della sua unicità.
In quegli attimi si è squadernata davanti agli occhi di tutti, fans deliranti in lacrime e suoi inconcussi detrattori, la “differenza di Totti”, giusto il titolo dell’illuminante saggio che Mario Sconcerti volle dedicargli dodici anni fa. Differenza che non è fatta solo da una classe immensa, ma dal fisico che la sostiene. Perché di norma i magnifici numeri dieci del calcio moderno – da Rivera a Platini, lasciamo stare Pelé e Maradona, due casi a parte – non disponevano di speciali doti atletiche, anzi. Avevano chi correva per loro, da Lodetti a Bonini. Totti ha classe e fisico. E anche adesso, che non è più esplosivo come pochi anni fa, questo singolare innesto di qualità e quantità può fare, se ben centellinato, la differenza.
Dopo 303 gol e quasi un quarto di secolo di ininterrotta frequentazione del campo di gioco, scopriamo che ci sono stati diversi Totti. Il ragazzino talmente dotato da annoiarsi con i suoi coetanei e al quale, nei primi anni di serie A, campioni già affermati passavano volentieri la palla, a riconoscerne la superiore qualità. Ma che incrocia prestissimo sulla sua strada un tecnico, Carlos Bianchi, che lo battezza “discreto”, neanche fosse una delle mille promesse inespresse di un calcio che brucia rapidamente i suoi figli. E lo spedirebbe volentieri alla Sampdoria.
Il vero Totti è figlio di Zdenek Zeman, che ne plasma fisico e carattere, esaltandone le peculiari doti atletiche. Ancora oggi, richiesto di chi siano i tre migliori giocatori italiani, il boemo snocciola: “Totti, Totti, Totti”.
Sarà però Fabio Capello, un tecnico che non lo amava – ricambiato – a consegnargli le chiavi della squadra che vincerà il terzo scudetto della storia romanista, nel 2001. Uno dei molti che avrebbe potuto vincere, se solo la latitudine di Roma fosse di qualche grado più a Nord.
Oggi lo scontro è con un allenatore di notevole valore – Totti glielo ha riconosciuto pubblicamente – che per qualche tratto di carattere somiglia a Capello: Luciano Spalletti. Più che con lui, con una società che ha pensato di scaricarlo, neanche fosse per dirla con un altro Francesco, attualmente vescovo di Roma – uno scarto. Una scartina. Poi, in tre minuti, la storia cambia. Forse non per chi, a Trigoria o a Boston, coltiva tuttora l’idea di pensionarlo. Sicuramente per il resto del mondo, non solo romano, che mercoledì sera, nell’Olimpico desolatamente deserto, ha visto compiersi un miracolo. La differenza del Capitano. Accada quel che deve accadere, Totti ha vinto.

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MAURIZIO CROSETTI, LA REPUBBLICA 21/4 –
Il paroliere di Francesco Totti torna ad essere Omero, due gol in meno di tre minuti e stavolta sarà un po’ difficile dire che la Roma non l’ha salvata lui. Dopo il rigore (che non c’era) del 3-2, zoomata sul viso di Spalletti che comunque non esulta mai, però nell’occasione un sorrisetto ci poteva pure stare, invece di quel muso da martire trafitto. Poi la telecamera si sposta su un tifoso giallorosso che scatta foto e piange, la tempesta emotiva è completa, una tempesta perfetta. Ondate che si abbattono sulla Roma risorta, sulla classifica galvanizzata (il terzo posto pare fuori discussione, l’Inter incompiuta cade a Marassi che tanto diede a Mancini) e sul futuro di un campione ormai salito agli onori dell’altare. Gloria a Totti, ma questi spaventosi e scintillanti sussulti di vita renderanno ancora più complicato il nodo da sciogliere, la gestione dei quarant’anni a settembre, la dialettica del Tempo sovrano (non a Roma, non adesso). Dirlo ora può sembrare blasfemo, ma questi sono gol che complicheranno le ultime righe del romanzo, tutte da scrivere. Una bellissima, ingannevole immortalità che vale per una sera o per qualche giorno, ma che allontana le esigenze della realtà, quelle che reclamano sempre il conto. Che si eviti almeno la commedia e si rispetti la storia.
Invece per lo scudetto prossimo venturo, molto prossimo, venticinque aprile o primo maggio: il giorno sarà speciale anche nel calendario, e segnerà una festa comandata come si conviene al quinto titolo consecutivo. Juve e Napoli hanno segnato 9 gol in due, nel campionato feriale non hanno ceduto neppure di un millimetro e il finale della storia è in arrivo, siamo alle ultime sillabe, l’assassino è noto da tempo: ai bianconeri basterà un punto in più, cioè vincere a Firenze se il Napoli poi pareggia a Roma, oppure pareggiare se il Napoli all’Olimpico dovesse cadere (e con quel Totti, chissà). Ormai ci siamo: nessuno poteva togliere lo scudetto a chi si è preso 70 punti su 72 nelle ultime 24 partite, una mostruosità.
Il feroce appetito juventino ha sminuzzato la Lazio, prima i dentoni di Mandzukic, poi i canini di Dybala, due volte. L’argentino è l’uomo dello scudetto insieme a Buffon e Allegri (e al Pogba degli ultimi quaranta giorni). Ha tutto per diventare uno dei più grandi bianconeri della storia, l’età e il genio sono per lui ma anche la capacità di crescere e imparare ancora. A un certo punto ha recuperato un pallone in area di rincorsa, come un mediano guastatore, segno che la testa è quella del giocatore totale, mentre piedi e istinto hanno purezza da fuoriclasse. Nessuno, un anno fa, poteva pensare che il sostituto di Tevez sarebbe stato migliore di Tevez. Anche in questa scelta, oltre che in altre mosse sul mercato (Khedira specialmente) è il segno di una superiorità assoluta. Del club, non solo della squadra.

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GIGI GARANZINI, LA STAMPA 22/4 –
A 40 anni 6 mesi e 9 giorni Silvio Piola, proprio lui, l’unico a star davanti a Totti nella classifica cannonieri di tutti i tempi del nostro calcio, segnò il suo ultimo gol in serie A. Con la maglia del Novara, contro il Milan, in rovesciata, che era la più spettacolare delle specialità della casa. Con due soli mesi in meno sulla carta d’identità, ma a sua volta ben oltre la soglia dei 40, Dino Zoff inchiodò sulla linea bianca del Sarrià di Barcellona quel colpo di testa di Oscar al 90’ che avrebbe reso vani i tre gol di Paolorossi al Brasile. Poi, certo, arrivano gli statistici a ricordare che Costacurta segnò su rigore all’Udinese all’età di 41 anni e 25 giorni. Ma sarà proprio il vecchio Billy (dopodomani ne fa 50, auguri) il primo a riconoscere la differenza tra cronaca e storia.
Nella leggenda
Con quel gol sul primo pallone toccato, doppiato subito dopo dal rigore, Totti che già i confini della leggenda li bazzicava stavolta c’è entrato del tutto. E non solo all’interno del raccordo anulare. Sicché diventa quasi un obbligo mettere alla frusta la memoria, quel po’ che ne rimane, in cerca di precedenti, di paralleli, di suggestioni. La volata di Bartali alla Milano-Sanremo del ’50, lui che velocista non era e si concesse il lusso a 36 anni di bruciare allo sprint uno specialista come Van Steenbergen. Quel fenomeno assoluto di longevità che fu Archie Moore, campione mondiale dei mediomassimi alla bellezza di 46 anni: così sicuro della propria immortalità sportiva da permettersi di salire un’altra volta di categoria e di sfidare, a 47, per il mondiale dei massimi un certo Cassius Clay, poi Mohammed Alì. Una pazzia durata non più di quattro riprese, ma rimasta negli annali. Anche se il fenomeno di tutti i tempi rimane, e rimarrà, sir Stanley Matthews. Il quale Matthews, avendo perso gli anni della guerra come accadde a quelli della sua generazione, decise di recuperarli a fine carriera. Esagerando un po’. Perché vinse il primo Pallone d’oro della storia nel ’56, all’età di 41 anni: ma il premio, anziché appagarlo, lo spinse oltre. Molto oltre se è vero che riconsegnò le scarpe al magazziniere dello Stoke City soltanto a cinquant’anni suonati.

Modello Altafini 2.0
Da qui la domanda. Che traguardo si sarà posto Totti? Quello di Piola o quello di Matthews? Un’altra stagione? Due? O a oltranza? Ferenc Puskas, fuoriclasse assoluto, tra i primi dieci di tutti i tempi, smise alla sua età attuale, 39 anni. Si ritirò da un altro calcio, più lento, più statico, in cui la sua classe e l’intatta potenza del sinistro compensavano la ridotta mobilità e una pinguedine incipiente: fatto sta che in quella sua ultima stagione al Real Madrid, giusto mezzo secolo fa, segnò ancora quattro gol in Liga proprio come Totti (al momento) e ne aggiunse cinque in coppa Campioni pur non disputando la finale, vittoriosa. Ma allora i cambi non c’erano. Sette anni più tardi il buon Cesto Vycpalek, o chi per lui alla Juventus, inventò per Altafini un meccanismo a tempo, da tredicesimo, che consentì al brasiliano il tramonto da campione che meritava. Sono passati più di quarant’anni, e il Totti di oggi è meno giovane dell’Altafini di allora. Ma se c’è un giocatore in grado di ripeterne le prodezze a orologeria quello è Totti, e non si capisce cos’altro dovrebbe fare per dimostrarlo. Se poi pretende una maglia fissa da titolare – detto che ogni tanto non guasterebbe – è fuori strada. Ma se chi lo gestisce non gli concede che scampoli, e s’incavola pure quando perde tempo a festeggiare i gol che salvano la Roma, fuori strada è l’altro. Fuori dal mondo, giallorosso e non.

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CRISTIANO GATTI, CORRIERE DELLA SERA 18/4 –
Se non altro, il litigone frantumerà il muro dell’ipocrisia. La lunga lite finirà con un vero vincitore. È necessario. Totti risulta uno di quei fastidiosi grattacapi che si possono buttare fuori dalla porta — magari una domenica mattina, a Trigoria — ma che puntualmente rientrano dalla finestra. È bastato rimetterlo in campo un paio di volte, formula Altafini, e tutti quanti si sono convinti che non è esattamente un rottame. Roma e l’Italia intera sono così chiamate al nuovo referendum: offrire o non offrire un anno di contratto al divino Pupone? Se qualcuno pensava che il rinnovo fosse solo un doveroso gesto di gratitudine, dopo le prove del campo il discorso cambia. Totti resta decisivo. È un campione vivente. Il referendum si trasforma in realtà nella scelta tra due nomi: tenere Spalletti, che dimostra di cassare il 10 non perché obsoleto, ma perché ingombrante, o tenere Totti, sfruttandone gli ultimi colpi sublimi? Dall’aria che tira, la decisione sembra già presa. Il presidente Jesse James Pallotta ha sparato sul pianista. Finirà che Totti andrà a dispensare i suoi tocchi d’autore in un altro calcio, in un altro continente. Portandosi però dietro una domanda doverosa: se questo Totti deve smettere a 39 anni, quanti giocatori devono smettere a 20?

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LUCA VALDISERRI, CORRIERE DELLA SERA 19/4 –
Nel primo incontro con Walter Sabatini, che era alla ricerca di un allenatore per ricostruire la Roma dalle macerie della finale di Coppa Italia perduta contro la Lazio, Rudi Garcia usò questa frase: «Io amo i miei giocatori». Sabato pomeriggio, nella conferenza stampa prima di Atalanta-Roma, Luciano Spalletti ha detto di essere «un allenatore senza sentimenti, che pensa solo ai risultati della Roma».
Stiamo parlando di calcio, ma il discorso può valere per l’educazione da dare ai figli, per le regole necessarie per entrare a far parte di un club, per i rapporti sul posto di lavoro. Il discorso tra amore e ragione influenza gran parte delle nostre passioni. E il calcio, per molti, è la passione numero uno.
La divisione tra «tottiani» e «spallettiani» è così netta proprio per questo. Non stiamo parlando di un giocatore o di un allenatore, ma, in fondo, di noi stessi e di come vediamo la vita.
C’è poi il discorso dei «privilegi», che ricorre spesso soprattutto nei social media e che è diventato un ritornello molto usato contro alcune categorie: politici e calciatori sono ai primi posti della lista, con i giornalisti ben piazzati. La richiesta che molti tifosi fanno agli allenatori non è far giocare bene la squadra ma, soprattutto, «farla sudare». A Roma, anziché vedere il lato tattico di Spalletti e la sua capacità di produrre un gioco armonioso, è stata esaltata la sua personalità capace di «attaccare i giocatori al muro». Tanto che lo stesso allenatore, quando era uscita l’indiscrezione che ci fosse stato con Totti anche uno scontro fisico, si è sentito in dovere di mettere queste parole nel comunicato stampa pubblicato sul sito ufficiale della As Roma: «Io non metto le mani addosso ai miei giocatori».
Il «caso Totti» è qualcosa di più del tramonto di un campione o del rapporto professionale che lega allenatori e calciatori. È il concentrato di una parola d’ordine che è passata nella nostra vita quotidiana, sospinta dalla politica: rottamazione. Totti, a quasi 40 anni, non può più correre come prima e ci sono molte forze fresche che possono farlo più di lui. Ha guadagnato tanto, per cui deve farsi da parte. Pretende di avere dei privilegi legati alla sua storia e a quello che ha dato in passato.
Fino a poco tempo fa un discorso simile sarebbe stato affrontato con altri toni, adesso è stato imbarbarito dalla velocità e dall’anonimato della comunicazione. Si può essere solo «pro» o «contro», in un sondaggio senza fine e senza analisi.

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ALESSANDRO ANGELONI, IL MESSAGGERO 22/4 -
Una città, come minimo la sua parte giallorossa, si chiede: e adesso? Adesso siamo nelle mani di Jim Pallotta, presidente della Roma. Lui, da Boston, stavolta non si sbilancia più di tanto. «Orgoglioso di Francesco», aveva detto dopo la doppietta al Toro. Sì va bene, e quindi? Questo contratto glielo fa o no? Jim non dice: né sì né no. Ribadisce che sono cose tra loro, tra lui e il capitano. Mettiamola così: il presidente ha deciso e trasmesso a Francesco i suoi intendimenti; così come il numero 10 giallorosso gli ha indicato i suoi. Siamo come prima, quella favola scritta l’altra sera farà parte della storia passata, ma non contribuirà a scrivere il futuro. Mettiamola anche così: dopo tutto ciò che è stato detto e taciuto, nessuno a Trigoria vuole sbilanciarsi, specie in questo momento (l’ennesimo) di gloria per Francesco. Sarebbe impopolare. Nessuno, tantomeno Pallotta, chiamato a decidere in prima persona dopo aver dichiarato pubblicamente che sarà lui, cioè Totti, a stabilire il suo futuro.
SEGNALI DI FUMO
Pallotta si è complimentato e non poteva fare altrimenti. Perché la Roma ha vinto grazie (anche e soprattutto) a Totti e ora almeno il terzo posto appare traguardo scontato. Totti non ha ricevuto segnali, siamo fermi alla settimana scorsa quando, durante un incontro con il dg Mauro Baldissoni, si è sentito ribadire che sarebbe meglio lasciare e meditare su un ruolo da dirigente. A) Totti non ha alcuna intenzione di smettere, si sente ancora calciatore e vorrebbe continuare con la maglia di sempre. B) Non ha ancora chiaro in testa ciò che potrà/potrebbe fare come dirigente. Totti si sente ormai accerchiato, (quasi) tutti gli chiedono di abbandonare e soprattutto che sia lui ad annunciarlo, sarebbe meglio per tutti. Perché la società la decisione l’ha presa, ma non la vuole comunicare pubblicamente. Sarà costretta, se non ci ripenserà, a farlo a fine stagione. Spiegando. Intanto si va avanti col solito refrain: Totti non ce la fa, i risultati dei test sono impietosi, è un ex giocatore da un anno etc etc. Totti sta in silenzio, gioca quando gli viene chiesto e dimostra di poter fare ancora la sua parte. «Più di così non posso», confida il capitano alle sue persone.
MALEDETTO TOTTISMO
A Trigoria c’è qualche seme del male individuato da cinque anni a questa parte: il romanismo, il passatismo, le combriccole, le vecchie abitudini. Totti trascina/trascinerebbe molti suoi compagni in comportamenti sbagliati, vedi Bergamo, le stanze occupate in piena notte, la sala tv (mentre si trasmetteva Inter-Napoli) piena solo di poche anime tra i calciatori. Il fare un po’ come ci pare, non va più bene e questo Spalletti lo ha fatto capire. Mettiamoci pure che Totti a settembre compirà quaranta anni e il gioco è fatto: contratto zero. Chi può salvare Francesco? Il primo in assoluto, ovviamente, Pallotta, che sta sicuramente meditando su ciò che è accaduto a Roma-Torino. Il presidente, raccontano, è imprevedibile e non è escludo che ci ripensi. E’ difficile ma non è escluso. E Spalletti? C’è finito dentro e non voleva. Ma dopo Roma-Torino qualcosa è diverso. C’è lo spettacolo oltre i regolamenti. C’è un uomo che rischia di abbattersi. Le leggende non si scaricano. Le favole spesso sanno commuovere anche i più burberi. E anche Totti, se gli capiterà di restare aggrappato al suo posto, dovrà calarsi in un nuovo, eventuale, ruolo. Giocatore-punto di riferimento per tutti i compagni.
DOPPIO TAPIRO
Valerio Staffelli di Striscia ha consegnato un altro Tapiro a Totti, perché quel premio ha portato fortuna. Stavolta, in compagnia del capitano («Non ho cenato con Spalletti, non ci siamo incontrati...», c’era la moglie Ilary Blasi. «Guardavo Roma-Torino ma poi mi sono addormentata. Quando ha segnato Francesco mi ha svegliata mio figlio. Come lo tengo in forma? Gli faccio fare stretching, il gol è merito mio. Comunque, sono più emozionata per il Tapiro che per il “ti amo” dopo la sua rete. Se Francesco smette? Gli ho detto di andare in ritiro, in casa è tremendo...».
Alessandro Angeloni

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MIMMO FERRETTI, IL MESSAGGERO 22/4 –
Tre gol rosa per Isabel. Cristian e Chanel, state tranquilli, non se ne avranno a male. Ma da quando in casa Totti è piombata la principessina, lo scorso 10 marzo, il capitano della Roma sembra un altro. E non soltanto perché da qualche giorno sul braccio destro si è fatto tatuare un disegno dedicato proprio all’ultima arrivata. Da quando mamma Ilary ha messo al mondo Isabel, Francesco alla soglia dei 40 anni sembra ringiovanito, e le tre reti realizzate nelle ultime due partite (scampoli di partite...), con la strepitosa (irripetibile?) impresa dell’altra sera contro il Torino, lo stanno a testimoniare. E, chissà, forse proprio pensando alla sua famiglia mercoledì, dopo aver segnato il calcio di rigore da tre punti e da Champions, ha puntato dritto una telecamera e ha spedito un bacio alla sua donna, bloccata a casa con gli eredi, accompagnando il gesto con un eloquente “Ilary ti amo” che non ha bisogno di alcun commento. Chi si aspettava che la questione contratto lo sfinisse, ha preso un palo in faccia.
FATTI, NON PAROLE
C’era una volta “Totti logora chi non ce l’ha” ora c’é “Totti logora chi non lo vuole più”. Per settimane, per mesi Francesco ha urlato al mondo di sentirsi ancora un calciatore al cento per cento, ma nessuno gli ha creduto. E così si è dovuto accontentare di una manciata di minuti, 16 nelle ultime due partite, per dimostrare che non diceva bugie. Che può ancora fare/essere un calciatore. Non è sicuro (non lo è affatto...) che la sua tripletta per Isabel faccia cambiare idea a chi l’ha bollato, da una vita, come inutile; il rinnovo del suo contratto è lontano, forse irraggiungibile anche dopo le lacrime dell’Olimpico (ieri Checco a Trigoria ha abbracciato il tifoso Alessio, inquadrato dalle telecamere mentre piangeva dopo il rigore). Come se, a conti fatti, quei tre gol non contassero nulla. Segnarli o non segnarli sarebbe stata la stessa cosa. Possibile? Ce lo dirà il tempo, come sempre. Anticipare verdetti non ha senso, visto che alla fine del campionato mancano ormai solo poche partite. Di certo, papà Francesco non ha alcuna intenzione di mettersi in pensione o di indossare i panni del dirigente: se non potrà più giocare a pallone con la Roma, lo farà da un’altra parte. Ilary, raccontano, è già pronta a preparare i bagagli, a caricarsi i tre figli sulle spalle e a seguire il suo uomo. In ogni angolo del mondo. Ora è così, ma nessuno se la sente di escludere novità. Chissà. Qualche giorno fa, Francesco ha incontrato il dg Mauro Baldissoni che gli ha ribadito la disponibilità della Roma ad accontentarlo in tutti i modi. Da dirigente, però. Il gol di Bergamo e la doppietta al Torino erano ancora in cantiere ma, come detto, la Roma appare irremovibile anche di fronte alla prova provata che Totti è ancora un calciatore. Il quale, vale la pena ricordarlo, non ha mai rivendicato un posto in squadra ma soltanto la possibilità di fare ancora il suo mestiere. E, a questo punto, l’interrogativo scatta automatico: la Roma non intende rinnovargli il contratto perché davvero non lo considera più un calciatore? Fosse vero questo, tutto sarebbe stato inutile, tre gol in due partite in primis. Ma la Roma, è ovvio, può decidere ciò che vuole, tranne negare la realtà. Il presidente Pallotta non ha mai perso occasione per garantirgli “Francesco, smetti quando vuoi tu” e, per questo, sarebbe poco carino se il capitano non potesse più decidere per conto proprio. Lui si appella proprio alla promessa di Mister Jim e di questo parla con il fratello Riccardo o con il cugino Angelo che, fedelissimi e affettuosi, non lo mollano mai. Trigoria, casa, gli amici più stretti: ecco il mondo di Totti a meno di due mesi dalla fine della sua storia con la Roma. Già, la fine della storia. Ma davvero può, deve finire così?
Mimmo Ferretti

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STEFANO CARINA, IL MESSAGGERO 19/4 –
Chissà se ripensandoci in queste ore, si starà rendendo conto che a volte ha esagerato. Perché se Spalletti, come aveva fatto inizialmente, si fosse limitato a motivare tecnicamente le esclusioni di Totti, la vicenda – seppur mal digerita dal calciatore – sarebbe finita lì. O avrebbe avuto perlomeno minor enfasi. E invece c’è stata sempre la frase in più, la battuta mal riuscita che ha trasformato una decisione (lecita) di un allenatore in uno stillicidio continuo. Il primo affondo arriva alla vigilia della gara col Frosinone, legato ad una risposta a Zeman sull’impiego di Totti: «Io gestisco la Roma e devo stare attento ai risultati della squadra». Francesco gioca, regala l’assist del 3-1 a Pjanic e a fine gara riceve i complimenti del tecnico: «Veniva da un lungo infortunio, bisogna considerare vari fattori ma è andato bene». A tal punto che sparisce di nuovo. Panchina con Sassuolo e Sampdoria, poi nuovo stop per un problema al gluteo, prima di riaffacciarsi in Champions col Real. Alla vigilia, alla domanda sul possibile impiego del capitano, la risposta è secca: «Dipenderà dalla partita. Qui bisogna vincere, serve corsa, sacrificio verso il compagno». Totti racimola 3 minuti sullo 0-2 e uscendo dallo stadio, liquida un cronista spagnolo così: «Vuoi parlare con me? E che ci fai?». Quando gli viene riferita la scena, Lucio replica: «Io devo allenare la squadra, non i singoli, bisogna vincere le partite e ci vuole forza, corsa, disponibilità a sacrificarsi. L’esperienza non basta».
IL FATAL PALERMO
Si arriva alla vigilia del match col Palermo. Mentre Spalletti annuncia l’impiego del capitano (pur sottolineando che «la sua qualità va messa a disposizione del gruppo, perché lui ha bisogno del gruppo, non deve isolarsi»), Totti rilascia l’intervista al Tg1 che gli varrà prima l’esclusione dalla lista dei convocati e poi il ritorno a casa. Nel post-gara, l’allenatore torna sulla questione: «Io valuto l’evidenza dei fatti. A me dispiace, non voglio litigare con nessuno. Vuole fare il Giggs? Allora si mette vicino a me. Vuole fare Nedved? Fa Nedved. Vuole fare il calciatore? Fa il calciatore ma io non regalo niente a nessuno». Il sabato seguente, decide di mostrare un video di Salah dove l’egiziano compie un ripiegamento difensivo di 60 metri. L’allusione appare chiara ma viene rimandata al mittente. Nuova panchina a Empoli, poi 14 minuti con la Fiorentina. L’ovazione ricevuta a Madrid, regala una tregua che termina alla vigilia del derby dove per replicare ad un sondaggio di Sky, scivola ancora: «Anch’io voterei per Francesco in campo ma si potrebbe proporre anche un sondaggio diverso, fare commentare l’Europeo a Pizzul o Caressa?». Tradotto: Totti come un telecronista pensionato, metafora chiarissima. E ancora: «Nella passata stagione ha fatto una doppietta? E chi ci dice che nel primo tempo la Roma non andò sotto di due gol perché non aveva l’apporto di un calciatore nel coprire gli spazi»? Il resto è storia (triste) delle ultime ore.
Stefano Carina

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DANIELA RANIERI, IL FATTO QUOTIDIANO 22/4 –
Francesco Totti che a un Maurizio Costanzo Show di tanti anni fa, sfrontato come sono i timidi, riferisce la frase che suo padre gli dice più spesso: “Quanto era più bravo tu’ fratello”. Sottinteso: di te. Di Totti. Nel paradosso ironico, Totti disegnava insieme una impossibilità reale (che ci fosse qualcuno più bravo di lui, non si sa nemmeno di quanto) e una possibilità logica, o almeno storica.
Oggi davvero lui, che nelle dinamiche di potere tra panchina, campo e spogliatoio è sempre stato figlio, pure nel gesto di succhiarsi il pollice per onorare la nascita e i compleanni dei figli suoi, deve far posto a fratelli più piccoli anche di vent’anni, portatori dell’unica qualità calcistica che lui non possiede: la gioventù del corpo.
E allora nell’avverarsi dei destini, nell’addensarsi o nello sciogliersi delle profezie, si ripensa a quel fratello più bravo come a una realtà parallela, se non si possa per caso buttarlo in campo come soluzione genetica, onorevole e indolore alla cavalleria rusticana di questi giorni.
Siccome a Roma si pensa per figure (nei cataloghi dei tatuatori Totti è da vent’anni insieme a Che Guevara, Giulio Cesare, il Duce e Giovanni XXIII, con la sotto-specialità, volendo, dei tatuaggi suoi), in luogo della malinconica recita degli addii Totti prende e rovescia tutto: il suo ruolo di campione in declino, il campo, il risultato delle partite, e offre ai tifosi un dilemma morale.
Il rompicapo è irrisolvibile e solo i laici possono schierarsi con Spalletti o con Totti, con l’andarsene o col restare, col cacciare o col sopportare, non cogliendo il senso intimo della vicenda che è invece epico, popolare, sentimentale. Totti è a 40 anni diventato il suo paradosso, continuando a recitare una parte che può essere solo sua ma che non è più in copione, su una scena che non lo prevede e però si illumina solo quando entra lui.
Totti non è il Calvero di Chaplin, il clown attempato di Luci della ribalta che non riesce più a far sganasciare le folle perché il tempo è passato intorno ma non dentro di lui, e il numero delle pulci non diverte più. In Totti si concentra un fenomeno che appare solo poche volte nella storia, con ricorsività lenta e modalità stuporose, come le comete: il prodigio di un fatto che contraddice la realtà.
Il principio di realtà vuole che Totti smetta di giocare e esca di scena tra gli applausi commossi; che si rassegni al passare del tempo, all’obsolescenza del corpo, del menisco riparato, del perone fracassato e del fiato più corto. Che si separi dalla sua immagine offrendo la sua statua per le celebrazioni. È questo che la presidenza della Roma ha capito quando a dicembre ha visualizzato tutto questo affare di fisiologia e epopea in forma di cifre su un contratto.
Il non-rinnovo della firma è la proiezione burocratica dell’incapacità del corpo di rigenerarsi, del tempo di essere riavvolto, dell’infranto di essere riattaccato. Ma a sgretolarne l’autorità, a rendere assurda la pretesa di verità dell’interdizione, è proprio la realtà. Totti che in 3 minuti dei 5 concessigli dal mister fa 2 gol, rendendo vittoria una sconfitta certa, è una forza che si oppone all’ordine.
La lotta non è tra Totti e Spalletti (potrebbe altrimenti far piangere migliaia di tifosi? Magnetizzare tanto affetto, riscatto, speranze?), ma tra forza della ragione e forza del gioco, tra violenza del tempo e ebbrezza, tra utilità e desiderio di vita. La separazione di Totti dalla Roma è tragica perché è una separazione da se stesso.
E tutto, compresa la realtà, si oppone al suo avverarsi. Non si tratta di rassegnarsi al buonsenso, di credere all’assunto, ripetuto da Spalletti troppe volte per essere neutro, “Totti non è la Roma”; ma di capire che Totti non può non essere Totti, che questo è ancora falso oltre che impossibile. È questo il prodigio di Totti, che è una cometa che dura.

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ROBERTO BECCANTINI, IL FATTO QUOTIDIANO 5/4 –
L’insostenibile leggerezza dell’essere (una bandiera). Quando Alessandro Del Piero comunicò che, con la Juventus e per la Juventus, avrebbe giocato anche gratis, Andrea Agnelli gli rispose dall’assemblea degli azionisti: “Invito tutti i presenti a tributare un caloroso applauso al nostro capitano che a fine stagione ci lascerà”. Era l’ottobre del 2011 e la Juventus veniva da due settimi posti. Agnelli l’aveva appena consegnata al martello di Antonio Conte. In rapida sequenza, arrivarono quattro scudetti: e solo il primo con gli spiccioli di Del Piero.
Anche Francesco Totti, sotto contratto fino al 30 giugno, ha buttato lì che, per la Roma, giocherebbe gratis. James Pallotta, da Boston, gli ha fatto capire che, insomma, lo preferirebbe dirigente. Il 27 settembre, tra parentesi, ne compie quaranta.
Qual è il problema? Senza Totti, la Roma vola. La Roma di Luciano Spalletti, la squadra che, anarchica e bollita, l’allenatore toscano aveva ereditato da un Rudi Garcia in disarmo e, con calma, ha ricostruito. Un punto in due partite, e poi il filotto di nove vittorie e un pareggio. Ultimo scalpo, la Lazio. Il 4-1 del derby è costato la panchina a Stefano Pioli. Tocca a Simone Inzaghi, fratello di quel Pippo che Silvio Berlusconi aveva voluto al Milan per poi sostituirlo con Sinisa Mihajlovic. Un classico. Gli allenatori sono pagati per pagare. Claudio Lotito frigge: dopo Carpi e Frosinone, “rischia” di salire in A il Crotone. Il destino si sta leccando i baffi.
Senza Totti. E senza Daniele De Rossi, il capitan Futuro, 33 anni a luglio, il più pagato di tutta la Serie A (6,5 milioni netti a stagione). Non gioca titolare, De Rossi, dalla trasferta di Reggio Emilia con il Sassuolo. Vaghi scampoli e stop. Nel caso di Totti, la scelta è stata esclusivamente tecnica. La domenica di Roma-Palermo, Spalletti lo mise addirittura fuori rosa. Motivo scatenante, un’intervista non gradita. Avrebbe dovuto giocare dall’inizio, Francesco. Saltò tutto per aria.
Nel caso di De Rossi, viceversa, è stato un infortunio a orientare le nuove gerarchie. E così, tagli netti. Impopolari, spericolati ma netti. E, dettaglio non trascurabile, confortati dai risultati. Se Del Piero poteva contare su una folla di devoti, Totti ha sempre avuto, dalla sua, un esercito di genitori. Una bella differenza. Titillato dai tesori del mercato invernale – Stephan El Shaarawy, Diego Perotti, Ervin Zukanovic – e coperto dalla società, Spalletti si è dedicato a riportare quell’ordine che il sergente francese non aveva più saputo imporre.
Il popolo romanista ha atteso, perplesso. È successo che con Perotti alla Totti la Roma ha cambiato marcia, e con Keita alla De Rossi ha continuato a vincere. È successo che la Roma si è messa a giocare un signor calcio, tanto da insidiare la piazza d’onore del Napoli: meno quattro, e il confronto diretto all’Olimpico (lunedì 25 aprile). E occhio alle scosse tattiche del mister: Radja Nainggolan liberato dalla selva del centrocampo; Miralem Pjanic più dentro al gioco; falso nueve o vero nove a seconda delle esigenze; le lune di Edin Dzeko e Mohamed Salah sotto controllo. E zero alibi. La guerra che Spalletti ha dichiarato a tutte le armi di distrazione di massa che, per decenni, i bar sport si passavano di complotto in complotto, ecco, questa guerra rappresenta la svolta più straordinaria, l’atto più educativo.
Nella mia griglia estiva la Roma (di Garcia, allora) figurava subito dietro la Juventus. E il 28 ottobre era prima. Per carità, Totti è Totti, così come Del Piero era Del Piero fino a quando non decise di fare il Buffalo Bill in Australia e India. Il ritiro costituisce sempre un confine delicato, complicato. Più hai dato, più ritieni di dover ricevere. E così persino una chiarezza chirurgica come quella di Spalletti può sembrare mancanza di rispetto, di gratitudine. Invece no. Si chiama legge del tempo. È cominciata, ufficialmente, la Roma del dopo Totti. Piano con i voli pindarici: di sicuro, è una notizia. Come è notizia di ieri la firma di Conte al Chelsea: 20 milioni fino al 2019. Arrosto di Londra, altro che fumo. Gli Europei con la Nazionale e poi la Premier. Nel blu dipinto di blu. Felice di stare lassù.

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IL GIORNALE 19/4 –
Frasario tra Spalletti e Totti dal 2009
L’esonero di Spalletti. Totti: «Mi spiace, avrei voluto chiudere con lui la mia carriera». (1-9- 2009).
Non gestisco Totti. Spalletti: «Non gestisco Totti, gestisco la Roma, gioca chi è pronto e mi dà più garanzie» (29-1-2016).
Non me lo posso permettere. Spalletti: «Rispetto Totti ma la squadra ora non può permetterselo. Spero lo abbia capito» (16-2-2016).
Non alleno la storia. Spalletti: «Non alleno in funzione della storia» (16-2-2016).
Ci tengo. Spalletti: «Tengo più io a Totti che voi» (21-2-2016).
Saluti.Totti: «Lo stimo, ma con lui è buongiorno, buonasera. Certe cose avrei preferito che me le dicesse in faccia» (21-2-2016).
Merito rispetto.Totti: «Per quello che ho fatto merito rispetto» (21-2-2016).
Il presidente. James Pallotta: Appoggio Spalletti ma capisco Totti» (23-2-2016).
Prima la squadra. Spalletti: «Non accetto che vengano anteposti i propri interessi a quelli della squadra» (26-2-2016).
Non è una riserva. Spalletti: «Totti con il Real volevo metterlo ma la squadra stava faticando» (27-2-2016).
Preoccupata. Rosella Sensi: «Sono preoccupata dalla gestione del caso Totti. Non è solo il capitano, è un simbolo» (21-3-2016).
Il ristorante. Spalletti: «Ho aperto un ristorante e prima o poi inviterò anche Totti» (31-3-2016).
Il piede è ok. Spalletti: «Totti le giocate le farà sempre, se fosse solo per quello gli possiamo fare il contratto per i prossimi sei anni. Ma i problemi sono altri» (2-4-2016).
Il sondaggio. Spalletti: «Se fate un sondaggio su Totti allora facciamolo anche per chi commenta la nazionale in tv fra Pizzul e Caressa». (2-4-2016).
Il giorno del derby. Spalletti: «Mi spiace per Totti. Volevo farlo giocare» (3-4-2016).
Non difende. Spalletti: «Totti? Quando ha la palla la mette dove vuole. Quando ce l’hanno gli altri giochiamo in dieci» (3-4-2016).
Quasi come Totti. Spalletti: «Ho giocatori quasi come Totti che devono essere presi in considerazione quanto lui» (3-4-2016).
Non corre. «Totti ha fatto una doppietta nell’ultimo derby? Magari la Roma era in svantaggio perché lui non correva». (3-4-2016).
Come un calciatore. «Sono fra i pochi a trattarlo come un calciatore» (10-4-2016).
L’urlo. Totti: «Bello l’urlo dell’Olimpico» (11-4-2016).
Il giocatore. Spalletti a Totti: «Giochi a carte fino alle due di notte. Per questo a Roma non vincete mai» (17-4-2016).

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TOTTI Francesco • Roma 27 settembre 1976. Calciatore. Alla Roma fin da quand’era bambino, ha vinto lo scudetto del 2001. Con la nazionale è stato nel 2006 campione del mondo, nel 2000 vicecampione d’Europa (in tutto 58 presenze e 9 gol). «Gioco nella Roma, so’ de Roma, che vojo de più».
• Vita Nacque cinque giorni dopo Ronaldo, due prima di Shevchenko (una delle settimane più produttive della storia del calcio): «Studiavo, poi sentivo gli amici e il rumore del pallone, così scendevo di corsa in cortile. A volte non mi facevano giocare e io risalivo in casa piangendo. E papà: “Ma che te piangi? Pensa a studia’, che è meglio. Mica vorrai fa’ er calciatore?”». Papà Enzo lavorava (da operaio) per una banca, mamma Fiorella ha sempre fatto la casalinga. Si conobbero sulla spiaggia di Fiumicino nell’estate 1961, diciassette anni lui, dodici lei.
• La prima squadra di Totti fu la Fortitudo. Aveva sette anni e giocava dove gli pareva. Alla Smit Trastevere cominciò a fare sul serio. Mimmo Ferretti: «Con il passaggio alla Lodigiani, all’età di dieci anni, diventa di fatto un centrocampista d’attacco ma i suoi allenatori, Mastropietro e Neroni, non gli fanno mai indossare la maglia numero 10, “per non farlo sentire più importante degli altri”».
• Dodicenne, Totti faceva già gola ai talent scout di tutt’Italia, tanto che un giorno dell’88 un emissario del Milan si presentò a casa sua con 150 milioni di lire in valigia per strapparlo alla Lodigiani. Mamma Fiorella prima rimase «di sasso», poi prese a chiedere a tutti, in lacrime, «che devo fare?», infine chiamò l’amico di famiglia Stefano Caira, dirigente in Federcalcio, che le disse: «Quelli che ti stanno offrendo sono spiccioli». Pochi mesi e Totti passò alla Roma.
• Esordì in serie A a sedici anni e mezzo, il 28 marzo 1993, sostituendo Ruggiero Rizzitelli all’87’ di un Brescia-Roma 0-2 (in panchina Vujadin Boskov). Il primo gol arrivò il 4 settembre 1994, all’Olimpico contro il Foggia. Mazzone lo schierò titolare e lui, al 30’, sbloccò il risultato: «Era la prima gara del torneo. Mio zio mi promise una mountain bike, la desideravo e forse l’avrei potuta comprare senza aspettare la rete. Ma ho rincorso quel gol pensando alla bicicletta».
• Paolo Franchi: «Una critica malevola speculava, all’epoca, su una sua certa qual tendenza all’ingrasso: ne nacque un soprannome assai sciocco, Il Pupone. Da siffatte e altre analoghe castronerie fu presumibilmente influenzato un ricciolone argentino, certo Carlos Bianchi, che un Sensi momentaneamente impazzito volle in panchina al posto del “Magara”. Il Bianchi, nel tentativo, fallito di un soffio, di portare la squadra in serie B, si adoperò perché venisse ceduto, e la Sampdoria, chiotta chiotta, si fece sotto. Gli dei, che pure avevano accecato Sensi, inorridirono, Bianchi venne licenziato, Totti rimase a Roma. Di questo ritorno di passione le persone dabbene rendono imperituro onore a Zdenek Zeman. Alla scuola del boemo il ragazzo prodigio, divenne, a tutti gli effetti, un campione. A Fabio Capello, così, venne consegnata una stella».
• Con Capello, Totti vinse il suo unico scudetto ma tra i due non fu mai amore, come emerso dopo la “fuga” del tecnico alla Juventus (estate 2004). In particolare, il capitano della Roma non gradiva che il tecnico gli preferisse come esempio per i giovani il brasiliano Emerson. La volta che gli chiesero chi avrebbe voluto in panchina dopo Capello, Totti rispose «un pelato», e le cose per la Roma andarono male (Prandelli, Völler, Del Neri, Bruno Conti) finché non l’accontentarono ingaggiando Luciano Spalletti (estate 2005). Nel 2006 arrivò al Mondiale poi vinto dagli azzurri in precarie condizioni di forma per un grave infortunio subito il 19 febbraio, frattura del perone sinistro e interessamento dei legamenti della caviglia causa un tackle da dietro dell’empolese Richard Vanigli. Contribuì comunque al successo trasformando tra l’altro il rigore che a tempo scaduto decise l’ottavo di finale contro l’Australia (1-0).
• Quinto nella classifica del Pallone d’oro 2001, 14° nel 2000, 18° nel 2003, nomination anche nel 2002 e 2004. Il suo colpo più famoso è il “cucchiaio”. Maurizio Crosetti: «Diverso dal pallonetto che s’alza, s’abbassa e stop, il cucchiaio (più un colpo da biliardo) fa ruotare la palla in senso inverso alla parabola, con effetto a rientrare che disorienta il portiere». Aldo Grasso: «Ciò che più conta è lo sberleffo, non all’avversario ma alla razionalità». Il primo cucchiaio lo fece in mondovisione, nel 2000. Aldo Cazzullo: «All’Europeo, semifinale con l’Olanda, al momento di tirare i rigori. “Mo’ je faccio er cucchiaio”, anticipò ai compagni. E quelli: ma va là! pensa a segnare! Fece il cucchiaio, fece anche vacillare Zoff poi finito da Berlusconi, ma segnò».
• Nel 2007 ha vinto Coppa Italia, classifica cannonieri e Scarpa d’oro, nel 2008 un’altra coppa Italia. È finito due volte al secondo posto in campionato dietro all’Inter (da lui accusato di aver ricevuto molti «aiutini» arbitrali). È diventato il recordman romanista di tutti i tempi per gol (il 16 gennaio 2008 ha superato quota 200) e presenze (primato strappato a Giacomo Losi l’11 febbraio 2007).
• Il 19 aprile 2008, all’Olimpico contro il Livorno, ha subito l’infortunio più grave della sua carriera: trauma distorsivo del ginocchio destro e lesione del legamento crociato anteriore.
• Il 30 settembre 2014, segnando la rete dell’1-1 a Manchester contro il City, Totti ha portato via a Ryan Giggs il record di giocatore più vecchio ad aver fatto gol in Champions League (38 anni e 3 giorni per il giallorosso). Il record assoluto appartiene a Ferenc Puskás che, in Coppa dei Campioni, fece centro contro il Feyenoord a 38 anni, 5 mesi e 20 giorni.
• L’11 gennaio 2015, dopo la rete del 2-2 alla Lazio (suo secondo gol di quel derby) ha esultato facendosi un selfie con un iPhone con la Curva Sud alle spalle. Giulia Zonca: «Avrebbe potuto chiedere la foto più spettacolare del gol, scegliere l’angolazione preferita, farci un poster, ma lui voleva una posa da cellulare: la sua facciona davanti al delirio in bassa definizione. Un momento straordinario legato a un gesto banale».
• Di fatto ha già un contratto da dirigente alla Roma per quando deciderà di smettere di giocare. Ha fatto però sapere che non esclude la carriera di allenatore: «Magari comincio con i ragazzi, anche se adesso forse non c’è neppure bisogno. In fondo, chi ha giocato al mio livello non ci mette molto a imparare» (a Massimo Cecchini).
• La popolarità esplose con le barzellette, prima a malapena sopportate poi, grazie al suggerimento di Maurizio Costanzo, raccolte in un libro di enorme successo i cui proventi furono devoluti in beneficenza. Tra le tante. La maestra: «Sai quali sono i 5 sensi, Francesco?». «Béh, certo: c’è Franco, ’a moje de Franco, ’e fije...»; Totti fa un cruciverba. 35 orizzontale, sei romano, due lettere. «Sì».
• Nel 2007 ha pubblicato un’autobiografia con Dvd (La mia vita, i miei gol, Mondadori) e ha recitato ne L’allenatore nel pallone 2. È stato protagonista del numero di Topolino in edicola il 16 gennaio 2008 (Papertotti).
• Conobbe la Blasi presentato dalla futura cognata: era gennaio, a marzo già vivevano insieme. A pochi giorni dal matrimonio, Gente scrisse che Totti aveva una storia con Flavia Vento. Ilary: «I giornali scrivono cose belle e brutte. O false. Come in questo caso. È stata una cosa pesante» (l’inchiesta sull’ipotesi di estorsione ai suoi danni per aver pagato 50mila euro al fine di bloccare la pubblicazione di un’intervista su un suo presunto flirt con Flavia Vento è stata poi archiviata). Le nozze fecero epoca: due vie del centro di Roma chiuse al traffico, autobus deviati, quattro ore di diretta su Skytg24 (i 30 mila euro pagati per i diritti tv furono devoluti in beneficenza al soccorso dei cani, all’Unicef, alla Fondazione Nelson Mandela). Disse all’epoca: «Io e Ilary avremo cinque figli. Spero che il primo sia un maschietto. Poi non mi importa di avere quattro femmine, ma il capofamiglia deve essere il maschio». Accontentato, Ilary voleva chiamare il primogenito Giordano, Totti si oppose perché gli avrebbe fatto venire in mente Bruno Giordano, idolo laziale anni Settanta-Ottanta. Alla fine decisero per Cristian (nato il 6 novembre 2005). Ha già fatto sapere che un eventuale prossimo maschio si chiamerà Rodolfo. Il 13 maggio 2007 è nata la seconda figlia, Chanel. Mamma Ilary Blasi: «Volevo un nome dolce, dal suono delicato: avevo in mente anche Jolie, ma Chanel mi piaceva di più». Il 27 settembre 2015, in occasione del suo 39esimo compleanno, Ilary ha annunciato in diretta tv a Le Iene di essere di nuovo incinta: Isabel è nata alle 19.40 del 10 marzo 2016 alla Mater Dei di Roma, per il ginecologo «Assomiglia a Chanel e a Francesco. Lui ha assistito al parto e fino alla fine non capiva se fosse maschio o femmina perché il cordone ombelicale che non lo faceva vedere. Il nome? pensavano a Gioia o Linda» [Pinci, Rep 11/3/2016].
• «Ilary è bella quando si sveglia. Non lo dico perché è mia moglie, ma è bella vera, quando passa la vedi e ti giri».
• Ha adottato un labrador, Ariel, cane da salvamento che nel luglio 2008 ha salvato una ragazza che stava affogando a Ostia.
• Nell’ottobre 2015 l’Atac, la società di trasporti della Capitale, ha messo la sua immagine su mezzo milioni di biglietti, in edizione limitata (prima di lui era stato fatto solo per Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII e Francesco).
• Critica «Totti per me è il migliore di tutti» (Pelè nel 2006).
• «Quando si scrive che Francesco Totti è il miglior giocatore della storia della Roma si pecca per difetto. Totti è il miglior giocatore italiano di ogni tempo» (Giancarlo Dotto).
• «Del Piero è la ciliegina, Totti la torta» (Roberto Beccantini).
• «Ha la mia rapidità e il tiro, ha l’invenzione e il passaggio di Rivera» (Sandro Mazzola).
• «È una perfetta sintesi di tecnica e potenza; gioca quasi sempre di prima intenzione e possiede un tiro fulminante, come dimostrano i suoi gol su punizione» (Gianni Rivera).
• «Totti gioca ovunque, ma nessuno sa mai dove» (Spalletti).
• «È sempre per terra: non si può sfiorarlo che sembra gli sparino dalla tribuna» (Giovanni De Biasi).
• Frasi «Mia madre era tifosa della Lazio, e anche mia nonna».
• «Non mi posso concedere un gelato in centro o un giro di acquisti in via Condotti. Ci ho provato una volta, si è bloccato il traffico».
• «Pensavo che da grande avrei fatto il benzinaro».
• «Tuttora non so se ho talento, me lo domando anch’io. È quello che si vocifera».
• Politica Del Pd, anche per l’amicizia con Veltroni. Alla vigilia del voto 2008, avendo espressamente manifestato il suo appoggio al candidato sindaco del centrosinistra Francesco Rutelli, Berlusconi gli diede del «fuori di testa» (immediata retromarcia per paura che la sortita gli facesse perdere nella capitale voti preziosi).
• Religione «La mia è sempre stata una famiglia molto religiosa, da piccolo ho fatto anche il chierichetto».
• Vizi «La vista del sangue mi impressiona, mi turba, mi si rigirano le budella».