Mattia Ferraresi, IL - Sole 24 Ore 5/2016, 22 aprile 2016
TUTTA L’ENERGIA DELLA CORSA ALLA CASA BIANCA
Quando parlano della posizione sull’energia del loro candidato, i sostenitori di Ted Cruz (il senatore di casa che sta cercando disperatamente di fermare la corsa trionfale di Donald Trump verso la nomination repubblicana) non mancano mai di citare l’obiettivo dell’indipendenza energetica. Da queste parti, nel fortino repubblicano del Texas, l’indipendenza è un tratto impresso nel codice genetico: affiora l’orgoglio di essere parte dell’eccezionalismo della stella solitaria, e non si tratta soltanto degli stivali, del barbecue e delle frange. Qui, nemmeno la legge spietata della depressione economica sembra attecchire. L’essenza del miracolo texano è stato rimanere nella parte soleggiata del ciclo economico quando su tutto il resto dell’America s’abbatteva la tempesta, e il petrolio è il perno del successo.
L’autostrada che da Dallas porta a Houston è una rampa di lancio verso una metropoli ampia e densa, tagliata da un reticolo di autostrade spesso intasate, come se le infrastrutture fossero insufficienti a far muovere i sette milioni di abitanti dell’area metropolitana. La via è punteggiata dagli iconici cartelloni elettorali e da pompe di benzina dove il pieno di un’auto si fa con poco più di venti dollari. Houston è la realizzazione sudista dell’ideale multiculturale all’origine dell’esperimento americano, una Ellis Island in salsa Tex-Mex esplosa grazie al petrolio. Poi ha allargato i suoi orizzonti, investendo in nuovi settori, dalla finanza alla ricerca biomedicale. A Houston c’è uno dei più grandi centri medici al mondo, il Texas Medical Center, mastodonte che dà lavoro a oltre centomila persone. L’energia ha fatto da traino a uno sviluppo su più livelli e direzioni. Negli anni Ottanta, più dell’80 per cento dei posti di lavoro della città era nel settore petrolifero; oggi la disoccupazione rimane un paio di punti percentuali al di sotto della media nazionale.
Girando on the road per il Texas si capisce che, in questi tempi di flessione del greggio, indipendenza energetica significa anche diversificazione. E il Texas si sta attrezzando per diventare una superpotenza dell’energia solare, visto che fra gli Stati americani ha le maggiori potenzialità in questo senso. Nel 2007, la rete solare texana forniva 3,2 Megawatt; oggi è quasi a quota 400. Chi ha dato l’abbrivio a questa tendenza è stato George W. Bush, texano di famiglia patrizia di petrolieri e presidenti. La gente, qui, ancora ricorda il discorso del 2006 in cui definì l’America «addicted to oil», scelta retorica forte che sottolineava, però, la necessità di ricercare l’indipendenza, disancorandosi da risorse «spesso importate dalle zone più instabili del mondo». Guarda caso, a Dallas, la fugace campagna elettorale di Jeb (fratello minore di George ritiratosi quasi subito dalla corsa alla nomination) non ci è mai arrivata. La visita al placido museo di famiglia restituisce la sensazione di una grande dinastia americana che, con austera dignità, elabora un lutto politico.
Il miracolo texano, oggi, si presenta sotto forma di cantieri, gru, betoniere, operai con gli elmetti, martelli pneumatici che spaccano per aggiungere corsie alle strade, allargare i marciapiedi, costruire palazzi, accogliere persone. Nella classifica delle città che stanno crescendo più rapidamente in termini di popolazione, le prime tre sono in Texas: Houston, la cosmopolita capitale del petrolio; poi Austin, terra di hipster e tecnologia; infine Dallas, assieme alla gemella Fort Worth uno snodo commerciale fra i più importanti degli Stati Uniti. Il problema è che il Texas non rappresenta tutti gli States, e proprio i commerci e l’economia in generale sono la questione calda per gli americani che stanno votando alle primarie per selezionare i candidati che si sfideranno a novembre. Scrutando la frustrazione del ceto medio bloccato – quando non impoverito – si può spiegare, almeno in parte, la fenomenale ascesa di Donald Trump.
Mai come in questa tornata sembra valido il leggendario slogan che il consulente James Carville coniò per la campagna di Bill Clinton: «It’s the economy, stupid!». Economia ed energia vanno a braccetto, e sono una delle principali poste in palio nella corsa alla Casa Bianca 2016. Basta vedere l’ampio spettro delle posizioni dei candidati sulla politica energetica per capire la centralità della questione. Dal Texas petrolifero tutto questo si vede bene.
Si va dal democratico Bernie Sanders, che promette di lavorare a un «sistema alimentato al 100 per cento da energia pulita» per affrontare la «questione morale» dei cambiamenti climatici, fino al texano Ted Cruz – già citato prima –, che considera il climate change un dogma religioso «basato su una teoria pseudoscientifica», e oltre a voler espandere l’estrazione di petrolio per ridurre la dipendenza americana dai Paesi dell’Opec è deciso a eliminare il Dipartimento dell’Energia se sarà eletto alla Casa Bianca. In mezzo, ci sono le promesse di impegno per le rinnovabili di Hillary Clinton e gli slogan lapidari di Trump, che considera il cambiamento climatico una truffa e l’Agenzia per la protezione dell’ambiente «lo zimbello del mondo». Insomma, la polarizzazione politica di Washington è una tendenza trasversale e non risparmia nessun settore. Quale direzione prenderà la Casa Bianca sull’energia se si affermerà un candidato democratico? Quale sarà, invece, lo scenario in caso di vittoria repubblicana?
Hillary Clinton ha delineato in modo puntuale alcune delle sue decisioni prioritarie in materia: «Nel mio primo giorno da presidente, definirò due grandi obiettivi. Voglio che gli Stati Uniti abbiano mezzo miliardo di pannelli solari entro il 2020. E voglio che generiamo abbastanza energia da fonti rinnovabili per mantenere ogni casa in America entro dieci anni dalla mia elezione. Con gli investimenti giusti, creeremo posti di lavoro ben pagati e faremo dell’America la superpotenza dell’energia pulita». Incalzata a sinistra da Sanders, campione degli ambientalisti. Hillary ha progressivamente modificato le sue posizioni in favore di maggiori investimenti sulle rinnovabili e di contenimento dell’estrazione di combustibili fossili. È favorevole al blocco delle esplorazioni nell’Artico, confermato lo scorso anno da Barack Obama, e si è detta scettica sull’ipotesi di nuove trivellazioni nell’Atlantico e nel Golfo del Messico. Quando le hanno domandato se sarebbe favorevole a un futuro congelamento dell’estrazione di combustibili fossili su tutti i territori federali, lei non si è tirata indietro: «That’s a done deal». La sua opposizione alla Trans-Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio dell’area pacifica sostenuto da Obama, è anche motivata dal timore che l’apertura commerciale possa essere sfruttata dalle compagnie energetiche per eludere le regolamentazioni sull’ambiente. Clinton promette di accelerare e approfondire con decisione le politiche ambientali e di contenimento dei combustibili fossili inaugurate da Obama, posizione che spera allarghi la sua base elettorale verso la fascia d’età più giovane. Un sondaggio Ipsos dice che l’81 per cento degli americani sotto i 35 anni vorrebbe vedere una transizione totale degli Stati Uniti alle energie rinnovabili entro il 2030. L’intero blocco democratico è impegnato sul tema energetico: «Sul fronte della sinistra i candidati stanno parlando di questo tema come non era mai successo», ha detto Gene Karpinski, presidente della League of Conservation Voters, che sostiene Clinton. Lo scenario di una vittoria democratica imporrebbe una revisione al ribasso delle previsioni sull’estrazione petrolifera negli Stati Uniti, il produttore che è cresciuto più di qualunque altro negli ultimi cinque anni. Le proiezioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia dicono che nel 2021 l’America raggiungerà quota 14,2 milioni di barili al giorno, contro i 9,4 milioni del 2015.
I candidati repubblicani promettono di mantenere, anzi di accelerare questo trend. Benché nel campo della destra siano rappresentate diverse posizioni e sensibilità su ambiente e climate change, l’espansione dell’estrazione petrolifera per ridurre la dipendenza dal petrolio straniero è un denominatore comune. Una posizione che peraltro s’accorda con un’antica persuasione isolazionista in politica estera che candidati come Trump e Cruz stanno riportando alla luce.
La posizione di Trump sull’estrazione è inequivocabile: «Iniziamo a trivellare ovunque il petrolio sia accessibile. L’eccesso di petrolio nel mercato, che ha causato un grave calo nel prezzo, lo fa sembrare oggi meno importante, ma alla fine il mondo avrà bisogno di quel petrolio, e avremo bisogno dei posti di lavoro che questo creerà». Allo stesso tempo. Trump e gli altri candidati sono contrari ai sussidi e ai crediti fiscali concessi ai player che lavorano nel settore delle rinnovabili. Cruz, senatore dell’oil State americano per eccellenza, il Texas, era anche contrario ai sussidi sull’etanolo che sono cruciali per alcuni stati rurali, come per esempio l’Iowa, da cui è partita (come da tradizione) la corsa delle primarie.
Una legge non scritta dice che il candidato che non appoggia gli incentivi federali per l’etanolo non ha possibilità di vittoria, ma Cruz ha infranto la legge, aggiudicandosi lo stato pur mantenendo una postura liberista e marcatamente contraria al big government. Sia Trump che Cruz sostengono il fracking, e invocano un approccio all-of-the above alla questione energetica. Un’amministrazione repubblicana non smetterà di investire sulle rinnovabili, ma promette di farlo in un clima di competizione fra privati, mentre continua a investire sull’estrazione di petrolio e gas naturale, in nome dell’indipendenza e del mercato.