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 2016  aprile 20 Mercoledì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - TRUMP VINCE A NEW YORK


REPUBBLICA.IT
NEW YORK - "Dopo questa vittoria di New York abbiamo raggiunto i 10 milioni di voti complessivi. Siamo in dirittura finale". E’ questa frase di Hillary Clinton, a dare il senso della serata. Vale per i due candidati, in fondo, anche se contro Donald Trump la sua è una "guerra asimmetrica". Le primarie di New York rilanciano i due superfavoriti, rispetta i pronostici, tutti e due vincono con margine ampio, e quello di Trump è perfino schiacciante.
Ma la campagna di Hillary ha di fronte a sé un percorso molto più normale. Il partito si compatta attorno a lei, anche se Bernie Sanders indispettito lascia New York molto presto, con uno strascico di polemiche per il ricorso contro la "scomparsa" di 125.000 elettori dal registro di Brooklyn. Ma ormai quella "insurrezione interna" che è stata la campagna del socialista Bernie non può riservare grandi sorprese. Per far deragliare il treno della Clinton, si calcola che Sanders dovrebbe sconfiggerla con 20 punti di distacco nell’ultima mega-primaria, in California a giugno. E’ quasi fanta-politica.
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E infatti Hillary già lavora a rappacificare gli animi, a ricompattare il partito. Nella sua serata trionfale, dentro lo Sheraton Hotel di Times Square, lei dichiara: "Con i sostenitori di Bernie sono molte più le cose che ci uniscono, di quelle che ci dividono. Siamo tutti progressisti, nel solco di una tradizione che va da Franklin Roosevelt a Barack Obama".
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Insieme al marito Bill la raggiungono sul palco il sindaco di New York Bill de Blasio e il governatore dello Stato Andrew Cuomo, un’immagine di unità dei democratici. Tra una settimana si vota nel Supermartedì della East Coast: Pennsylvania, Connecticut, Maryland, Delaware e Rhode Island. Grazie alla poderosa spinta di New York, dove ha raggiunto il 58% e ha inflitto un distacco di 16 punti a Sanders, Hillary affronta il prossimo verdetto con serenità.
Il suo è già un discorso che guarda alla finalissima di novembre. "Trump è un pericolo per l’America, ci vuole dividere, tratta gli immigrati come criminali. E’ tutto il contrario dei valori su cui è costruita l’America". Hillary recupera temi che hanno aiutato sia Trump che Sanders a trasformare il 2016 in una campagna anomala, radicale, rivelando giacimenti di sofferenza e di esasperazione nel paese nonostante i sette anni di ripresa economica sotto Obama.
"Tanti americani - dice la Clinton - non si sono ancora risollevati dalla grande crisi. È a loro che dobbiamo pensare. Con spirito positivo, perché l’America è una nazione che i problemi li risolve". Parla di trasformarla in un Green Superpower, una superpotenza delle energie rinnovabili. Affronta il tema dei bassi salari, la parità retributiva uomo-donna, l’accesso all’istruzione di qualità che non deve essere un privilegio per ricchi. Promette una riforma "inclusiva" delle leggi sull’immigrazione. Giovani, donne, minoranze etniche: è quella coalizione arcobaleno che portò due volte alla vittoria Obama, e che ora Hillary deve ricostruire, raccogliendo anche l’esercito radicale di Sanders.
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E’ evidente l’asimmetrìa con i toni che usa Trump nella serata del suo trionfo col 60% dei voti. Trump è costretto a polemizzare di nuovo col suo partito, a denunciare una "nomination truccata", a evocare trame e macchinazioni con cui gli vogliono scippare la candidatura. Ma l’establishment repubblicano gioca pesante - Ted Cruz malgrado la disastrosa prestazione a New York continua a fare incetta di delegati con una sorta di "mercato parallelo" - perché è convinto che con Trump in finale non si vince.

Maria Giovanna Maglie per Dagospia
Se proprio non gliela vogliono dare la nomination, neanche ora che a New York li ha stracciati, ai vertici del Partito Repubblicano toccherà sparargli. Lo teorizza anche un rap , “Fuck Donald Trump”, composto ed eseguito da YG e Nipsey Hussle. davanti a ventimila persone al Coachella festival la settimana scorsa.
Non è male immaginarsi i bacchettoni del GOP a Washington che canticchiano in doppio petto gessato e colletto duro “ All the niggas in the hood wanna fight you Surprised El Chapo ain’t tried to snipe you Surprised the Nation of Islam ain’t tried to find you Have a rally out in L.A., we gon fuck it up Home of the Rodney King riot, we don’t give a fuck You built walls? We gong prolly dig holes And if your ass do win, you gong prolly get smoked Fuck nigga, fuck you! When me and Nip link, that’s Bloods and Crips Where your L.A. rally? We gon crash your shit”;
laddove tra un insulto e l’altro si evince che se dovesse vincere va fatto fuori, che avrebbe dovuto occuparsene El Chapo o l’Islam, e che si potrebbe procedere durante un rally a Los Angeles. Fanatici estremisti i due artisti? No, “He got me appreciating Obama way more,” Trump li avvicina ancora di più a Obama.
Mentre il video veniva girato, la polizia è intervenuta a fermare tutto temendo casini seri, ma il contenuto viene trasmesso regolarmente dalle radio, e si è preso giudizi lusinghieri da Billboard, the Source, MTV, il cui critico, Adam Fleischer, scrive che “è un punto di vista netto che funziona di fatto da richiamo contro Trump, unisce centinaia di persone che marciano nelle strade senza distinzioni di genere, età, razza”.
Per intanto vale quel che Rudy Giuliani ha detto martedì ad urne aperte a New York al New Day di Cnn, ovvero che “ se gli mancano alla nomination venti o trenta voti, cambino la regola,come ne hanno cambiate tante, e gliela diano, è dovuta”.Poi, dagli affari loschi ai tempi di Little Rock allo scandalo White Water alla strage di Bengasi,ai misteriosi rapporti tra la Fondazione Clinton e la Swiss bank, l’ex sindaco di New York ha brillantemente indicato le magagne di Hillary Clinton e famiglia che dovrebbero essere approfondite ulteriormente e diventare cavallo di battaglia del partito repubblicano.
Invece i repubblicani buttano milioni di dollari per fare la guerra a Trump. Ancora Giuliani, che detesta la nomenclatura gop ed è ricambiato, ha ricordato l’imbroglio dei delegati rubati da Ted Cruz: “ Se vinci per un canestro tre punti e te ne assegnano due, è scorretto,e basta, ed è per questi maneggi, per simili scorrettezze, che non solo Trump ma anche Sanders hanno avuto tanti voti, perché la gente è stanca”.
In realtà già prima della grande vittoria di New York, 89 delegati su 95, neanche uno a Cruz, 4 a Kasich, il grosso del partito ha cominciato a riflettere sui costi politici della guerra a Donald Trump. Una riunione a porte chiuse in Florida è finita di fatto con una conclusione simile a quella auspicata da Giuliani: se arriva molto vicino al numero magico di 1237, anche gli altri delegati confluiranno su di lui, chi volete che si prenda una responsabilità diversa.
Ne arriveranno circa 200 a Cleveland liberi di decidere quale candidato appoggiare,certo gli uomini di Trump devono avvicinarli, corteggiarli, convincerli, imparare da Cruz. Qualcuno di loro comincia a dirlo chiaramente, come Ron Kaufman, membro del Comitato Nazionale Repubblicano del Massachusetts e delegato “libero”, vicino a Mitt Romney e a Jeb Bush, quando dichiara che “se dopo il 7 giugno ( ultime primarie in California), sarà arrivato vicino, sarà evidente per la gente che ha vinto il numero più alto di delegati e ottenuto il numero più alto di voti in modo gigantesco. Alla fine, vogliamo che i milioni di nostri elettori delle primarie si sentano tranquilli che i loro voti valgono, che non li buttiamo nell’immondizia, che vogliamo essere certi che siano con noi a novembre”.
Non si rassegnano quelli di Our Principles PAC, l’organizzazione principale di finanziatori anti Trump. Dice il direttore, Katie Parker: “Il numero è 1237, se non ce l’ha, sarà una convention aperta e ce la giocheremo, la gente deve capire che sarebbe un candidato debole, senza possibilità di battere Hillary”. Vedremo. La campagna di addomesticamento di Trump è partita alla grande con il nuovo campaign manager Paul Manafort, che ha assunto Rick Wiley, prendendolo dallo staff del comitato repubblicano per i suoi stretti legami con l’establishment del partito.
hillary clinton vince le primarie di new york
hillary clinton vince le primarie di new york
Il super Tuesday della East Coast, 26 aprile, sembra sorridere loro: Connecticut, 28 delegati; Delaware, 16 delegati; Maryland, 38 delegati; Pennsylvania,71 delegati; Rhode Island, 19 delegati. Tranne che per Rhode Island, the winner takes all, il vincitore prende tutti i delegati.
La Clinton viaggia su un altro treno, altro percorso. New York ha dato una sonora lezione alle velleità di Bernie Sanders, a poco sono serviti gli Spike Lee e le Susan Sarandon, in questa città e in questo Stato Hillary ha sempre avuto alto gradimento, da quando si presentò come candidato senatore nel 2000, che era ancora first lady. Certo, la sua abituale fortuna la accompagnò allora, a Rudy Giuliani, l’avversario repubblicano al Senato, venne un cancro.
Ma da allora va detto che si è spesa per gli abitanti della Grande Mela e del Grande Stato, e raccoglie i frutti, troppo facile pensare che bastasse qualche giovanotto e un po’ di star di Hollywood a far conoscere il senatore del Vermont. Il quale ha masticato amaro ma continua la corsa, e questo richiede alla Clinton di inseguirlo a sinistra per prendergli voti ora, e assicurarsi gli altri dopo la nomination, alle elezioni generali di novembre.
Questo è un peccato, ed è un pericolo, perché già le è toccato inseguire il liberal Obama e fare non poche gigantesche sciocchezze quando era segretario di Stato, Primavera araba e Libia sopra a tutte.
La campagna 2016 però era stata avviata e studiata nel solco terzista del marito ed ex presidente, Bill Clinton, uno che nel 1992 aveva fatto fuori estremisti neri, pastori radicali, soprattutto lo strapotere delle Unions, il sindacato; uno, insomma che un moderato, anche di simpatie repubblicane poteva votare senza troppo sforzo.
Questa strada è perduta, a Hillary Clinton ora toccano le trivelle da fermare, il salario minimo da aumentare, la riforma sanitaria di Obama che Sanders vorrebbe ancora allargata, le tasse da alzare agli imprenditori, la legalizzazione della marijuana, la schedatura dei poliziotti. Tutti argomenti che in casa Clinton sono sempre stati considerati spazzatura per rooseveltiani e radical della East Coast.

ECCLESTONE APPOGGIA TRUMP
Da www.repubblica.it
Bernie Ecclestone non è mai stato tipo da mordersi la lingua. E le sue ultime dichiarazioni sono destinate a sollevare l’ennesima polemica, non solo sportiva. Dalle donne - che non sarebbero in grado di guidare in F1 - all’Europa, dall’immigrazione alle presidenziali Usa, il patron della Formula 1 si è lasciato andare all’Advertising Week Europe a London. Diventando immediatamente trending topic su Twitter.
Le donne pilota?
Per loro non c’è spazio in Formula Uno. "Non so se siano fisicamente in grado di essere veloci con una F1 e poi non verrebbero prese sul serio". E’ dal 1976 che una donna non prende parte a un Gran Premio di Formula Uno. Ma Ecclestone poi aggiunge che cresceranno nel ruolo di manager: "Sono più competenti e non hanno ego esagerati".
Putin?
Il presidente russo "dovrebbe essere messo al governo dell’Europa, liberandoci di Bruxelles. Lui fa quello che dice che farà, e porta a casa il compito. Lui vuole riportare la Russia a quello che era".
Referendum sulla Brexit?
"Io sono per l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa al 100%".
L’immigrazione?
"Non ha portato alla Gran Bretagna alcun beneficio".
Trump?
"Sarebbe un ottimo presidente Usa. Sono sicuro che sia più flessibile di molti altri candidati".

REPUBBLICA.IT
NEW YORK - Il segnale lo ha dato l’Empire State Building colorandosi improvvisamente di rosso. Erano passati pochi minuti dalle nove di sera (ora di chiusura dei seggi) e il più famoso grattacielo di New York City avvisava i cittadini che le primarie repubblicane (il rosso è il colore del Grand Old Party) avevano già un vincitore certo. Sulla Fifth Avenue, a pochi passi dalla celebre gioielleria Tiffany, nella grande hall della Trump Tower trasformata per una sera in arena politica, un boato accoglieva la notizia che tutti le tv e i social network avevano dato in tempo reale: The Donald ha stravinto, supera il 60 per cento dei voti, umilia il suo avversario Ted Cruz (che non raggiunge il 15 per cento, superato anche da John Kasich con il 24 per cento) e ha la strada spianata verso la nomination per sfidare Hillary Clinton a novembre.

I vertici del Gop faranno ancora di tutto per fermare la corsa di Trump alla Convention, nella speranza che il candidato-miliardario non riesca a raggiungere il quorum di delegati (1.237) alla prima votazione e si aprano quindi le porte alla “Open Convention”, con compravendita di delegati, compromessi, tradimenti (e qualche possibile rissa). Dopo New York anche questa ipotesi diventa più difficile, perché continuando così - si deve votare ancora in grandi Stati come California, Pennsylvania, New Jersey etc.- Trump anche se non dovesse raggiungere la magica cifra si avvicinerebbe comunque molto. E nel partito (ieri solo tema è intervenuto l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani) cresce l’ala di chi sostiene che a questo punto sia meglio nominare candidato ufficiale Trump che rischiare la spaccatura totale.

Lui, il protagonista, lo sa bene. Non a caso, appena saputi i risultati, la sua prima frase è stata per il suo principale avversario: “Ted Cruz si avvia ad essere matematicamente eliminato dalla corsa alla nomination”. E di fronte agli applausi e agli slogan dei sostenitori rincara la dose: “Basandomi su quello che vedo nelle tv, direi che non c’è più gara. Andremo alla Convention da vincitori. Voglio ringraziare tutti: ho una grande ammirazione per la città di New York (Trump è un newyorchese del Queens, ndr), questa vittoria vale più di ogni altra.

Per lui una doppia vittoria, visto che (come in molte altre primarie) è riuscito a portare alle urne un numero di nuovi elettori superiore alle aspettative. Inoltre negli ultimi giorni in diverse aree dello Stato (e anche di New York City, roccaforte democratica per eccellenza) non sono mancati quelli che in suo nome hanno deciso di cambiare partito. Oltre a una vittoria oltre le più rosee aspettative quella di New York è importante da un punto di vista psicologico e per quello che nella politica americana viene definito il “momentum”. Cruz aveva vinto bene nel Wisconsin, era andato meglio del previsto in Colorado e si era preso i delegati del Wyoming eletti con un metodo - in cui il partito conta molto - che ricorda quello che sarà usato alla Convention di Cleveland a metà luglio. Adesso è lui il perdente e nei prossimi appuntamenti del 26 aprile (Pennsylvania, Connecticut, Maryland, Delaware, Rhode Island, Stati con un elettorato più simile a quello di New York che non a quelli del West) rischia nuove sonore batoste. A quel punto per chi vuole fermare Trump non resterebbe che puntare su Kasich. Ma il Governatore dell’Ohio non sembra l’uomo adatto per scaldare i cuori di un elettorato repubblicano sempre più arrabbiato.