varie (vedi testo), Il dubbio 19/4/2016, 19 aprile 2016
IL MIO AMICO STEFANO E LA SUA TRAVOLGENTE IRONIA
[Stefano Di Michele]
È morto sabato scorso, a Roma, Stefano Di Michele, aveva 56 anni ed è stato uno dei più brillanti giornalisti della sua generazione. Ha iniziato la carriera giornalistica all’Unità, dove ha lavorato per più di dieci anni. Poi è passato al “Foglio” dove ha scritto fino a un anno fa, quando si è ammalato. Ieri si sono svolti i funerali alla Chiesa Cristo Maestro, sulla Nomentana
Ad un certo punto, da cronista dell’Unità, aveva cominciato ad occuparsi di destra, dell’Msi che andava trasformandosi in Alleanza Nazionale e c’era curiosità per quei primi, contenuti, vagiti. Ci ritrovammo in una periferia di Roma, accorsi ad ascoltare un comizio di Gianfranco Fini. Dopo un po’ si avvicinò Domenico Gramazio, tra i camerati soprannominato Pinguino. “Avete sentito Gianfranco? Roba forte”, ci apostrofò ammiccante. Stefano lo guardò sottecchi, agitando i giornali che aveva in mano con il gesto di chi fa aria e sbuffa. “A Grama’, ma se non ha detto niente’” disse sarcastico. E Gramazio di ritorno: “Appunto!”.
Stefano Di Michele era così, scanzonato, sempre pronto a non prendersi sul serio. Voleva che gli altri facessero lo stesso con lui. Non tanto per generosità: è che così poteva ripagarli con la stessa moneta. Era, e soprattutto continuava a definirsi, comunista. Gli piaceva ribadirlo con il sussiego di chi la sa lunga. Gli piaceva la politica e ne scriveva con la leggerezza di un pianista che sfiora la tastiera sapendo di poter comunque tirar fuori una melodia. Sempre sul registro dell’ironia: mai greve, inesorabilmente ficcante.
Gli avevo raccontato che una volta, in un comizio sotto un tendone a Nusco, Ciriaco De Mita mi aveva apostrofato “... e lo dico in particolare per un giornalista con i baffi, laggiù in fondo”. Pierluigi Castagnetti, che mi sedeva a fianco, me lo ripeté finché non uscimmo. Stefano mi guardò con quel sorriso che si incollava sotto il naso in mezzo alla barba: quando capiva di potersi divertire. Me lo ritrovai sul Foglio, per un commento scritto su Berlusconi: “... e chissà se gli piace quel che ha scritto sul Cavaliere un giornalista con i baffi”. Quando lo rividi in Transatlantico alla Camera, grandi pacche sulle spalle, poi una risata ci seppellì. Ne approfittai per chiedergli: “Scusa, ma com’è al Foglio? ”. Lui mi guardò sottecchi e disse: “Mah, funziona così. Alla riunione del mattino tutti intervengono su tutto. Poi quando è finita, Giuliano (Ferrara) mi viene vicino e mi dice in orecchio: tu scrivi su quello che cazzo ti pare”.
Con il passare del tempo i suoi resoconti politici erano diventate note di costume. Gli piaceva mettere alla berlina l’ipocrisia e dileggiare il partito preso. Non era disilluso: semplicemente sapeva cogliere come pochi il lato umano delle cose e delle persone. Il risultato è che quando vedevi quelle tre consonanti in corsivo, tra parentesi, alla fine di un articolo potevi star certo che la lettura ti avrebbe arricchito. I suoi articoli sapevano del mezzo sigaro che sempre stringeva tra le dita e raramente accendeva. L’aneddoto era la sua carta d’identità; la giovialità, senza sconfinare nella eccessiva confidenza, il suo tratto umano; la profondità d’animo il suo stilema. Scriveva con la levità di una carezza. Di quello che però lasciano il segno.
Ad un certo punto non l’ho visto più scrivere. L’ho chiamato una decina di giorni fa per raccontargli la felicità di essere al Dubbio. “Sto in ospedale, sono ricoverato”, mi ha detto con quel timbro di voce terribile che chi ha sentito anche solo una volta non può più dimenticare. “Sentiamoci tra qualche giorno”, ha soffiato nel microfono. Poi non l’ho chiamato. Non lo sentirò più. Addio Stefano. Ora siamo tutti un po’ più soli.
Carlo Fusi
QUELLA VOLTA CHE MI SALVÒ DAI FASCISTI–
Quando è entrato all’Unità avrà avuto poco più di vent’anni. E una faccia da bambino. Era cicciottello e aveva un sorriso dolcissimo. L’ho rivisto per strada, un paio di mesi fa. Era dimagrito molto, stava male, me lo ha detto, però non mi ha fatto capire che la malattia fosse così grave. Aveva sempre la faccia da bambino e un sorriso dolcissimo.
Quella faccia tonda tonda e quel sorriso da gatto non erano un aspetto secondario di Stefano Di Michele. Erano la sua quintessenza, l’anima. Non era snob, secondo me, era ingenuo e ferocemente critico. In questo ossimoro consisteva il suo famoso snobismo. Ma per essere snob davvero bisogna essere borghesi oppure aristocratici. Stefano era uomo del popolo. La sua forza intellettuale e la sua ironia erano del popolo. Non voglio dire nient’altro su di lui. Però devo raccontare un paio di episodi vissuti durante i dieci anni circa che abbiamo passato insieme, lavorando all’Unità. Il primo episodio è sportivo, il secondo è politico. All’Unità la domenica si facevano 16 pagine di sport. E quindi non bastava la redazione sportiva. Tutti facevano i turni allo sport della domenica. Qualche volta toccava anche a Stefano. Il quale conosceva perfettamente il soprannome del vicesegretario della federazione di Rimini del partito liberale, ma ignorava chi fosse Rivera (una volta lo incontrò alla Camera e gli disse che io gli avevo spiegato che lui era stato un grande centravanti. Rivera obiettò, disse che giocava numero dieci e che nessuno che avesse visto una sola partita di calcio negli anni sessanta o settanta poteva pensare che lui fosse stato un centravanti. E infatti io non avevo mai detto a Stefano una simile idiozia, però Stefano insistette e mi fece fare una figura barbina e immeritata col grande Rivera, idolo della mia giovinezza...).
Insomma una domenica chiesi a Stefano di passare un pezzo dell’inviato, mi sembra ad Ascoli, sulla partita della Juventus. Allora i pezzi si scrivevano sui fogli di carta doppi con la carta carbone in mezzo. Dopo mezz’ora Stefano mi riportò il pezzo, corretto ben bene, e alla fine del pezzo c’era il cosiddetto tabellino: formazione, marcatori, ammoniti, espulsi, angoli. Il tabellino però aveva solo le formazioni. Gli chiesi di scrivere i marcatori. Lui si riprese il foglio e tornò al suo tavolo. Dopo cinque minuti si ripresentò e mi disse, timido timido, che aveva riletto il pezzo e che non c’erano i marcatori. Gli chiesi come fosse finita la partita. Mi disse: quattro a uno per la Juve. E allora, obiettai, un po’ spazientito, come fai a dire che non ci sono stati marcatori? Lui si fece piccolo piccolo e mi chiese con un filo di voce: «Cosa sono i marcatori?»
(Per quelli come Di Michele: i marcatori sono quelli che hanno fatto i gol).
Poi chiesi a Stefano perché aveva scritto che gli angoli erano stati quattro. Quattro e basta. E lui con un tono stavolta ben deciso, mi spiegò che in un campo di calcio gli angoli comunque sono quattro.
(Per quelli come Di Michele: nel linguaggio sportivo per “angolo” si intende “calcio d’angolo”, cioè tiro da fermo da uno dei quattro vertici del campo, dove c’è la bandierina...).
Decidemmo di esentare Stefano dal lavoro domenicale allo sport. Lui ne fu felice. Il secondo episodio è politico. Era, se ricordo bene, il 1994. Fummo mandati lui ed io a seguire la grande manifestazione del centrodestra – che aveva vinto le elezioni – a Milano. Io ero ancora un vecchio comunista, abituato agli scontri anche fisici e alle mazzate in piazza. Lui aveva 10 anni meno di me, era anche lui comunista ma era molto più moderno di me. E più laico. E più spiritoso.
Il comizio di Berlusconi in piazza Duomo stava per finire e noi due decidemmo di andarcene per scrivere i nostri articoli. Sgattaiolammo per stradine laterali e a un certo punto, svoltando l’angolo, vedemmo che avanzava verso di noi un pezzo di corteo, urlante e minaccioso, pieno di bandiere del Msi. Per me quella era una falange fascista. E per esperienza sapevo sin da ragazzino che se incontri una falange fascista sulla via, devi dartela a gambe. Dissi a Stefano, concitato: “Di qui, svelto, prendiamo quel vicolo a destra...”. Ma lui non mi ascoltava, aveva alzato le braccia e salutava. Gridava: «Gnazioooo!!!». Gnazio era La Russa, tutto vestito di nero, sguardo truce, che guidava il corteo. “Stefanooo! ”, gridò la Russa a sua volta, con un gran sorriso, e anche gli altri “picchiatori” della falange iniziarono a salutare e a sventolar bandiere. Finì con grandi abbracci, e io stavo lì, fuoriposto, stupito.
Stefano ti lasciava spessissimo stupito. Qualche volta però era lui a stupirsi un po’. Per esempio quella volta, quando stavamo a Liberazione (il quotidiano del Prc), e nel giorno in cui si apriva il congresso solenne di Rifondazione Comunista a Venezia, decidemmo di fare uno speciale di otto pagine sulla clitoride e l’orgasmo femminile (l’idea fu di Angela Azzaro, naturalmente). Stefano lesse il giornale ed era entusiasta. Scrisse una pagina intera sul “Foglio”. L’idea che i comunisti si occupassero del clitoride anziché delle gabbie salariali lo esaltava.
Se ne è andato. E non possiamo neanche piangerlo. Perché io credo che lui non abbia mai pianto in vita sua. A lui piaceva ridere, ridere. Ridere di tutto.
Piero Sansonetti