Pietro Mancini, Il dubbio 19/4/2016, 19 aprile 2016
IL VECCHIO LEONE SFIDÒ I POTERI E VENNE ESILIATO
[Giacomo Mancini]
Sui temi del garantismo, delle battaglie per la giustizia giusta, per i diritti civili e per la legalità democratica le posizioni di Giacomo Mancini – il 21 aprile ricorre il centenario della sua nascita – incontrarono evidenti difficoltà, non solo fuori, ma anche all’esterno del Psi.
Antonio Landolfì, che restò nel Psi sempre accanto a Giacomo, nelle giornate liete e in quelle amare, come a Genova, nel 1972, quando perse la segreteria, vede in queste posizioni manciniane, come scrisse nella sua completa biografia di mio padre, edita da Rubbettino, «il raccordo mitterrandiano dello spirito laico e repubblicano», che ormai permetteva di registrare i successi, che il nuovo corso del PS di “Roi François” stava ottenendo in Francia.
Già, proprio Mitterrand, di cui oggi la sinistra, a Parigi, ma anche a Roma, rimpiange il rassemblement, cioè il grande, intelligente lavoro, compiuto per mettere insieme socialisti, comunisti e radicali, portandoli al governo, dopo anni di umilianti sconfitte della gauche. Anche nel valutare e capire, prima degli altri, l’importante ruolo, svolto da Mitterrand, Mancini fu un lucido anticipatore, saltando, quella bella domenica del maggio 1981, sul primo aereo per Parigi, dove si entusiasmò, con i compagni francesi, per il trionfo del candidato socialista all’Eliseo.
Quanto al nostro Paese, nel Psi, molti dirigenti non condividevano la franchezza. con la quale l’ex segretario, quasi ogni giorno, poneva, con forza polemica, le questioni della democrazia e del corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, come aveva cominciato a fare su vari episodi, riguardanti i servizi segreti, i comportamenti della magistratura, i rapporti tra i “poteri forti” dell’economia, non esclusi quelli che chiamavano in causa i grandi gruppi economici, pubblici e privati, che egli citava, con nome e cognome. Come fece, definendo il temuto e influente Presidente della Montedison, don Eugenio Cefis, un «uomo pericoloso per la democrazia italiana», in una lunga intervista che rilasciò, dopo il congresso di Genova, a Enzo Biagi, il quale, con risalto, la pubblicò su La Stampa di Torino.
E, per primo, Mancini intuì che la diffusione delle intercettazioni, illegali, avrebbero, alla lunga, provocato un grave vulnus alla democrazia.
Nei primi anni 70, l’ex “ministro del fare” toccò nervi, delicati e scoperti, dell’allora fragile democrazia italiana. Denunciò le gravissime responsabilità dell’inquietante prefetto Federico Umberto D’Amato (1919-1996), il capo dell’Ufficio “Affari riservati” del Viminale, di cui ottenne lo scioglimento e che, nel film del 2012 Romanzo di una strage, quella del 1969 a piazza Fontana, a Milano, il regista Marco Tullio Giordana ha indicato come uno degli “uomini neri” di quelle tragiche vicende. Il prefetto D’Amato fu poi assunto dal principe Carlo Caracciolo e da Eugenio Scalfari, editore e direttore de L’Espresso, che gli affidarono una rubrica di critica enogastronomica sul settimanale, con relativo stipendione. La relazione al congresso di Genova del 1972 fu uno dei primi documenti in cui un dirigente politico compiva una fredda analisi della situazione, contrapponendo alle erogazioni occulte il finanziamento statale dei partiti. Ne evidenzio un brano significativo: «Il fatto nuovo, dalla ricostruzione del regime democratico, è un nuovo tipo di rapporto, che si è creato tra i gruppi economici, quelli privati e quelli pubblici, con le forze politiche. Si è trattato, sempre, esclusivamente, come intuì Ernesto Rossi, di un rapporto di subordinazione del potere politico al potere economico, che non ha esonerato nessun partito, soprattutto a causa dell’opera dei servizi connessi all’attività politica e a causa della logica delle correnti organizzate. Noi saremmo al di fuori della realtà della vita politica moderna se sostenessimo, come partito, che il problema non esiste e può essere cancellato da considerazioni puramente moralistiche. Siamo, però, convinti che tali rapporti-debbano essere posti, in modo diverso, valutati e deliberati, in sede politica, e di convenienza politica, non affidati al sistema dell’inquinamento e della subordinazione. Perciò è necessaria, innanzitutto, l’autonomia finanziaria».
Osservò il giornalista Orazio Barrese, nella sua biografia dell’ex numero uno del PSI: «Quando Mancini fa questo discorso, il Psi è al di fuori dal potere e il Paese è guidato da un governo di centrodestra. La DC ha spremuto il PSI fin quando ha potuto e poi lo ha mollato in applicazione della teoria della reversibilità delle alleanze. Ben diverse erano le aspettative del leader socialista all’avvento del centrosinistra e dell’unificazione tra Psi e PSDI».
In queste battaglie, coraggiose ma molto impegnative, non furono, in molti, nel PSI, a seguirlo, specie quando Mancini passava dalle sigle ai nomi delle persone, che stavano dietro alle sigle. Ma il caparbio deputato continuò a esternare, anche quando Bettino Craxi, nei 16 lunghi anni della sua lunga e incontrastata egemonia nel PSI, cercò di emarginarlo, non proponendolo neppure per un ruolo onorifico di vicepresidente della Camera o di Presidente di commissione. E, dunque, Mancini, anche da “soldato semplice”, sempre cercato dai giornalisti politici, mitragliava contro il SID del generale Vito Miceli, poi suo collega missino alla Camera, chiedeva notizie sullo strano, tragico incidente dell’elicottero su cui viaggiava il Generale dei Carabinieri, Mino, proponeva interpellanze e interrogazioni sulle responsabilità per la strage della Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano, nel 1969, sull’arresto del ballerino anarchico, Pietro Valpreda, sui “depistaggi” nelle inchieste, che i giornali della sinistra extraparlamentare definivano sulle “stragi di Stato”.