Fabrizio Salvio, SportWeek 16/4/2016, 16 aprile 2016
SE PARLIAMO DI CALCIO C’È PAP
[Federico Di Francesco]
Si fa presto a dire: mi manda papà. Infatti Federico Di Francesco, attaccante rivelazione del Lanciano in Serie B e figlio di Eusebio, allenatore rivelazione del Sassuolo in A, non lo dice. E probabilmente neanche lo pensa. Per la verità, non dice nemmeno che sarebbe arrivato dov’è adesso – all’Under 21 e nei pensieri di osservatori e dirigenti di club importanti – pure se il padre avesse fatto il bancario, ma di certo il genitore gli ha solo, involontariamente, mostrato la via. La decisione di incamminarvisi e seguirla per vedere dove portava è stata tutta sua: «A me piacevano le macchinine, poi a 4 anni mi sono ritrovato con la prima palla di spugna tra i piedi e non l’ho più mollata. Siamo tre maschi in famiglia: io sono il solo che ha deciso di fare il mestiere di papà. Senza che lui mi abbia mai imposto niente».
Sono pochissimi i figli di ex calciatori famosi che riescono a loro volta a fare carriera: perché?
«Io credo che se un ragazzo ha un padre intelligente, bravo a non caricarlo di aspettative e di pressioni, e a sua volta ha delle qualità, alla lunga viene fuori. Il calcio è la mia passione e certamente l’ho ereditata da papà. Ma lui non ha fatto niente per passarmela, se non regalarmi quella palla. Ho un fratello di 18 anni, Mattia, che segue il calcio, gli piace giocarlo, ma è diverso da me, è più tranquillo, sta volentieri con gli amici, soprattutto al pallone antepone lo studio: se deve andare all’allenamento e ha dei compiti da finire, rimane a casa. Io ero tutto il contrario: prima il campo, poi i libri. Poi c’è Luca, 9 anni, che al calcio non pensa proprio. Preferisce il tennis. Insomma, non mi sento il figlio del calciatore che deve per forza fare lo stesso mestiere del padre. Mio nonno era ristoratore, eppure papà non ha mai pensato di aprire un ristorante».
Non è neanche l’idolo dei suoi fratelli, pare di capire...
«In compenso sono l’idolo del mio cuginetto di 8 anni, figlio del fratello di papà. Non manca mai a una mia partita, come i nonni paterni. Siamo di Pescara, è più facile che vengano a vedere me che mio padre a Sassuolo».
È vero che il suo idolo è El Shaarawy?
«Ma no, una volta mi chiesero se mi piaceva, io risposi di sì e ci fecero su il titolo. Lo apprezzo, ma come lui Insigne, Florenzi... Quelli che più o meno giocano nel mio ruolo attuale, attaccante esterno di un tridente. Il mio idolo è stato sempre mio padre, e non lo dico per ruffianeria. L’ho avuto in casa, è stato il mio punto di riferimento, ho visto come si è comportato da calciatore e da allenatore: sempre in maniera lineare e coerente con se stesso».
Prima ha detto: ho ereditato da papà la passione per il calcio. In che modo gliel’ha trasmessa?
«A 2-3 anni conoscevo tutte le marche di automobili. Poi, un giorno, lui, che all’epoca giocava nella Roma, tornò a casa con una palla di spugna e mi chiese: “Vuoi fare due tiri?”. Mi ci attaccai subito. Iniziai a vedere le sue partite, prima in tivù e poi allo stadio. La prima dal vivo mi pare fosse un Roma-Bologna, di sicuro ricordo che fece gol. Da allora mi ha detto solo una cosa: “Ti devi divertire”».
Come si è comportato con lei, una volta che ha capito che il figlio avrebbe fatto il calciatore?
«È stato severo, ma solo nel senso che ha cercato di correggermi tutte le volte che sbagliavo. Fuori dal campo soprattutto. Ci teneva molto che andassi bene a scuola. Ero molto vivace e lui mi ha insegnato ad avere rispetto. Mi ricordo l’unica volta che andò a parlare coi professori, successe alle medie. Ai colloqui andava sempre mia madre, che poi a casa raccontava a papà sempre una mezza verità nel caso in cui le relazioni sul sottoscritto non fossero state positive. La volta in cui andò lui io tremavo: sapevo che la prof di matematica avrebbe avuto da lamentarsi, per il comportamento più che per il profitto».
Risultato?
«Papà è tornato con una faccia nera e mi ha detto solo: se non vai bene a scuola non giochi più a calcio».
La cosa che più lo fa arrabbiare?
«Quando vede la mia macchina in disordine. Bottigliette, fazzolettini di carta... Lascio dentro di tutto».
È stato un papà presente?
«Sì. Negli anni delle elementari avrò cambiato 4-5 volte scuola seguendolo nei suoi spostamenti da città in città, è stato importante averlo a casa alla fine di ogni allenamento».
Ora chi chiama l’altro a fine partita?
«Lui di più, ma a volte lascia passare qualche ora».
Il fatto di avere un padre giovane (ha appena 46 anni) è stato utile, al di là del calcio?
«Mio padre è giovane all’anagrafe ma la pensa all’antica su certe cose. Crede molto nei valori di una volta: rispetto, umiltà, nessuna ostentazione di sé e di ciò che si possiede».
Le parla mai del calcio di una volta, rimpiangendolo?
«No. Non fa mai paragoni. So anch’io che una volta in squadra si era più abituati a stare insieme, a fare gruppo anche fuori, mentre oggi ognuno resta per conto suo e passa il tempo in ritiro tra videogiochi e telefonini. Ma a Lanciano ci ritroviamo spesso in 8-10 a cena fuori».
Qui a Lanciano se lei esce la sera nessuno dice niente, lo stesso non succederebbe nella grande città di un grande club: pronto a sopportare un certo tipo di attenzioni?
«Le cose le capisci quando le vivi sulla tua pelle. Io so quello che voglio: la Serie A, un club di primo livello e la Nazionale. Per raggiungerli saranno importanti i consigli e la vicinanza delle persone che mi vogliono bene, non l’ambiente di lavoro. E anche il mettere su famiglia presto: una cosa è tornare a casa e trovare calore, un’altra è aprire la porta e non vedere nessuno».
È fidanzato?
«No».
Cosa apprezzava di suo padre calciatore?
«La capacità di inserirsi in zona gol».
Il complimento più bello che ha ricevuto da lui?
«Dopo il mio esordio in Serie A: “Sono orgoglioso di te”, disse. Suonerà banale, ma mio padre è sempre stato parco di elogi, forse per spronarmi a dare sempre di più».
E il complimento che lei ha rivolto a suo padre?
«Mah... Il nostro è un rapporto senza troppe parole. Non ci siamo mai sbilanciati troppo». Ride.
Per cosa lo prende in giro?
«Quando giocava, tutte le volte in cui sbagliava partita. Un po’ ci soffriva e adesso si vendica».
Uno contro uno sul campo?
«Quando ero più piccolo. Ora non ce la fa più (ride). Dribblarlo era difficile».
Oltre che di calcio, con suo padre parla di...
«Calcio».
Ragazze? Macchine?
«Nooo».
Guardate insieme le partite?
«Ogni tanto».
Il giocatore che lui vorrebbe allenare?
«Ce l’ha già: Berardi. Dice sempre che è il più forte».
In cosa vi somigliate davvero?
«Nell’ambizione. Nel volersi migliorare ogni giorno».
Perché papà farebbe bene a lasciare Sassuolo per una grande?
«Non mi faccia questa domanda: se sbaglio non mi fa tornare a casa».