Paola Pilati, D, la Repubblica 16/4/2016, 16 aprile 2016
GIACARTA VESTITA
Devono essere apparse vestite così la regina di Saba di fronte al re Salomone, Salomè nella danza dei sene veli, Sherazade nelle sue mille notti di racconti, Turandot agli occhi di Calaf. C’era tutta la magia dell’Oriente femminile, per come lo immaginiamo a Occidente, sulle passerelle di marzo della quarta edizione della Jakarta FashionWeek: strascichi, tessuti preziosi, ricami, trasparenze, spacchi, copricapi arditi come mitra vescovili, ventagli e maschere, perle e oro. Se le signore di Giacarta sospiravano vogliose di fronte al lusso rigoroso dell’unico stilista occidentale presente, l’italiano Camillo Bona – haute couture di grande tradizione, tutto cucito a mano come una volta e vera eleganza – agli occhi europei la novità è la moda locale, prodotta da creativi indonesiani che mantengono un legame profondo con i costumi nazionali, hanno un forte accento etnico, ma sono un’esplosione di energia vitale come questa terra, piena di vulcani attivi (l’eruzione del Krakatoa del 1883 resta la più dirompente vissuta dal pianeta) e con una riserva geotermica da record mondiale.
Nei quattro giorni delle 32 sfilate l’impressione è anzi che l’Orientalismo, cioè il modo in cui l’Occidente vuole rappresentare l’Oriente impossessandosi della sua identità per il proprio piacere, qui in Indonesia venga preso in giro, quasi sfidato. Dopo le mille mode di ispirazione orientale, dallo stile geisha alle giacche alla Nehru, dal collo alla coreana ai bottoni di tessuto, va in scena l’orgoglio nazionale senza soggezioni al gusto occidentale. E si esibisce sulle passerelle senza timidezze, fra batik e sarong, dando vita a un Asian chic a suo agio sul set internazionale persino quando assume il connotato religioso, destinato alle donne dell’Islam che qui è religione maggioritaria (nel paese musulmano più popoloso al mondo). Seducendo noi occidentali, minimalisti ed essenziali, con lo sfarzo di colori e materiali, con l’eccesso dei decori, con l’azzardo della fantasia, quasi a dirci: il futuro siamo noi.
Tolto il Giappone, l’Indonesia è il paese asiatico che prende più sul serio la moda come sistema produttivo complesso, nato per una upper class danarosa e sempre più indirizzato alla nuova middle class, che si espande insieme all’economia: +5% di crescita. Non a caso la direzione della Fashion Week è affidata a Poppi Dharsono, imprenditrice (moda e cosmetici), jet set internazionale e impegno politico. E per trasformare la moda – che contribuisce con 5 miliardi di euro all’export – in un’industria nazionale e «l’Indonesia in punto di riferimento per l’Asean» (l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico), come dice il ministro dell’Industria Saleh Husin, il governo ha dato vita a Be Kraft, agenzia speciale con ampi poteri. Perché in questo campo l’Indonesia è veramente il paese più talentuoso dell’area. Alcuni suoi designer hanno già spiccato il volo verso Parigi e New York, e sono invitati sulle passerelle internazionali. Tex Saverio, che deve la sua fortuna al fatto di aver vestito Lady Gaga con un abito di tulle nero trasparente per il lancio del suo profumo Fame, è chiamato l’“Alexander McQueen indonesiano”, e ha uno showroom a Parigi; Bijan, studi nelle scuole di moda a Dusseldorf e a Londra, viene considerato invece il “Dries Van Noten asiatico”; la designer Ardistya New York ha studiato appunto nella Grande Mela e vende nelle boutique di tutto il mondo. Vone Clothing e Maria Ruth Fernanda hanno già in tasca l’invito per le prossime sfilate parigine. E gli osservatori della World Fashion Week di Parigi in missione a Giacarta, il presidente Paco De Jaimes e la direttrice delle relazioni internazionali Margaux Bagur su tutti, indicano nel giovane designer Rudi Chandra il prossimo pronto a spiccare il volo sugli stage occidentali.
Ma i protagonisti non nascondono le difficoltà. «In Indonesia siamo allo stadio in cui era l’Italia 40 anni fa», frena Musa Widyatmodjo, stilista che ha costruito un piccolo impero con 100 dipendenti e produce tre linee (per l’atelier, per i grandi magazzini Lafayette Indonesia, per il design di ricerca) ha firmato le uniformi per i dipendenti della banca nazionale, relizzando un fatturato totale di 600mila euro l’anno. «Da noi ci si veste per gli eventi, per le feste, mentre da voi è una pratica di ogni giorno: dobbiamo educare noi stessi al modo occidentale di fare fashion».
«Qui gli stilisti hanno quasi tutti una dimensione artigianale, trasformarsi in industria è difficile», aggiunge Sebastian Gunawan, designer di fama a cui Danone ha commissionato il progetto delle bottiglie d’acqua minerale, curvilinee come le donne in sarong. Gunawan ha studiato fashion design all’Istituto Marangoni di Milano dove ha incontrato sua moglie, Cristina Panarese, e insieme a Giacarta sono a capo di una delle case di moda più grandi dell’Indonesia: dagli abiti da sposa al prêt-à-porter. «Esportare è complicato perché non c’è uno standard», dice Sebastian, «ogni stilista adotta un diverso criterio sulle misure, alcuni seguono l’Europa, altri gli Usa, altri il Giappone». Per questo i giovani in cerca di fortuna sono affamati di know how occidentale, trasmesso da una dozzina di scuole di design attive qui e con scambi privilegiati con l’Italia. L’ambasciata Indonesiana patrocina la partecipazione alla Fashion Week dell’accademia Koefia di Roma, che a sua volta ospita per uno stage annuale lo stilista indonesiano più promettente. Eppure è proprio la dimensione artigianale la grande ricchezza di questa nazione. Mani esperte tessono i batik nelle infinite varianti che identificano le diverse comunità (in un paese di 250 milioni di persone, grande otto volte l’Italia ma spezzettato in 18mila isole di cui meno di mille abitate), e li impreziosiscono di pietre e di ricami. Sul batik, protetto dall’Unesco, ha fatto fortuna Josephine Komara detta Obi, diventandone l’ambasciatrice grazie alla raccolta paziente, alla produzione affidata a più di mille artigiani per i suoi negozi Bin House e alla fondazione di un Museo del batik a Bali. Non meno famosa delle sete di Baron, altra star del design dei tessuti, con negozi un po’ in tutto il Sudest asiatico.
I sacerdoti del fashion storcono il naso solo di fronte al peso crescente che in Indonesia ha assunto la moda islamica. Un fenomeno che ha invaso tutte le sfere, dall’haute couture al prêt-à-porter, con un trend di crescita del fatturato del 20% l’anno, secondo Feny Mustafa Safco, azionista del marchio Satira, primo gruppo di moda musulmana in Indonesia, che esporta i suoi capi dalla Svizzera alla Norvegia, dall’Olanda al Regno Unito (e fa 340mila euro di fatturato). «Ci vestiamo così perché è cresciuta la nostra consapevolezza religiosa», rispondono le signore in hijab. Anche qui però trionfa la creatività. Lo dimostra il successo della stilista Anniesa Hasibuan, l’interprete più famosa dell’alta moda musulmana, vestiti da sposa e da sera da mille e una notte rigorosamente halal ma seducenti e femminili, con veli avvolgenti, incrostazioni di perle (di Lombok, un’isola dell’arcipelago), ispirati ai costumi regali di Java, ma anche al film Frozen. Anniesa ha già sfilato a Manhattan e a Londra ed è stata invitata a Parigi. La versione indonesiana dell’abito che rispetta il Corano è unica, colorata, tutt’altro che punitiva della femminilità. Tanto che persino i cinesi hanno a Giacarta i loro emissari, perché – dicono – nella provincia cinese dello Xinjiang, a maggioranza musulmana, le donne si vestono in maniera troppo triste. Ma c’è un’altra spiegazione: in Cina non c’è un sistema moda autoctono, e il modello indonesiano è pronto per essere copiato. O sfruttato: non a caso alcuni degli stilisti di maggior successo in Indonesia sono proprio di etnia cinese.