Fiamma Tinelli, Oggi 13/4/2016, 13 aprile 2016
INTERVISTA A GIORGIO MICHETTI
Viareggio (Lucca), aprile
«Il segreto è il limone». Scusi? «Bere un limone spremuto in acqua tiepida, tutti i giorni. E poi, non guardare le cose brutte». Cosa intende? «Le notizie, i tiggì, quelle cose lì. Non guardare niente che non sia bello. Sennò non ci si arriva, alla mia età». Ha proprio ragione, Maestro.
Giorgio Michetti, classe 1912, ultimo pittore futurista d’Italia, sale (da solo) l’ultima rampa di scale, quella che porta nel suo studio. Arrivato sul pianerottolo si gira, mi guarda e fa, asciutto: «E per favore non mi dare del lei. Io il lei lo do solo agli imbecilli e ai deputati e tu non mi sembri né l’uno né l’altro». Sissignore.
A 104 anni, Michetti è in gran forma. Si alza alle sette, fa colazione («abbondante: caffellatte e sei fette di pane con la marmellata») e scende in studio. All’ingresso del suo atelier ci sono le sue famose Anamorfosi, opere in cui il soggetto è dipinto in modo distorto e che solo riflesse su uno specchio convesso rivelano la loro bellezza. In un angolo, una cyclette. «Mi scusi, chi la usa?», chiedo, incauta. «Io, chi altri?», mi scruta il pittore.
Maestro, è vero che dà lezioni di pittura su YouTube?
«Verissimo».
E che ha una pagina Facebook?
«Eh già. Ma io il computer non lo so nemmeno accendere. Io dipingo».
Tutti i giorni?
«Tutti. Ho cominciato che ero piccino e non ho più smesso».
La prima personale a 15 anni.
«Ero a Castiglioncello, ospite di mio zio per l’estate. Non facevo altro che riempire tele, così lo zio prese accordi con la Casa del Fascio perché mi dessero una stanza per mettercene un po’. Ero lì che sistemavo i miei quadri quando entra un omino minuto, col pizzetto e si mette a guardare. Dopo un po’ tuona: “Ragazzo, di chi sono questi dipinti?”. E io: “Miei, signore”. “Non è possibile. Questa è pittura da grandi, non da bimbetti”, replica lui, e se ne va. Sa chi era?».
No, chi era?
«Luigi Pirandello».
Accipicchia. Ma dove aveva imparato a dipingere così?
«Da solo. La scuola d’arte l’ho fatta dopo, a Roma. Nudo, anatomia, carboncino, noi la tecnica s’imparava davvero, mica come ora che gli fanno fare due disegnini e via».
Dopo il diploma si è messo a fare il pittore.
«Nooo… Quanto tempo hai detto che hai per quest’intervista? Nel 1935, Mussolini si mette in testa di lanciare la campagna d’Africa. Ci spediscono a Selaclacà, in Etiopia, con un’uniforme grigio-verde da morirci di caldo, e ci dicono di combattere. Ma combattere chi, per cosa? Eravamo un branco di scalcagnati, mangiavamo solo grano cotto e certi tremendi minestroni in scatola che ci mandavano dall’Italia. Quando reggevano, perché con 45° all’ombra metà delle lattine scoppiava come fuochi d’artificio».
E i pennelli?
«Eh, i pennelli lì non c’erano, però osservavo i paesaggi, i colori. Per fare arte serve tutto, sai? Anche guardare. A dipingere ho ripreso quando sono tornato in Italia. Anche se per guadagnare qualcosa ero rimasto nel Genio Militare, disegnavo sommergibili e facevo ispezioni. Un giorno mi fanno: vai a Trieste e valuta una fabbrica di legname. Io vado, vedo le tavole d’abete e anche la figlia del proprietario, Liliana. Aveva vent’anni e un sorriso che portava via. Amore a prima vista».
E vi sposate.
«Nooo. È lunga, ti ho avvertita. Io devo ripartire per l’Africa e glielo dico. Lei mi fa: “Ma quando torni?”. E io: “Eh, chi lo sa”. Mica per cattiveria, eh? Erano tempacci, quelli. Comunque, sei mesi dopo era promessa sposa a un altro. Al ritorno mi sono sposato anch’io con Laura, mi ha dato tre figli. E mi sono messo a fare solo il pittore».
L’ultimo futurista, dicono.
«Io mi definisco un figurativo moderno, è più flessibile. Le etichette non mi piacciono: astrattismo, cubismo... Che vuol dire? Che uno deve fare i quadri tutti uguali, come Picasso? Che poi, io con Picasso ci ho pure litigato».
Litigato?
«Ah sì. Ero in giro per la Costa Azzurra e andai a fargli visita nella sua villa sul mare. Mi presentai in francese, educato: “Maestro, è un piacere incontrarla. Sono un pittore anch’io, sa?”. E lui, senza nemmeno guardarmi: “E chi se ne frega”. Guardai i suoi quadri, mi girai verso l’uscita e dissi, a voce alta: “Andiamocene. E chi se ne frega”. Mia moglie Liliana mi voleva strozzare».
Come Liliana? Ma chi, la figlia del legnaio?
«Esatto. Mi chiamò che ero rimasto vedovo da poco, non la sentivo da 25 anni. Era sola anche lei, venne a trovarmi una sera d’estate, non ci siamo più lasciati. Vieni, ti mostro una cosa».
(Tre rampe di scale più su c’è la camera di Michetti. La testiera del letto è un lungo quadro illustrato: al centro, il bacio di un uomo e una donna)
«A sinistra c’è la mia vita prima di Liliana, a destra la sua prima di me. Al centro ci siamo noi due».
Che meraviglia. Insieme avete organizzato mostre in Italia, Svizzera, al Grand Palais di Parigi. Una gran bella carriera.
«Bella sì. Anche se da quando se n’è andata Liliana viaggio di meno. Però mi faccio venire a trovare da tutti».
Vedo, in studio è pieno di gente.
«Con un’eccezione: niente vecchi. Io i vecchi intorno non li voglio: stanno sempre lì a lamentarsi che gli fa male qualcosa. Ma che ti lamenti, dico io, sei vivo, goditela, no?».