Andrea Greco, Oggi 13/4/2016, 13 aprile 2016
SCANDALO PANAMA PAPERS
Milano, aprile
«A cosa servono i conti off shore? Ma che domande fa: sono come l’aspirina, servono a tutto». Il commercialista Gian Gaetano Bellavia, che da anni lavora solo come consulente per i magistrati inquirenti nei casi di riciclaggio, ride di gusto. Dobbiamo aspettare che riprenda il fiato per ricevere la prima lezione del corso intensivo di “fondamenti di evasione fiscale e lavaggio del denaro sporco nei paradisi fiscali”. «Guardi, iniziamo col distinguere per macrocategorie chi ha necessità di approfittare dei vantaggi che offrono le società off shore. C’è la grande criminalità organizzata, che ha tanti liquidi da trasformare in moneta di conto, cioè montagne di denaro da depositare senza dare nell’occhio e dover dare spiegazioni. Poi c’è, emergente, la criminalità finanziaria, ossia quella che vende strumenti di investimento fasulli e che poi vuole far sparire il tesoro. Ci sono le multinazionali, che spostano i profitti dove la tassazione è più bassa. Un’altra categoria è quella dei criminali, che devono nascondere i soldi frutto delle loro attività illecite. Pensi ai truffatori, ai rapinatori, ma anche e soprattutto ai politici corrotti. Infine, ma sono sempre di meno, ecco i pesci piccoli che vogliono evadere le tasse. Per usare una metafora: hanno obiettivi diversi, ma percorrono tutti la stessa autostrada».
Far passare i soldi da una tasca all’altra
Sono giorni che lo scandalo dei Panama Papers occupa le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, la fuga di notizie ha costretto il premier islandese alle dimissioni e messo all’angolo quello inglese David Cameron, che ha ammesso di aver avuto quote della società creata all’estero dal padre. Noi siamo pronti per la seconda lezione, questa volta pratica: «Di trucchi ce ne sono mille», premette Bellavia. «Ma visto che lei è un principiante le descrivo il più semplice. Immaginiamo che lei sia il titolare di un’aziendina che funziona alla grande: si chiama “Dolciumi Paradiso”. La percentuale di utili sui ricavi è alta, e lei è preoccupato perché gli utili in Italia sono molto tassati. Benissimo: le serve una società in un paradiso fiscale, che controllerà, magari attraverso un prestanome, ma che non sia ricollegabile a lei, così registra la “Sweet Paradise” con sede alle Virgin Islands. Questa società fatturerà alla sua italiana “Dolciumi Paradiso” servizi inesistenti. Così l’utile si abbassa e paga meno tasse. I soldi passeranno dalla sua società italiana alla “Sweet Paradise”, che è sempre sua. Insomma, passeranno da una tasca all’altra, ma degli stessi pantaloni. Ora lei si chiederà: “Bene, ma come faccio a spendermi questi soldi che ho così lontano e non posso riportare qui?”. Magari si compra uno yacht, che ha sempre desiderato, lo intesta alla “Sweet Paradise”, ma lo ormeggia a Portofino, con a poppa la bella bandiera delle Virgin Islands. Oppure, li può spendere serenamente facendosi rilasciare, dalla banca nella quale deposita i soldi della “Sweet Paradise”, una bella carta di credito platinum, ovviamente intestata alla società». Possibile sia tutto così facile? Gian Gaetano Bellavia sospira: «Certo che è facile: vuole una bella società off shore? Tac, pronti: va su Internet, digita “sfm-offshore”, per fare un esempio, e, dal sito, con 790 euro, apre la sua bella scatola vuota alle Seychelles, con tanto di conto bancario: in due giorni è registrata. Attenzione però: è facile, ma dire che sia sicuro è un’altro paio di maniche. Sa quanto soldi sono spariti nei paradisi fiscali, quanti sono rimasti fregati? Ci sono posti dove si possono registrare società anonime, con azioni al portatore, non c’è bisogno di contabilità... Ora, se lei è Putin, o la ’ndrangheta, o i narcos, di problemi ne avrà pochi, perché ci pensano due volte prima di farle sparire i soldi. Se lei invece è un Pinco Pallino qualunque, auguri!».
Una crepa nel mondo dell’off shore
Lasciamo per il momento Gian Gaetano Bellavia. A parlare ora è Stefania Boffano, una tributarista che insegna all’università Bocconi. A lei come prima cosa chiediamo se è troppo da complottisti pensare a una regia occulta, un disegno che leghi la fuga di notizie della lista Falciani dalle banche svizzere e quella dello studio Mossack Fonseca di questi giorni: «Di ipotesi su questo argomento, nel nostro ambiente, ce ne sono molte. Di certo c’è un’azione forte da parte della comunità internazionale per costringere i paradisi fiscali ad aprirsi e a scambiare informazioni e gli ultimi scandali stanno dando uno scossone. Da noi si è appena chiusa la voluntary disclosure, ovvero la possibilità, per chi aveva fondi nascosti all’estero, di farli emergere pagando solo una piccola sanzione. Scommettiamo che dopo questo scandalo dei Panama Papers il governo deciderà di riaprire la voluntary disclosure? Tenga conto che negli ultimi anni l’amministrazione Obama è stata abbastanza attiva su questo fronte, e Washington ha la forza per riuscire a cambiare le cose». Anche la funzionaria di un importante istituto di credito svizzero, che per ovvie ragioni preferisce restare anonima, conferma il giro di vite: «Ora per grandi banche come Ups o Credit Suisse, fare certe operazioni poco chiare è diventato impossibile. Negli ultimi anni le cose sono cambiate molto, e oggi i controlli sulla provenienza del denaro sono severi. Se si presenta qui qualcuno con dei contanti, un conto non può aprirlo: tutto deve essere tracciato. Negli istituti di credito più piccoli magari qualcuno che forza il sistema si trova ancora, ma diventa sempre più rischioso». Speriamo sia vero, ma il professor Gabriel Zucman, dell’università californiana di Berkeley, stima che 7.600 miliardi di dollari, l’8 per cento della ricchezza mondiale, siano nascosti in conti off shore. e che negli ultimi cinque anni questa ricchezza sia aumentata del 25 per cento.
Panama? la mente è a Roma, Milano, Lugano
Dopo questa breve digressione siamo pronti per la tornare da Gian Gaetano Bellavia, che non è molto ottimista sull’azione internazionale contro i paradisi fiscali: «Gli Stati Uniti vogliono che gli altri facciano quello che loro non sono disposti fare. Sono il più grande Stato off shore del pianeta: Delaware, Utah, Nevada… lì si può fare di tutto. È vero che in Svizzera ora è diventato complicato fare certe operazioni, ma si può sempre andare in Albania, Romania o Montenegro, con una valigetta di contanti, o nelle isole della Manica. Una cosa fino a oggi non è stata detta. Quelli dello studio di Panama erano solo dei passacarte. Le istruzioni sul da farsi arrivavano dai grandi specialisti di Milano, Roma o Lugano: commercialisti, avvocati d’affari, alti funzionari degli istituti bancari che sapevano dove mettere le mani, e cosa fare».
Arrivati a questo punto, siamo pronti per la terza e ultima lezione dell’esperto Bellavia. Che è brevissima, e piuttosto sconfortante: «Tenga bene a mente una cosa. Non si registrano società off shore se non si ha in mente qualcosa di poco pulito. Non c’è nessun altro motivo sensato per farlo».