Brunella Schisa, il venerdì 15/4/2016, 15 aprile 2016
INVECCHIO. MA NON È GRAVE
PARIGI. Il denaro per Daniel Auteuil non è un fine, lavora per guadagnarlo, vive per spenderlo. Pur essendo tra gli attori meglio pagati di Francia, il suo nome non figurerà mai nella lista degli uomini più ricchi. Lo dice con una sorta di orgoglio durante la nostra conversazione nella luminosa casa all’Île Saint-Louis. È dunque la magia del bravo attore che lo rende convincente anche in ruoli estranei alla sua personalità, come quello del direttore del Fondo Monetario Internazionale nel film di Roberto Andò Le confessioni, in sala il prossimo 21 aprile. Una piccola parte di enorme valore simbolico. Siamo alla vigilia di un G8 dove verrà adottata una misteriosa manovra lacrime e sangue per i Paesi più deboli.
«Io interpreto il direttore Daniel Roché, un manipolatore che decide i destini dei popoli. È il secondo film che faccio con Andò, questa è una commedia drammatica, non un film politico. Per interpretare il mio personaggio ho lavorato sul malessere privato dell’uomo». In effetti, Le confessioni non esprime giudizi morali né etici, è un film psicologico che galleggia in un’atmosfera di mistero, rafforzata dalla presenza di un corpo estraneo tra i grandi della Terra, un monaco, interpretato da Toni Servillo, invitato dal direttore Roché per raccogliere la sua confessione.
«La suspense deriva dalla presenza perturbante del monaco, è un film mistico sul denaro, parla di un mondo a me estraneo, di gente che fabbrica la ricchezza in modo virtuale. Nel film faccio finta di capire ma, in realtà, non capisco».
Sono le dieci del mattino, Auteuil ha recitato fino a tardi al Théâtre de Paris, dove ha messo in scena L’envers du decor, una commedia di Florian Zeller. Indossa jeans, un pullover color ciclamino, è spettinato e ha la barba non ancora fatta. Il teatro è la sua seconda pelle, la prima è il cinema, oltre ottanta film in quarantadue anni di carriera. In Italia ha conquistato le platee femminili nel ’92 con Un cuore in inverno, uno dei film più premiati in Europa, Venezia compresa.
«Non assomiglio neanche a quel personaggio: io piuttosto sono un cuore in estate, sempre sulla brace. È pur vero, però, che all’epoca stavo vivendo una separazione e il malessere personale ha contribuito a farmi entrare nel ruolo, e il regista Claude Sautet lo sapeva».
Faccio due conti. All’epoca Auteuil era ancora legato a Emmanuelle Béart, la protagonista del film, e da lei nel 1993 avrebbe avuto la figlia Nelly.
«L’inverno arriva comunque» dice l’attore sorridendo e strizzando gli occhi grigi. «Non sono però autorizzato a lamentarmi. Vivo circondato dalle mie due figlie, da mia moglie, da un bambino di sei anni e da due nipotine. Non voglio essere nostalgico. Ho avuto la fortuna di conoscere il vostro immenso Marcello Mastroianni, è stato lui a prepararmi a invecchiare, mi ha insegnato a deridere il tempo che passa. Agli inizi della carriera facevo un film ogni due anni, avevo la vanità di credere che i registi e i produttori sarebbero venuti a cercarmi, invece se ne fregavano. Ho capito a mie spese che dovevo essere presente mediaticamente e da allora sono passato da un ruolo a un altro. Ho fatto moltissimi film. Adoro recitare, sono nato per farlo».
Siamo in sala da pranzo, una stanza piuttosto spoglia, un lungo tavolo di legno con sedie in pelle rossa, sul camino tre giocattoli antichi e una scultura, le pareti sono nude, gli chiedo perché non siano esposti i quadri della giovane moglie Aude Ambroggi. «Abbiamo da poco ridipinto, ma sono in salotto, glieli mostro dopo». È un uomo appagato, i ventisette anni di differenza con l’artista corsa non gli pesano. «Mi sono sposato nel 2006 a cinquantacinque anni. Per la mia generazione il matrimonio non era contemplato. Vivevamo delle canzoni di Georges Brassens, cantavamo “Ho l’onore di non chiedere la tua mano”. Ho voluto sposarmi io e avere un figlio. Ridiventare padre a quasi sessant’anni non è proprio un coup de jeune. Sento l’età quando Zachary mi salta addosso o mi fa cadere dal divano». Non sta civettando. Né credo che menta quando dice di non essersi mai considerato un sex Symbol, sarà per il suo naso asimmetrico. «Mi sarebbe piaciuto, ma non l’ho mai creduto. Ero però perfettamente cosciente di avere tra le mie braccia le donne più belle e ne ho approfittato. La bellezza per me è una forma di genio».
In un film di Claude Berry del 1986, Manon delle sorgenti, recitò nella parte di un uomo che si innamorava della giovanissima Emanuelle Béart. Il trucco lo aveva reso un autentico mostro, perfino il gobbo Gerard Depardieu era più attraente di Auteuil, per non parlare del vecchio Yves Montand. L’aneddoto lo diverte ancora. «Emmanuelle andò negli Stati Uniti per promuovere il film. Alla domanda dei produttori “È fidanzata?”, lei rispondeva “Sì, con un attore che recita in questo film”. E quando diceva il mio nome quelli restavano di stucco».
Le secca invecchiare? «Molto, ma visto che non posso evitarlo voglio vivere a lungo. Adoro la vita. Ho mischiato tutto, ho lavorato, vissuto e amato. Anche se il tempo passa veloce mi sono ripromesso di non dire mai “era meglio prima”. Marcello un giorno mi ha raccontato un sogno rivelatore. Tornava a Cinecittà dopo una lunga assenza e tutti lo festeggiavano. Per entrare nel teatro di posa doveva però chinare la testa, la porta e il soffitto si erano abbassati. Il cinema si era rimpicciolito. È una bella storia sul tempo che passa. Anche per i grandi attori trovare buoni ruoli diventa sempre più complicato. L’ambizione di fare grandi film si ferma davanti a questioni economiche, il cinema adesso è nelle mani di gente che esce dalle scuole di commercio, le grandi produzioni sono fatte da produttori dell’est. Io dico alcuni no, ma pure molti sì. I film ormai arrivano non prodotti, un tempo era tutto deciso, sapevi quanti mesi duravano le riprese, ora il nome di un attore serve per trovare i soldi».
Nella sterminata filmografia di Auteuil non tutte le pellicole sono dei capolavori, e lui lo sa bene. «Mi imbarazzano alcuni film del passato in cui non mi riconosco fisicamente, ma non rinnego nulla. Le critiche però mi feriscono. Sono fragile, debole e soffro. Per fortuna poi relativizzo e vado avanti, cercando di rimanere fedele a me stesso, continuando a parlare della vita e dei sentimenti come ho sempre fatto».
Forse la domanda è banale ma mi chiedo sempre come un attore possa entrare e uscire da un personaggio, e chiedo ad Auteuil di Jean-Marc Faure, l’assassino dell’Avversario, il film di Nicole Garcia tratto dal libro di Emmanuel Carrère. «Qualche incubo durante la lavorazione l’ho avuto, ho cercato di trovare il lato umano di un uomo che ha ucciso la moglie, i figli e il cane. Il ruolo per me è sempre astratto. Se il film è ben scritto mi rimangono le emozioni delle riprese».
Nessun rimpianto? «Forse quello di avere sempre pensato che la vita professionale fosse eterna e di non essermi organizzato. Ho creduto nel lavoro e molto poco nei soldi, altrimenti adesso sarei ricco». Come è la pensione di un attore? «Piccola ma onorevole. Bisogna dire così quando si dà un’intervista a un giornale di sinistra, no?».
Auteuil ha rifiutato due volte la Legione d’Onore «la danno a cani e porci», ma è orgoglioso di avere ricevuto da François Mitterrand l’Ordre de merite: «sono vanitoso».
Mi accompagna alla porta. In salotto, in effetti, ci sono tre grandi quadri di Aude Ambroggi. Lui la chiama, «Aude! Aude...!». Deve essere uscita senza disturbare. Su un’altra parete c’è una stampa antica di Napoleone, uno dei tanti ruoli interpretati dall’attore. «Recitavo in italiano» ci tiene a sottolineare. Proprio all’ingresso mi mostra fiero la locandina incorniciata a giorno di La terra trema. «Adoro il cinema italiano, e soprattutto le vostre bellissime attrici».
Brunella Schisa