Dario Biagi, il venerdì 15/4/2016, 15 aprile 2016
L’ULTIMO SEGRETO DI GIAN CARLO FUSCO
Si faceva quasi vanto di aver «lasciato tracce maldestre», tali da depistare anche il più zelante degli esegeti. Gian Carlo Fusco (1915-1984), fuoriclasse del giornalismo di costume e della rievocazione storica e inarrivabile narratore orale, non viveva per scrivere. Non aveva l’ambizione di primeggiare in libreria; tantomeno, quella di restare. Non sapeva nemmeno amministrarsi come uomo. Amava fare lo showman a tempo pieno nella vita, dissipare i propri estri ogni notte fino all’alba in compagnia di altri nottambuli come lui, in particolare gangster di mezza tacca, pugili ed entraineuse, tra fumi di Gauloises e fiumi di Pernod e grappa. Tutti i suoi libri, da Le rose del Ventennio a Duri a Marsiglia, nascono da una committenza giornalistica o da un pungolo esterno; fosse stato per lui, non sarebbe andato oltre i reportage. Molte tracce del suo lavoro, poi, le nascondeva di proposito, specie in ambito cinematografico, da quando, nei primi anni 60, lasciato Il Giorno, dov’era una firma, s’era trasferito a Roma e dato in pasto al cinema con spirito da mercenario, sceneggiando a ritmi forsennati per De Laurentiis e Tinto Brass, ma anche per produttori di infimi B-movies. Ora sappiamo che occultava anche importanti tracce letterarie.
Fare i biografi di Fusco obbliga a un lavoro da segugi; ma talvolta si viene ricompensati. È questo il caso: ho appena scoperto il più grandioso dei suoi insabbiamenti. L’anonimo autore di La botta in testa, torrenziale autobiografia di Tiberio Mitri, pubblicata nel ’67 da un piccolo editore bolognese, Carroccio, è lui. Era evidente fin dall’inizio che un pugile come Mitri, bello e scapestrato, conteso da cinema e fotoromanzi tra un match e l’altro, non poteva aver scritto una biografia così raffinata, tutta giocata sull’uso del flashback e piena di riferimenti psicoanalitici. Da lustri i critici si arrovellavano attorno all’identità del ghost writer. Nel prefare la riedizione dell’opera nel 2006, Massimo Raffaeli, sancito che questo romanzo memoriale «non è solo una grande e terribile storia italiana ma costituisce anche un bell’esempio di scrittura anni Sessanta, scandita da un ritmo che simula l’oralità e le percussioni beat», avanzava l’ipotesi che ci fosse lo zampino di Massimo Ferretti, esponente del Gruppo 63, morto nel ’74. Emanuele Trevi propendeva, invece, per Fusco. Pur essendo il biografo di quest’ultimo, confesso di aver ignorato fino a poche settimane fa quel che ancora Raffaeli definiva «un piccolo caso di filologia e storia della letteratura italiana contemporanea». La pulce nell’orecchio me l’ha messa Tatti Sanguineti, il critico cinematografico, che, dopo il bellissimo omaggio a Sonego (Il cervello di Alberto Sordi), lavora a una monumentale biografia di Walter Chiari.
Ebbene, Chiari e Fusco erano amici e appartenenti alla stessa razza: narratori omerici, viveur incalliti, competenti di boxe (praticata da entrambi in gioventù) e intimi di grandi pugili come Garbelli e Mitri. Chiari confidò a Sanguineti che l’autobiografia di Mitri era uscita dalla penna di Fusco, e il critico-scrittore m’ha chiesto pezze d’appoggio. Gran parte dei testimoni di quell’epopea è ormai trapassata, ma mi è bastato interpellare la nipote del giornalista, Cinzia Ciampolini, figlia di sua sorella Franca, per trovare conferma alla leggenda. Cinzia aveva 18 anni nel ’66, quando Fusco stendeva le memorie di Mitri. «Certo che me ne ricordo» m’ha detto subito. «Lo zio ne parlava spesso quando veniva a trovarci e quando lo ospitavamo d’estate a Forte dei Marmi con Pasquale Prunas». All’epoca Fusco faceva coppia con Prunas; sfornavano soggetti per il cinema e format radiotelevisivi. Conferma indiretta dalla sorella di quest’ultimo. Renata («Ricordo benissimo che in quel periodo Gian Carlo raccontava molte sue storie con Mitri»), e dalla regista Giovanna Gagliardo, che nel ’66 curava a Roma con Fusco una rubrica del Giorno: «Ricordo che Gian Carlo parlava molto di boxe a quel tempo e che una volta lo incrociai in compagnia di Mitri».
Per chi conosca bene l’opera di Fusco, l’analisi testuale fa il resto, sgombrando il campo dalle residue incertezze. La botta in testa non può essere l’opera di un trentenne (tale sarebbe stata l’età di Ferretti, che peraltro risulta quasi agli antipodi, nello stile di quegli anni, della morbida e colloquiale scorrevolezza esibita in queste pagine). Si sente che è l’opera di un uomo maturo, che ha vissuto il fascismo e la guerra, il collegio, i campi di concentramento (il triestino Mitri passò da San Sabba, Fusco da un lager presso Hannover) e i casini (Fusco, autorità in materia, aveva da poco licenziato Quando l’Italia tollerava). Lo scrittore in incognito s’immedesima nel vissuto del pugile perché per molti versi rispecchia il suo. La boxe, le pupe, i gangster italoamericani. L’idea della botta in testa, una commozione cerebrale che, oltre alla memoria, potrebbe menomare la virilità, è molto cinematografica, oltre che profetica (Mitri s’ammalerà di Alzheimer e finirà tragicamente i propri giorni); ma il sigillo fuschiano affiora ancor più nettamente nello stile. Nel gusto del pastiche: «Cuore d’Oro tentennava perché aveva un’attività. A Tibbe’, io ci ho da badà ar negozio, mi disse, ma dato che la palestra è vicina, provamoce. Non balbettava, monosillabava». In tanti passi riecheggiano le gustose contaminazioni di slang di Broccolino e dialetto nostrano collaudate in Gli indesiderabili (1962): «Questo venditore aveva delle belle cosucce. Speack english, chiesi. Grag ula grag ula, rispose. Amen, chiuso, Proietti disse e girò i tacchi. L’altro l’agguantò per il braccio. Guagliò, parlamme a nostra lingua, ch’io songhe napulitano, disse. Gran popolo, gran popolo». Altrove si effondono già atmosfere e cadenze da milieu (l’ambiente malavitoso) marsigliese, tipiche di A Roma con Bubù e Duri a Marsiglia «Entrai in un negozio dove tre anni prima avevo conosciuto una bella commessa e avuto un affare amoroso. C’era ancora e mi disse ça va, amour. Ero sposato, avevo un figlio ed ero a Parigi con la scorta del suocero manager. Le risposi très bien, Ginette e mi comprai un cappello alla diplomatica». Né manca una bandierina segnaletica che solo Fusco poteva infilzare in questa prosa. Laddove, a proposito del presidente della federazione pugilistica, annota che «mangiava e beveva come nelle orge dei film di Mimmo Salvi». Qui Fusco svela le sue connessioni segrete: aveva piazzato il suo pupillo, il cantante Rick Rolando, il Bubù del romanzo, in due film-trash di Emimmo Salvi, per il quale aveva sceneggiato, oltre ai film dell’amico, una serie di ignobili peplum sotto pseudonimo (Benito Ilforte).
Il memoriale del pugile fu un fiasco. Ma perché Fusco, che pure aveva fatto un ottimo lavoro, si nascose? Prosaica anche qui la verità: «In quel periodo lavorava quasi solo in nero per sfuggire alle richieste di alimenti arretrati dell’ex moglie» spiega la nipote. Dopo cinque cause di fila, per non finire in carcere, dovette chiedere la grazia al presidente della Repubblica Leone.