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 2016  aprile 15 Venerdì calendario

LA LUNGA CORSA DI ABDUL


Le immagini spuntano da un angolo sperduto dei social network. Nel sole scintillante dell’estate coreana, Abdul che corre con i campioni del mezzofondo. Un trionfo di colori: il celeste della pista, il rosso, il verde e l’azzurro delle maglie, il bianco delle divise dei giudici di gara, il caleidoscopio degli spalti. Era il primo settembre del 2011 e nello stadio di Taegu si disputavano i Campionati del mondo di atletica. La semifinale dei cinquemila, senza grandi ambizioni per Abdul che era l’unico componente della nazionale somala ai campionati. Comunque era lì.
Oggi lui gareggia e si allena nel grigio della campagna inglese, a Hillingdon, una manciata di chilometri dal centro di Londra: fango, nuvole e vento. Pochi spettatori e tanto freddo. Ma non è il finale dickensiano di una storia triste. Anzi, è il grande riscatto di questo ragazzo somalo che si è dimostrato più forte delle mille guerre civili del corno d’Africa, dei trafficanti di uomini del Sahara e della Libia, degli aguzzini dei barconi, delle onde del Mediterraneo in tempesta.
La forza, o la fortuna, che non ha avuto Samia, anche lei somala, anche lei per un giorno sulla ribalta mondiale dell’atletica, addirittura le Olimpiadi di Pechino del 2008, ma poi inghiottita nella bara d’acqua del mare e celebrata nel bel libro di Giuseppe Scatozzella Non dirmi che hai paura. La fortuna che non ha avuto Yosif Aron, dal Sudan alla Liguria dove la vita sembrava aver cominciato a girare nel verso giusto, con la corsa e con il lavoro nel forno del paese. Poi la fine sotto le ruote di un Tir a Calais, mentre cercava il grande balzo verso Londra legato con una fune al camion. Per lui nessun libro, solo una foto alla mezza maratona di Genova.
Abdul (Abdishakur Nageeye Abdulle), invece, ce l’ha fatta. Dal sogno di quel pomeriggio di inizio settembre a Taegu, all’incubo della fuga verso l’Europa: la traversata del deserto, le botte nel carcere di Tripoli, la notte senza stelle in mare. Non è precipitato. Ha tenuto duro e ce l’ha fatta.
«Se dovessi disegnare i viaggi di un Marco che vive a Venezia o di una Charlotte che vive a Dusseldorf» ha detto la scrittrice di origine somala Igiaba Scego, «dovrei fare uno scarabocchio fitto fitto. Per chi viene dal sud del mondo, invece, il viaggio è una linea retta. Una linea che ti costringe ad andare avanti e mai indietro». Abdul oggi ha ventitré anni, a diciassette si allenava nelle strade e nella polverosa pista di Mogadiscio. Racconta che ogni volta che attraversava la città correndo, la polizia lo fermava pensando fosse un kamikaze.
Nel 2011 l’avventura dei mondiali, unico rappresentante della nazionale somala, con la partecipazione alla semifinale dei cinquemila, la stessa dell’italiano Daniele Meucci: il video della gara mostra Abdul che parte veloce, rimane nei giri iniziali con il plotoncino dei primi, la falcata fluida e lo sguardo quasi incredulo di essere lì in mezzo ai campioni, poi scivola inesorabilmente nelle retrovie e chiude al sedicesimo posto. «In Corea sono andato da solo, non avevo neanche l’allenatore. Mi hanno aiutato gli atleti somali che gareggiavano per altre nazionali».
Abdul si convince di avere un futuro da runner, ma capisce anche che se vuole coltivare il suo sogno non può rimanere nella disastrata Somalia. Progetta il viaggio verso l’Europa e se ne va da casa dopo aver raccolto i mille dollari necessari. L’interminabile traversata del deserto in una jeep stipata di migranti, l’arrivo a Tripoli, la permanenza in un centro di detenzione libico dove subisce ogni genere di sopruso, il viaggio a bordo di uno dei barconi stracarichi di uomini donne e bambini, l’approdo a Siracusa e poi il Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Bari. Siamo nel 2013, in Puglia inizia la nuova vita di Abdul: diventa amico di un altro ragazzo che ha la sua stessa passione per la corsa, l’eritreo Hitsa Mussie, e insieme passano l’immenso vuoto dell’attesa allenandosi lungo il perimetro interno del Cara. Hanno scarpe e vestiti approssimativi, ma corrono leggeri come il vento. Un ritmo che non passa inosservato agli occhi di tre poliziotti con l’hobby del podismo in servizio nel Centro: Francesco Leone, Francesco Martino e Donato Venturo diventano la nuova famiglia dei due ragazzi. Come sarà qualche anno dopo con Ali Drama, un runner ventiduenne del Mali sbarcato anche lui da un barcone di disperati. Un po’ coach e un po’ genitori. Scarpe e maglie tecniche, le gare in giro per la Puglia, gli incubi africani sempre più lontani. I tre poliziotti sono gli angeli talent scout del Cara. «Big father», «big brother»: i ragazzi li chiamano così.
A inizio 2014 Hitsa parte per la Svizzera con in tasca un permesso di soggiorno di cinque anni come rifugiato; Abdul si trasferisce in Umbria, a Todi, ospite della Caritas e anche lui con un permesso di tre anni per protezione umanitaria. II sogno della corsa continua, con gli allenamenti nell’impianto di Pontenaia e i consigli del nuovo coach Matteo Natili: «Abdul ha le qualità del runner, ma ha bisogno di maggiore disciplina negli allenamenti e nella tattica di gara. Parte sempre molto veloce, poi ha difficoltà ad amministrarsi».
Magari in quello scatto c’è il ricordo inconscio della fuga, della «linea che ti costringe ad andare avanti e mai indietro». Come un segno indelebile nel dna. La linea retta che ha portato Abdul fino a Londra, dove adesso vive e si allena inserito nella comunità somala di Hillingdon. Corre per l’Hillingdon Athletic Club, una società con un passato glorioso: per dire, nel palmarès fanno bello sfoggio le prime medaglie d’oro olimpiche conquistate nella storia da un atleta del Regno Unito (Charles Bennett, vincitore dei 1.500 e dei 5.000 ai Giochi di Parigi del 1900). Sul profilo Facebook di Abdul, che ancora fatica a parlare l’inglese e ha quasi dimenticato il poco italiano appreso a Bari e a Todi, ci sono decine di fotografie e di video delle sue gare in Inghilterra, soprattutto corse campestri dove duella con rubicondi podisti britannici. Poi le immagini del gruppo di amici somali di Hillingdon, del suo allenatore Ugas Ibrahim Hamud, delle sue squadre del cuore: l’Heegan Football Club di Mogadiscio e il Liverpool. In un post c’è la foto della premiazione di una gara: «Il primo grazie è ad Allah» scrive Abdul, «il secondo al mio coach e ai miei grandi amici Maxamed e Fahad». Spunta anche qualche immagine del glorioso pomeriggio di inizio settembre nello stadio coreano, con tutti i colori del sogno. Forse, tra qualche tempo, anche la linea retta di Abdul si trasformerà in un felice scarabocchio.
Marco Patucchi