Omero Ciai, il venerdì 15/4/2016, 15 aprile 2016
LA CADUTA DI DILMA
SAN PAOLO. In questa capitale industriale e finanziaria del Brasile, la cacciata di Dilma Rousseff dal palazzo di Pianalto a Brasilia e dalla presidenza, l’hanno presa molto sul serio. Basta avvicinarsi alla sede della Fiesp, sull’Avenida Paulista, per notare il fervore con il quale la Confindustria di San Paolo segue l’evoluzione della crisi politica che divide il Paese. Hanno comprato pagine di pubblicità sui giornali inneggiando all’impeachment e finanziato la produzione di centinaia di paperi gialli, curioso simbolo delle proteste anti-governo. Dall’altra parte del grande viale, che per la concentrazione delle sedi di banche, istituti finanziari e negozi chic, è conosciuto come la Fifth Avenue brasiliana, ci sono gli universitari che sostengono l’inchiesta Lava jato del procuratore Sergio Moro, accampati da settimane nelle tende. Creano slogan, scrivono petizioni e convocano cortei. Con un milione di posti di lavoro persi in pochi mesi e 4mila aziende medio-piccole chiuse, lo Stato di San Paolo è anche quello che sta pagando il prezzo più alto per l’improvviso declino della settima potenza industriale del mondo. La recessione del Brasile è a meno 4,5 per cento del Pil in un anno e i suoi bond del debito vengono trattati come titoli-spazzatura dalle grandi agenzie di rating internazionali. E poi c’è il disastro Petrobras e l’inchiesta che ha scoperchiato il più grande scandalo di malaffare fra commesse pubbliche, aziende private e tangenti ai partiti. Un disagio generale che ha finito per travolgere l’immagine di Dilma Rousseff, presidente rieletta appena un anno e mezzo fa.
Comunque vada a finire il voto del Parlamento sulla sua destituzione, Dilma ha due problemi. Il primo è perdere la votazione, e diventare dopo Collor de Mello il secondo capo di Stato che ha subito un impeachment. Ma il secondo e forse ancora peggiore: governare fino al 2018 in minoranza e con l’80 per cento dell’opinione pubblica che la vorrebbe cacciare perché la ritiene complice degli scandali e incapace di affrontare la crisi economica. Il movente della richiesta di impeachment è debole: l’opposizione l’accusa di aver ritoccato i numeri del bilancio statale per nascondere il disastro che s’avvicinava. E su questa fragilità giuridica gioca ora tutta la campagna del governo sulla legittimità dell’eventuale destituzione che – è il pensiero di chi la difende – sarebbe nient’altro che «un Golpe». Una rottura costituzionale capace di gettare il Brasile in una crisi ancora più violenta e incerta di quella che sta vivendo. Peccato che, rileva un analista raffinato come Carlos Pagni, la maggioranza dei brasiliani non attribuisce la caduta di Dilma a «formalità di tesoreria, pensano che vada destituita perché è corrotta o, come minimo, perché è incapace». D’altra parte, sul ruolo del suo partito, il Pt (partito dei lavoratori) fondato da Lula negli anni Ottanta quando in Brasile c’era una dittatura militare, nel complesso sistema di tangenti che ha trasferito milioni di dollari dalle commesse pubbliche alle casse della politica attraverso Petrobras (e non solo), c’è poco da discutere. Due tesorieri del partito già condannati, capigruppo ai domiciliari, ex ministri inguaiati. E Dilma, che è stata anche presidente del Consiglio d’amministrazione della holding petrolifera nazionale fino al 2010, «non poteva non sapere». Certo, contro Dilma alla giustizia manca la prova regina, quella che la lega con qualche evidenza alla corruzione, ma difendersi sostenendo che tutti, anche l’opposizione che l’assedia, sono corrotti, non è il massimo. Per questo, un giornale autorevole come la Folha ha invitato la presidente a rassegnare le dimissioni e risparmiare al Paese la spirale di una stagnazione politica e economica che, a meno di quattro mesi dalle Olimpiadi di Rio de Janeiro, rischia di distruggere quel poco di credibilità che resta nell’immagine internazionale del Brasile.
Ma Dilma Rousseff non ha alcuna intenzione di dimettersi. Anzi, la vera novità delle ultime settimane è che non è più isolata. Dopo mesi di litigi e incomprensioni, Lula – inseguito anche lui dai giudici dell’inchiesta Petrobras – è tornato in campo con tutto quel che resta del suo carisma nazionale per difenderla e impedirne la caduta in una battaglia finale nella quale sembra ormai essere in gioco anche la sopravvivenza politica della sinistra in Brasile. Per rattoppare i suoi rapporti con l’ex presidente, Dilma ha prima allontanato il ministro liberal dell’economia che aveva scelto all’inizio del secondo mandato (gennaio 2015) per rasserenare i poteri forti, quel Joaquim Levy che doveva riaggiustare i conti. Poi ha invitato lo stesso Lula a tornare nel governo. Dilma presidente sotto scorta insomma, con il suo principale mentore che prende in mano la nave nella burrasca che può affondarli tutti. La confusione è grande sotto il cielo anche perché il Parlamento di una nazione federale, e immensa come il Brasile, è un patchwork quasi ingovernabile con 25 partiti, molti dei quali, espressione di forze locali, piccoli e piccolissimi. Per ottenere l’impeachment della presidente servono i due terzi dei voti, sono 342. E la seduta della votazione, che può durare anche tre giorni, s’annuncia infernale con la sede del Parlamento a Brasilia accerchiata da cortei contrapposti di manifestanti a favore e contro Dilma. I numeri sono un rebus. Anche tra i partiti che ancora appoggiano la presidente ci sono molti deputati che vogliono votarle contro. Ma, al rovescio, tra quelli che vogliono destituirla ci sono onorevoli dubbiosi sulla costituzionalità del sistema prescelto per liberarsi di Dilma.
Sulle tende dell’Avenida Paulista, tra gli universitari indiavolati figli della buona borghesia locale, c’è un cartello che dice: «Il popolo ha votato un sogno, ma ha eletto un incubo». E l’incubo potrebbe non aver fine. Se Dilma cade, assume Michel Temer, un politico centrista, leader del maggior alleato governativo del Pt negli ultimi dieci anni, che gli ha appena voltato le spalle ammaliato dalla prospettiva di entrare a Planalto. Ma anche Temer rischia una procedura di impeachment per le stesse ragioni di Dilma: dov’era infatti quando si faceva il maquillage al bilancio dello Stato? E, dopo Temer, secondo la Costituzione, toccherebbe a un certo Eduardo Cunha, chiacchieratissimo e diabolico presidente del Parlamento, legato ai movimenti evangelici e sotto inchiesta per conti correnti nascosti nelle banche svizzere e in paradisi offshore. L’ultimo duello sul corpo malandato di un Paese smarrito è appena cominciato.