Riccardo Paradisi, Il dubbio 15/4/2016, 15 aprile 2016
LE EMINENZE GRIGIE CHE CAMBIARONO LA STORIA DEL MONDO
Felpato, discreto, schivo, quasi invisibile: Gianroberto Casaleggio rispondeva all’identikit tipico dell’eminenza grigia, un mix calibrato di idealità e pragmatismo, visione strategica e abilità tattica, l’ambizione da imperatore d’anime che spesso hanno gli introversi ma visionari. Il movimento Cinque stelle, che bene o male è la creatura politica più innovativa degli ultimi anni nella politica italiana – in grado di scuoterne assetti e automatismi – è nato da una sua idea. Arringato da Beppe Grillo e coordinato da un direttorio, il movimento – come lo chiamano i suoi adepti – è anzitutto un suo format, una sua forma pensiero prima disegnata nel silenzio e poi incarnata nella realtà. E anche la cultura dei Cinquestelle, il loro ethos, i loro tic e i loro tabù, sono gli stessi che Casaleggio ha versato nell’immaginario della rete plasmando un soggetto collettivo nato con la fine della seconda repubblica, antipolitico per umore e digitale per vocazione.
Ma di Casaleggio come abbiamo letto in questi giorni di commemorazioni sappiamo già molto, ormai quasi tutto, leggende e dietrologie comprese. Come quella che sarebbe stato immancabilmente un massone e un agente della Cia. C’è anche chi ha scritto sul web che la sua morte sarebbe una messa in scena. Perché poi il potere discreto chiama sempre i sospetti e favorisce le dietrologie e i complottismi. Suscita sentimenti religiosi. In Italia poi, terra di lunga tradizione machiavellica e poteri stranieri, la fantasia è capace di scatenarsi come in un romanzo gotico. Ma l’invisibilità di Casaleggio è stata niente rispetto ad altre eminenze grigie della Storia, quella con la S maiuscola. Ci sono personaggi che hanno determinato il corso degli eventi mondiali ma che per la stragrande maggioranza non sono mai esistiti. A riprova del fatto che, come diceva Disraeli, i veri protagonisti della scena visibile non sono quasi mai gli uomini di potere che agiscono sotto i riflettori dei media e dell’opinione pubblica. E non per chissà quali disegni o complotti. Spesso è il caso a portare le eminenze grigie al loro ruolo vocazionale, a disporre la filiera di cause, effetti che li faranno trovare al posto giusto nel momento giusto. Il caso o l’astuzia della ragione, come Hegel chiamava quella provvidenza che secondo lui agiva nella storia.
Per gli annali Janos Forgach – alzi la mano chi questo gli dice qualcosa – è stato apparentemente solo un anonimo funzionario del ministero degli Esteri dell’impero austro-ungarico. Un diplomatico come ce c’erano tanti a Vienna. Sì Forgach aveva avuto una carriera decorosa, a tratti anche brillante, anche se accidentata da uno scandalo che gli costò un piccolo esilio punitivo, ma avrebbe concluso i suoi giorni senza lasciare un segno negli eventi se non avesse incrociato la Storia e se la Storia non avesse incrociato lui. Se non fosse accaduto insomma che nel 1912 divenne ministro degli Esteri dello stato austro ungarico il conte Berchtold, suo amico d’infanzia e suo grande estimatore. Tanto da promuoverlo alla Sezione Politica del ministero e da farne il suo confidente segreto e intimo consigliere. Forgach rimase sempre nell’ombra, discreto, invisibile: ma il suo potere era più grande di quello dell’imperatore perché il suo pensiero e la sua parola erano il corridoio d’accesso diretto all’orecchio del ministro degli Esteri in un momento in cui era quello il fronte decisionale della politica austroungarica. E così nella crisi con la Serbia del luglio 1914, dopo che per mesi e anni in lunghi colloqui aveva persuaso Berchtold della necessità di liquidare la questione del nazionalismo con energia, fu proprio Forgach a convincere Berchtold e questi a sua volta il vertice dello Stato, che solo un atto di forza preventivo contro gli indipendentisti avrebbe potuto evitare la dissoluzione dell’impero. Il resto è storia nota: la guerra che doveva restare secondo i calcoli di Forgach circoscritta nei Balcani diventò la prima guerra mondiale.
L’azione discreta, profonda e continua: questo è il metodo dell’eminenza grigia. Emile Cioran una volta ha detto che il potere religioso è infinitamente superiore a quello politico. Perché quello politico si limita a controllare i corpi e le azioni degli uomini ma quello religioso tiene i fili della loro coscienza, dà metrica e ritmo alla loro intelligenza. Grigorij Efimovic Rasputin entrò nelle grazie della corte dei Romanov nella Russia alla vigilia della rivoluzione grazie alla sua fama di taumaturgo: i reali si erano convinti che solo lui avrebbe potuto curare il figlio dello zar affetto da emofilia. Il figlio dello zar guarisce, il monaco assicura grazie alle sue preghiere. È questo il varco con cui Rasputin conquista il suo ascendente su Nicola II e sulla zarina Alessandra. I suoi suggerimenti, le sue visioni cominciano ad essere ascoltati con l’attenzione che si riserva agli oracoli e Rasputin comincia a influenzare le scelte politiche dello Zar. Suscitando la gelosia dell’aristocrazia di corte e della polizia segreta, che ordiranno la congiura in cui il monaco verrà ucciso. Prima avvelenato e poi finito a colpi di pistola e gettato nella Neva. Per anni circolerà la leggenda che il suo corpo dopo due giorni era riemerso dalle acque come fatto miracoloso e sinistro presagio dell’imminente fine della Russia zarista. In realtà i sicari avevano dimenticato di appesantire il cadavere con delle pietre e la Neva era ghiacciata.
Nel 1941 Aldous Huxley pubblicò L’eminenza grigia: uno studio tra religione e politica. Un saggio dedicato a François Leclerc du Tremblay provinciale dei cappuccini di Tourraine e consigliere del Cardinal Richelieu. Figura resa leggendaria da Dumas nella sua saga dei tre moschettieri – l’espressione eminenza grigia deriva dal colore del saio che Trembaly indossava. Aristocratico, fattosi monaco con il nome di Giuseppe François Leclerc du Tremblay, fu chiamato a servire alla segreteria del cardinale Richelieu, l’eminenza rossa del gabinetto di Luigi XII e suo primo ministro. Fu proprio Richelieu a riorganizzare l’amministrazione statale del regno a risolvere – dosando diplomazia e ferocia – il problema degli ugonotti e a ripristinare il ruolo della Francia in chiave antiasburica appoggiando all’estero quei protestanti che aveva perseguitato in patria. Ma se era Richelieu a suonare la musica con cui ballavano il sovrano e la Francia a scrivere lo spartito di quella composizione era l’abate Trembaly. Dopo essere entrato a servizi di Richelieu nel 1616 il monaco ne diventò il più fidato consigliere e confessore: l’eminenza grigia appunto. Nel suo saggio Huxley coglieva perfettamente l’eccezionalità paradigmatica dell’eminenza grigia nella figura di Tremblay, calato nel secolo più politico della storia moderna, quel 600 di intrighi, barocchismi, “dissimulazioni oneste”: la vita come teatro e rappresentazione.
È quell’autonomia del politico scollegato dalla morale teorizzato da Machiavelli nel Principe, dove però il potere mantiene per calcolo e per natura propria l’aura del sacro anche quando è totalmente desacralizzato. Sarà Carl Schmitt a dire che ogni potere è sempre teologia secolarizzata. E infatti nel libro di Huxley avvincente come un romanzo ma scientifico come un trattato – i temi fondamentali sono il rapporto tra la politica e la ragion di Stato e soprattutto il potere inteso quale mistero di natura religiosa. Nel 1635 Richelieu spinse la Francia nella Guerra dei trent’anni, ma non fece in tempo a seguirne gli esiti. Lasciò la sua eredità al suo successore Mazarino assieme al ruolo di tessitore e regista delle sorti di Francia e d’Europa. Ma la stessa nomina di Mazarino fu a sua volta il frutto di un lungo paziente e ostinato lavoro svolto dietro le quinte. Negli anni 1637 e 1638 Richelieu fece ripetute richieste presso il papa Urbano VIII perché nominasse Mazarino nunzio ordinario alla corte di Francia. Malgrado le resistenze spagnole Richelieu la ebbe vinta e Mazarino fu nominato nunzio a Parigi e, il 18 dicembre 1638, dopo la morte di Padre Joseph du Tremblay Luigi XIII chiese che gli venisse concesso il titolo cardinalizio. Lo ottenne due anni dopo – malgrado non fosse un prete anche se aveva studiato dai gesuiti – poco prima di diventare a sua volta Primo ministro del re. Fino alla sua morte, come lo era stato prima di lui Richelieu, Mazarino fu l’arbitro assoluto della politica francese: rafforzando ulteriormente l’autorità monarchica e ridimensionando sempre di più il predominio asburgico sull’Europa. Il cardinale perseguiva, con gli stessi metodi di Richelieu – suaviter in modo fortiter in re – il disegno geopolitico che aveva contemplato calato nel suo cappuccio proprio du Tremblay.
Non c’è seria riflessione sui fondamenti e del potere e dell’autorità politica nel mondo moderno che possa prescindere dall’indagare mentalità e metodi delle eminenze grigie o rosse della corte di Francia del 600. Ordine mondiale di Henry Kissinger (pubblicato due anni fa in Italia da Mondadori) è un saggio sulla politica internazionale del secolo appena nato, ma per guardare ai vettori presenti e futuri della geopolitica l’ex segretario di stato americano prende a prestito lo sguardo di Richelieu, di Mazarino, di Tremblay: citati con il rispetto che si deve a dei superiori di una stessa religione. Consigliere di Nixon, Kissinger è stato una delle più influenti eminenze grigie del Novecento. È stato lui a rimodulare sotto la presidenza Nixon le linee strategiche della stagione di Kennedy cercando l’exit strategy dal Vietnam. Ma soprattutto sarà lui a gettare i fondamenti del multipolarismo contemporaneo favorendo la graduale distensione tra Stati Uniti e Unione sovietica attraverso l’apertura alla Cina di Mao. Nixon non amava Kissinger lo riteneva un fighetto di Harward, uno di quegli odiosi intellettuali con la puzza sotto il naso e la giacca di tweed che lui era fiero di disprezzare. Ma di Kissinger Duke teneva in somma considerazione l’intelligenza e la visione politica. E Kissinger sapeva come prendere il suo uomo, come valicare il muro di incomunicabilità che Nixon erigeva con tutti: per diffidenza e insicurezza. «La mia influenza dipendeva dal rapporto che avevo instaurato con lui – rivelerà Kissinger in un’intervista di qualche anno fa con Niall Ferguson – lo chiamavo 10 volte al giorno e lo incontravo ogni volta che potevo. Passavamo molto tempo a conversare con ardore».
«Un’anguilla più fredda del ghiaccio» definì Kissinger Oriana Fallaci, dopo la sua intervista del 1972. L’anno scorso Ferguson ha pubblicato la prima parte di una monumentale biografia. Ne esce una figura controversa, mossa dalla visione di un mondo democratico e pacificato ma capace di tattiche rettilari come il bombardamento segreto ordinato su suo suggerimento da Nixon in Cambogia per piegare le postazioni di supporto vietnamite. La biografia si intitola The idealist, (edita da Penguin, Usa) anche se l’autore non tace la tesi di chi sostiene addirittura che Kissinger tramò durante la campagna elettorale del 1968 per far fallire i negoziati di pace in Vietnam Johnson così da non avvantaggiare il democratico Humphrey nel testa a testa per la Casa Bianca con Nixon. Naturalmente c’è anche chi sostiene che Kissinger sia ancora oggi il grande vecchio della spectre, l’eminenza grigia del club Bildenberg. Un massone naturalmente, e un agente della Cia. Come Casaleggio...