Lavinia Farnese, Vanity Fair 13/4/2016, 13 aprile 2016
IL PRINCIPE FELICE. INTERVISTA AD ANTONIO FOLLETTO
Quando nasci a Napoli e poi vai via, tornarci da protagonista di Gomorra 2 dev’essere proprio quello che Antonio Folletto, nella sua gioventù classe 1988, definisce nei termini «una figata».
Immaginatevi un ragazzo di 28 anni cresciuto a Viareggio, con occhi che però s’accendono nel dialetto di casa («Da piccolo con il nonno guardavo in televisione Totò e Massimo Troisi»), diventare «’O Principe» nella seconda stagione di quella serie Sky sulla camorra che, partita da un romanzo di Roberto Saviano, è diventata un cult dall’Italia in oltre 130 Paesi.
«Il bello del Principe è che ha una posizione prestigiosa, di potere, nel clan fa sì che le cose accadano senza però mai compierle lui personalmente. Conosce il valore del denaro: sa, cioè, che i soldi possono mettere a posto situazioni altrimenti impossibili da sistemare. È un sanguinario strategico: non impugnerà mai una pistola».
Che cosa significa per lei questo ruolo?
«Anche se in famiglia non abbiamo scelto di avere quella “carriera”, chiamiamola così, le mie origini sono lì. Io sapevo cos’era Scampia, ma non c’ero mai stato. Una volta sul set, mi è bastato lo sguardo di un bambino, vedere come si muovono quelle persone, respirare da dentro “il sistema”: è stata un’esperienza di pancia sconosciuta».
Le mancava la sua città?
«Mi sono allontanato che avevo solo 5 anni. Però tornavo spesso per i nonni, a Natale, d’estate, per le feste, e scoprivo che qualche mio amico nel frattempo aveva preso quella strada. La camorra non è Napoli ma – purtroppo, e se senti altri per fortuna – offre ancora a tanti da mangiare. Io non giudico: mi metto nei panni di chi non ha potuto scegliere. Se fossi rimasto lì, non so che cosa sarei diventato».
Perché siete andati via?
«Non è stata una fuga da qualcosa o da qualcuno. È stata una scelta di mia madre. Conosceva Viareggio, le piaceva, ci stava bene. Anche se in cucina continuava a parlarmi napoletano, che Eduardo De Filippo lo diceva: è il colore delle parole».
Sa perché è diventato attore?
«A scuola ero un disastro, sono stato bocciato due volte, recitare mi veniva meglio, e così ho iniziato in un teatro di provincia, lo Jenco. Poi mi sono trasferito a Roma. Quando mi hanno preso all’Accademia Silvio D’Amico ho fatto le capriole in piazza Santa Maria in Trastevere per quattro ore: la gente pensava avessi vinto al Superenalotto».
Che cosa la stupisce del suo lavoro?
«Me lo immaginavo superficiale. Non pensavo gli dovessi dare così tanto. E invece chiede tutto. Non ci si può risparmiare».
Da chi ha preso in famiglia?
«Nessuno ha velleità artistiche: non c’è tra noi un doppiatore, un musicista. Mia mamma lavora con i ragazzi disabili o gli anziani in cura. Ma forse c’entra suo padre, mio nonno. Era povero e vendeva quello che gli capitava. Con tecnica d’artista».
Sarebbe?
«Da bambino lo immaginavo sempre con una sacca sulle spalle piena di maschere. Avrebbe tirato fuori quella che più gli sarebbe servita per persuadere l’altro. Recitando molto, ha venduto altrettanto, potendosi permettere 4 figli e 10 nipoti. Ora lui non c’è più, ma ogni giorno, nelle 17 ore del set di Gomorra, finito il cestino scappavo a mangiare i piatti seri da mia nonna».
E suo padre?
«Non l’ho conosciuto, è morto prima che arrivassi. Mia madre era incinta di 6 mesi. È guardandola che ho imparato a non mollare mai, a crederci sempre: pure se sbatti i denti per terra e ti entrano nel cervello. Pure se la vita ti deforma il percorso. Io mi ricordo sempre con lei: quando sul vespino rosa mi portava a scuola, le ore passate insieme sul divano. Sono un fottuto mammone. Abbiamo vissuto a lungo da soli, proprio come due innamorati. Finché non è arrivata un’altra fidanzata: mia sorella, che oggi ha 17 anni».
Ce n’è anche una vera, di fidanzata?
«Sì, una che c’è cascata c’è. E felicemente. Almeno per me. Spero anche per lei».
In Gomorra 2 s’intrecceranno patti di fedeltà, tradimenti.
«Le regole dei clan non sono poi così diverse da quelle che nella vita ci detta la nostra coscienza. Ognuno ha il proprio codice d’onore. Io la vedo così: se sei fedele, lo sei innanzitutto con te stesso; se tradisci, idem. Differiamo dai criminali perché, quando ci guardiamo allo specchio, non ci sentiamo giusti se operiamo nel male».
Lei quando si guarda cosa vede?
«Non si contano le volte in cui vedo un piccolo Principe o anche un non-Principe: spesso ho sbagliato, non ho saputo essere chiaro».
Non si sente mai Principe?
«Sì. Quando faccio qualcosa di buono senza accorgermene, se non dall’espressione dell’altro. Sono un tipo all’antica: amo lo scambio, il calore, il faccia a faccia».
Per questo non è sui social?
«Non saprei come usarli: “Guardate come mangio questo panino”?, “Vi piaccio mentre leggo questo copione”?. Che senso c’è? La verità è che vedo i miei amici perderci un sacco di tempo. E io il mio non ho voglia di darlo a una tastiera».