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 2016  aprile 13 Mercoledì calendario

BUFALE DELLE PAMPAS


Anche tu vivi nella Casa Rosada delle notizie?
Non so se sia vera, anzi probabilmente è falsa, ma è una di quelle storie argentine piene di specchi in cui la verità si riflette nella bugia, il plausibile nell’esagerato, la cronaca nell’imprecisabile, finché non sai più dove ti trovi e la realtà si sfalda come in un racconto di Borges o Cortázar. A me la raccontò di notte una ragazza argentina, Cecilia – pronuncia “Sesilia” – che veniva da un piccolo paese sperduto della Pampa sconfinata, General La Madrid. C’era un presidente di nome Hipólito Yrigoyen – e poi ho controllato, è esistito davvero un presidente argentino che si chiamava Juan Hipólito del Sagrado Corazón de Jesús Yrigoyen Alem, ed era uno importante, il fondatore del Partito radicale, uno che ancora oggi ha un suo istituto di studi – e questo presidente argentino di nome Hipólito Yrigoyen – pronuncia “Irigosgen” – fu eletto due volte – ed è vero che fu eletto due volte, nel 1916 e nel 1928 – solo che la seconda volta aveva quasi ottant’anni ed era così malconcio che non ci stava più tanto con la testa, forse, o forse ci stava perfettamente, non so, fatto sta che in quella sua testa con cui non ci stava tanto o forse no, non so, si fece strada l’idea di attuare riforme inaudite in favore dei poveri, e una mattina si alzava e ordinava di confiscare il latifondo e restituire le terre ai contadini, e il giorno dopo decideva di sciogliere le forze armate, oppure di sospendere gli aiuti statali alla Chiesa o ancora di abolire la proprietà privata. I suoi ministri e generali e consiglieri non sapevano più cosa fare, perché non potevano certo eseguire i suoi propositi folli, ma nemmeno disubbidirgli o destituirlo, non era il caso di fare un altro colpo di Stato. Si andò avanti così per mesi, accampando scuse e rimandando, finché a uno – non conosco il suo nome, Cecilia non me lo disse – venne l’idea.
“Il presidente ormai è troppo vecchio, non esce mai dalla Casa Rosada”, disse. “E allora?”, chiesero gli altri. “E allora non può verificare se facciamo quello che ci chiede di fare”, rispose quello che aveva avuto l’idea. “Sì, va be’, ma il presidente i giornali li legge, e prima o poi se ne accorge”, risposero gli altri. “Certo che i giornali li legge”, disse quello, “e infatti noi ogni giorno gliene stamperemo di falsi, e in prima pagina avranno le sue riforme, come se fossero state attuate”. E così fecero: furono assunti giornalisti ubbidienti e fu comperata una tipografia segreta, e ogni giorno fu scritta e stampata apposta per lui un’unica copia – falsa – di tutti i più importanti quotidiani argentini. L’anziano presidente visse felice i suoi ultimi anni rinchiuso nel palazzo presidenziale rosa – e ho controllato, è vero che gli nascondevano le notizie, ma è anche vero che la vigilia di Natale del 1929 sfuggì a un attentato e che il 6 settembre 1930 fu deposto da un golpe del generale José Félix Uriburu – a immaginare un’Argentina che non esisteva e non sarebbe mai stata.
Oggi siamo tutti un po’ Yrigoyen. Le notizie sono così tante, insistenti e gratuite che ognuno può scegliere quelle che gli piacciono di più, rinchiusi nella Casa Rosada dei propri gusti e convinzioni. Si riceve la versione del mondo che si desidera sentire. In alcuni casi la scelta è consapevole, più o meno, in molti altri deriva da quello che hanno deciso per noi i programmatori degli algoritmi di Facebook e Twitter e Instagram, che da qualche mese non organizzano più le notizie secondo un ordine cronologico cioè secondo la novità, che è l’unico criterio possibile quando si parla di notizie – ma in base a un calcolo matematico ed economico dei nostri interessi. È l’ultimo passo in un lungo processo: si frantuma l’idea che alla base della pluralità delle voci e dei giudizi diversi ci sia una verità dei fatti che vale per tutti. L’esistenza di una verità oggettiva garantisce l’esistenza di un’opinione pubblica e la pratica del confronto, e quindi fonda la democrazia. È una trasformazione che non riguarda solo i social network, ma l’informazione nel suo complesso, a cominciare dai giornali tradizionali che anzi – nella loro rincorsa ad assecondare gli istinti del pubblico e gli interessi degli editori – ne sono i maggiori responsabili.

Quello che accade con internet è che le storie si moltiplicano e l’attenzione si sbriciola. La prima conseguenza è che la battaglia per l’attenzione diventa più violenta e istantanea. Catturare l’interesse è questione di un attimo. I titoli diventano sempre più esagerati perché è con i titoli che si aggancia il lettore, e il linguaggio più stereotipato ed elementare, perché per non annoiare chi legge è fondamentale non chiedergli sforzi. La seconda conseguenza è che la vastità dell’informazione, invece di permettere la verifica dei fatti, dà la possibilità a chiunque di annidarsi nel racconto del mondo che vuole ascoltare, rafforzandosi nella propria voglia di credere alle scie chimiche, alla dieta del dottor Mozzi o alla pericolosità dei vaccini, alla buona volontà o disonestà di un politico. Ma se distinguere tra vero e falso è più complicato, la colpa non è solo di chi fa informazione. È anche di come funziona la nostra attenzione, è del nostro bisogno di indignazione, pettegolezzo e zizzania. È della comodità di ricevere versioni semplificate di realtà complesse, come facevano i generali con il vecchio Yrigoyen. Il termine “bufala” deriva dalla docilità con cui le bufale seguono chi tira l’anello che hanno attaccato al naso.

I giornalisti ripetono spesso un proverbio. Lo fanno ridacchiando, per autoassolversi: “Non lasciare mai che la verità ti rovini una bella storia”. Molto prima che internet arrivasse a moltiplicare le bufale, le cronache dei giornali erano infestate di reportage dal campo di battaglia scritti in camera d’albergo, di inviati speciali che inventavano impunemente generali d’armata inesistenti, si sbizzarrivano con dichiarazioni non fatte, solo per conquistare l’attenzione di lettori, affamati di storie. Chi scrive sa che il falso è più divertente ed elastico del vero. Per questo è uno degli ingredienti fondamentali del racconto del mondo da molto prima che esistessero i giornali. I falsi ci sono già in Erodoto e la Naturalis Historia di Plinio è piena di mostri marini, tritoni che suonano conchiglie, sirene dal “corpo ispido di squame” e pesciolini che si attaccano alla carena delle navi per rallentarne la corsa. Quanto a Omero, il meno che si possa dire è che per la storia del tallone di Achille non avesse verificato le fonti. Anche tra i cantastorie era pieno di mitomani. Il rapporto con la verità dell’informazione, però, è più delicato, perché la sua funzione storica fu proprio stabilire i fatti, cercando di tenerli separati dalle opinioni, non limitarsi a riempire il vuoto di storie. Non è un caso se i grandi giornali sono cresciuti insieme alla democrazia.

Per reazione – o meglio, per legittima difesa – negli ultimi anni, anche in Italia, resiste e si rafforza anche un bisogno di verità. Tra i nuovi compiti dell’informazione ci sono il debunking non più dare notizie, ma smentire quelle false – e un’attenzione al linguaggio che prima non c’era. Le bufale non sono l’unica forma di bugia: per falsificare la realtà basta scegliere le parole adatte in modo da ingigantire, esagerare, indebolire, storpiare un nome per ridicolizzare una persona, spaventare, aizzare. Karl Kraus, che detestava i giornalisti, scrisse cent’anni fa: “Si profila l’angosciosa questione se il giornalismo, a cui si danno tacitamente in pasto le opere migliori, non abbia corrotto anche per i tempi futuri la sensibilità per l’arte del linguaggio”. Al posto di “arte” si può usare “artigianato”, “igiene”, perfino “educazione”. Ma senza un linguaggio minimo condiviso, ognuno rimarrà prigioniero, come Yrigoyen.