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 2016  aprile 09 Sabato calendario

E A RIETI DIVENTÒ FAUSTO COPPI


Oggi, quando torna a Reggio Emilia – e lo fa abbastanza spesso – per strada lo salutano come si fa con un vecchio amico, una comune conoscenza, uno di famiglia. Insomma, col più classico “ciao, Kobe!” «Per la gente sono soltanto il figlio di Joe. Nessuno mi ha mai chiamato Black Mamba, il soprannome che mi hanno dato in America». Perché, se negli States si è consacrato fuoriclasse, è in Italia, dove è stato tra il 1984 e il 1991, dai 6 ai 13 anni, al seguito del padre insieme al resto della famiglia (mamma Pamela e le sorelle Shaya e Sharia), che Kobe Bryant ha mosso i primi passi da giocatore di basket. Per la verità, a Rieti, tappa d’esordio italiana di Joe, già campione nella Nba, all’inizio il piccolo Kobe si muoveva sul parquet imitando più che altro i ballerini di breakdance. Questo negli intervalli delle partite; invece, durante la settimana, lontano dagli occhi divertiti del pubblico, si fermava in palestra a fine allenamento a tirare col padre. Italo Di Fazi, dirigente reatino, si divertì a storpiargli il nome di battesimo; “Coppi, finiscila con quel pallone”. Così, Kobe diventò per tutti Fausto Coppi. Alla Sebastiani, Joe Bryant rimase due anni; suo figlio ne approfittò per imparare ad amare la cucina locale. Fu più avanti, fra Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia soprattutto, che il bambino cominciò invece a mostrare di che cosa era davvero capace con la palla a spicchi.
A Reggio Calabria, tra il primo e il secondo tempo, faceva numeri da one man show che mandavano in visibilio il pubblico. A Pistoia, quando aveva 10 anni, realizzò in una partita 63 punti. A Reggio Emilia giocava con quelli di un anno più grandi e vinceva i tornei da solo. Forse proprio perché la Pallacanestro Reggiana è stata l’ultima squadra italiana del papà, a Reggio e all’Emilia Kobe è rimasto particolarmente legato. «È anche la città che ricordo meglio perché l’ho lasciata quando ormai avevo 13 anni», ha raccontato a SportWeek in un’intervista di qualche anno fa. «Logico che i ricordi siano più nitidi. In Italia vengo quasi ogni estate, e una scappata a Reggio la faccio sempre. Mi piace rivedere la mia vecchia scuola e gli amici coi quali ho condiviso tante partite al campetto. Usciamo a mangiare una pizza, facciamo un giro in centro. In quei momenti torno a essere uno di loro. Durante l’anno, però, i contatti col gruppo li tiene mia sorella Sharia».
Dell’Italia Kobe conserva la conoscenza della lingua («La alleno parlandola con le mie sorelle. E le mie figlie, Natalia Diamante e Maria Onore, la stanno imparando perché sono consapevoli che un pezzo della storia del loro papà è stata scritta qui»), la passione per il calcio («Ho anche provato a giocarlo, ma coi piedi sono scarsissimo. Tifo Milan e, se si parla di Liga, per il Barcellona»), e per un certo tipo di cinema («Amo i film di Fantozzi»), la guida spericolata («Veloce, a zig zag. Sto sempre a sorpassare. E prendo multe») e, in generale, un carattere «passionale, frenetico, energico». E furbo: «Da bambino mi facevo registrare le partite della Nba da papà perché i miei non mi permettevano di restare alzato fino a tardi a guardarle. Al mattino, prima di andare a scuola, mi facevo dire il risultato e poi in classe scommettevo coi compagni su quale squadra avesse vinto».
Cinque anni fa, quando il campionato professionistico americano era fermo a causa della serrata decisa dai proprietari delle franchigie, si favoleggiò di uno sbarco di Kobe nella nostra Serie A, a Bologna o a Milano. Ovviamente, la Nba ripartì e non se ne fece niente. Come, a meno di improbabili colpi di scena, non si farà niente del progetto dello stesso giocatore di chiudere la carriera da noi, in segno di amore e riconoscenza verso il Paese che lo ha cresciuto. Non è tramontata, al contrario, l’idea di prendere casa in Italia. «Il problema», disse a SportWeek, «è che non ho deciso dove: ci sono talmente tanti posti belli. Quelli che amo di più? Roma e Capri».