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 2016  aprile 09 Sabato calendario

IMPUTATO BRYANT SI ALZI


Kobe Bryant si commuove ancora una volta. Sul tabellone dell’ultima Arena dove i suoi Lakers hanno giocato, scorre un filmato vintage delle sue gesta: l’ennesimo tributo alla sua grandezza. Gli è successo spesso di commuoversi in questi mesi dopo l’annuncio del ritiro. In ogni città avversaria è scattato il Farewall Tour, come lo definiscono qui: ogni gara, un addio. Ripetitivo, struggente. Le telecamere, impietose, hanno indugiato sui suoi occhi umidi e scoperto il lato buono di Kobe. Non più il duro, prepotente e presuntuoso del glorioso ventennio, ma l’anima intenerita di chi deve tirare una riga sul passato e ricominciare da capo. «Quando sei giovane ti senti invulnerabile, pensi che non ti accadrà mai niente. Poi Madre Natura un giorno ti presenta il conto e sei costretto a tornare con i piedi per terra», ha detto con la voce incrinata a metà febbraio dopo il suo ultimo All Star Game. È un’immagine distorta. Distante da quella degli anni d’oro di Los Angeles, quando Kobe si accanì contro Shaquille O’Neal e, nonostante avesse vinto assieme a lui tre anelli, ne pretese la testa e l’allontanamento dalla California. Gli argomenti della feroce disputa, mai rimasta nel chiuso dello spogliatoio, riguardavano supremazia e leadership: una questione di ego. Il suo è smisurato. Kobe è il ragazzino di 18 anni che si appoggia alla ringhiera di una tribuna del Madison Square Garden poche ore prima del debutto nel Tempio dello sport e fissa a occhi spalancati per molti minuti il mitico parquet. Sogna ciò che vorrà diventare a ogni costo (e diventerà) e, quando il cronista gli si rivolge in italiano, lui lo snobba rispondendo in inglese. Come se quel suo recente passato fuori dagli Usa fosse un segnale di debolezza. David Lasman, suo compagno di squadra al Lower Merion, il liceo di Philadelphia frequentato a metà degli Anni 90, ricorda: «Nei viaggi in autobus si vantava che se avesse incrociato Michael Jordan in campo, MJ non sarebbe stato capace di fermarlo».
È l’arroganza che lo renderà antipaticissimo (oltre che fortissimo) e che nel 2003, all’apice della carriera, lo metterà nei guai seri. Durante quell’estate, un’impiegata dell’hotel La Cordillera, vicino a Vail, Colorado, lo denuncia per stupro. Quando arriva nel piccolo tribunale di Eagle per le prime udienze, elegantissimo nei suoi completi griffati, ha lo sguardo preoccupato, ma non ha perso il ghigno esuberante. Davanti ai microfoni della marea di giornalisti ammette il rapporto sessuale, ma non la violenza. Spiega che l’unico crimine commesso è aver tradito la moglie, cui chiede pubblicamente scusa (regalandole un diamante viola di 8 carati del valore di 4 milioni di dollari...). Ma la sua immagine appare incrinata: alcuni sponsor come McDonald’s e Nutella fuggono. La Nike, che gli aveva appena rinnovato il contratto (per 45 milioni di dollari), sceglie l’attesa ed evita di mandare in onda gli spot con i suoi cameo. In fondo, non c’è stato ancora un verdetto. Quello lo emettono le arene nelle quali Bryant si presenta regolarmente in maglia giallo-viola, perché non abbassa la guardia e continua a giocare. Gli gridano: rapist, stupratore. Ci vuole un anno perché il caso si risolva. La credibilità della ragazza traballa, sembra abbia avuto rapporti intimi con più uomini nelle ore prima e dopo l’incontro con Kobe. Rifiuterà di testimoniare e il processo penale non si concluderà mai. Poi in sede civile verrà trovato con la “vittima” un accordo economico (mai reso noto) che spazzerà tutto sotto il tappeto. Il tempo farà il resto e la gente, poco a poco, dimenticherà.
Ora ci sono i racconti di chi l’ha conosciuto quando era solo un teenager un po’ arrabbiato. Al suo professore d’inglese alla Lower Marion, John Osipowicz, a distanza di più di vent’anni è rimasto in testa un tema di quel ragazzino così intelligente: «Scriveva di una partita immaginaria in cui una squadra all’ultimo secondo era sotto di un punto e il protagonista falliva entrambi i tiri dalla lunetta. Me ne sono ricordato anni dopo vedendolo indossare sempre i panni del vincente». Forse era il modo di esorcizzare la paura di perdere, quella che lo faceva travestire da odioso bastardo. Come alle finali del 2001 contro la sua Philadelphia in cui minacciò i tifosi che lo fischiavano: «Vi strapperò il cuore dal petto», disse. La città lo ha perdonato solo qualche mese fa. Anche se ora confessa: «È a Philly che ho forgiato quel carattere da duro. Perché fin da ragazzino su questi playground di casa non c’è stata partita di basket in cui io non abbia fatto trash-talking con i miei avversari di giornata».
Ora, i campioni di oggi e di domani lo riveriscono come fosse un monumento e gli raccontano come li abbia ispirati quando accendevano la tv e lo vedevano mitragliare il canestro. «Le storie di questi ragazzi mi rendono orgoglioso, perché so che sono sinceri e ascoltarli mi fa sentire bene». Ha improvvisamente abbassato le difese, ha tolto la corazza: forse lo ha ammorbidito l’ombra della mediocrità. Non più l’invincibile Kobe, ma finalmente più umano.
Massimo Lopes Pegna