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 2016  aprile 09 Sabato calendario

NIKE SCEGLIE IRVING E CURRY GLI FA LE SCARPE


È l’estate del 2013 e Stephen Curry ha finito il suo quarto anno nella Nba. Finora, una media di 19,2 punti e di 6,1 assist a partita non è bastata per portarlo all’All-Star Game o nel quintetto All-Nba. In febbraio, al Madison Square Garden, ha avuto una di quelle serate che non gli sono ancora automaticamente associate: 54 punti con 11 su 13 da 3, una delle più grandi clinic di tiro nella storia del gioco. Si è già guadagnato il soprannome di “assassino con la faccia da bambino” ed è già operativo il sodalizio con Klay Thompson: il 22 dicembre 2012, in un tweet all’intervallo della partita con i Charlotte Bobcats, Brian Witt, un giornalista del sito dei Warriors, si è inventato l’appellativo di Splash Brothers. Ma nessuno ha idea di quello che sta per diventare.
Nemmeno la Nike. Ce l’ha nel suo portafoglio-atleti fin da prima ancora di metterlo sotto contratto. Greg Brink, il suo padrino, lavorava con l’azienda dello Swoosh e gli regalava le scarpe da basket. Quando Curry è entrato nel draft 2009, preso al n. 7 dai Warriors, la Nike lo ha legato a sé con un accordo quadriennale per una cifra imprecisata. Ma comunque spiccioli in un mercato che fattura oltre 20 miliardi di dollari all’anno. Adesso è arrivato il momento di rinnovarlo.
L’azienda di Beaverton, Oregon, dimostra un interesse modesto. Ha sotto contratto il 74 e rotti per cento dei giocatori della Nba e ha costruito la sua fortuna su Michael Jordan, il fondatore di una dinastia proseguita con Kobe Bryant e LeBron James. Della nuova generazione punta su Kyrie Irving, la point guard scelta al n. 1 del draft 2011 dai Cleveland Cavaliers, e Anthony Davis, l’ala forte/centro prima scelta dei New Orleans Pelicans l’anno dopo. Irving ricopre lo stesso ruolo di Curry e una delle regole del marketing delle scarpe da basket è che “si può vendere solo il personaggio”. MJ era unico, come Kobe e LeBron. Puntare su più d’uno rischia di confondere il messaggio.
Così, nell’estate 2013, la Nike non organizza a Curry un camp per i migliori giocatori dei licei, come invece fa per gli altri due. Poi, all’appuntamento con il padre di Stephen, Dell, manda un peso relativamente leggero come Nico Harrison, all’epoca direttore marketing. La presentazione dell’offerta è pasticciata: uno dello staff lo chiama “Stephon”; su una slide di PowerPoint compare il nome di Kevin Durant. Quando alla fine si parla di soldi, la proposta è 2,5 milioni di dollari l’anno.
Dell torna a casa e dice a suo figlio: «Non aver paura di provare qualcosa di diverso». Steph si guarda attorno, come ha imparato a fare da quando voleva andare a Virginia Tech, si sentì dire «Ti invitiamo per una prova» e finì a Davidson. Under Armour gli offre poco meno di 4 milioni l’anno. La Nike ha diritto di pareggiare l’offerta, ma rinuncia. Nel secondo trimestre 2015, quando Curry è nominato Mvp e vince le finali Nba, le vendite delle scarpe da basket Under Armour aumentano del 754% (avete letto bene). La UA fattura 3 miliardi contro i 28 di Nike. Ma, secondo un’analisi di Morgan Stanley, il fenomeno Curry può far raddoppiare in un paio d’anni la sua capitalizzazione, 14 miliardi nel 2015. E, se dovesse diventare un’icona planetaria come MJ, perfino il ruolo dominante di Nike sarebbe incrinato. Tutto per non aver voluto pareggiare un’offerta che valeva solo qualche dollaro in più.