Alec Cordolcini, Guerin Sportivo 5/2016, 13 aprile 2016
FIABA A LIETO FINE
Rispetto a quello del Mondiale, l’albo d’oro dell’Europeo presenta più sorprese, con le “intruse’’ Danimarca (1992) e Grecia (2004) in mezzo a Nazionali dal blasone maggiore. Tra danesi e greci, la palma di sorpresa delle sorprese va ai primi per due ragioni: all’Europeo parteciparono da ripescati, e soprattutto lo fecero senza la loro stella Micheal Laudrup, uno dei più forti giocatori mai espressi dal calcio danese. La Danimarca sembrava inoltre essersi giocata l’occasione della vita sei anni prima in Messico, quando la Nazionale nota come Danish Dynamite, un concentrato di qualità, talento e atletismo (basti pensare a giocatori quali Preben Elkjær, Søren Lerby, Frank Arnesen, Morten Olsen e al già citato Laudrup) che nei Paesi di modesta tradizione calcistica capita una volta nella storia, si era schiantata agli ottavi contro la Spagna, dopo aver fatto faville nella fase eliminatoria. Una selezione che, complici i limiti anagrafici di alcuni big e un delicato ricambio generazionale, non era riuscita a qualificarsi né a Italia ’90 né, appunto, al successivo Europeo del 1992. Quello che poi avrebbe vinto.
Manico di ripiego
Richard Møller Nielsen era considerato dalla Federcalcio danese (DBU) un buon “manico”, ma nulla più. Allenatore serio, preparato (due titoli in patria con l’Odense), privo però del quid necessario per guidare in prima persona la Nazionale, dove aveva lavorato per anni come vice del tedesco Sepp Piontek, l’uomo che aveva plasmato la Danish Dynamite. Ma non solo: Piontek aveva guidato il calcio danese fuori da un dilettantismo che non riguardava solamente i giocatori (diventati pro in Danimarca solo nel 1978), ma investiva una vasta serie di ambiti, da quello gestionale e organizzativo a quello tecnico-tattico. Dopo l’addio di Piontek, la DBU voleva un altro Ct tedesco e lo aveva individuato in Horst Wohlers del Bayer Uerdingen, ma il club bloccò tutto. Ci si dovette quindi accontentare di Møller Nielsen, anche perché incombevano le qualificazioni a Euro 92, nelle quali la strada, dopo un facile esordio contro le Isole Får Øer, si era fatta subito in salita, con pareggio a Belfast contro l’Irlanda del Nord e sconfitta casalinga contro la Jugoslavia. Le successive cinque vittorie consecutive non furono sufficienti per riprendersi la testa del girone.
Michael Laudrup rinuncia
Møller Nielsen aveva un problema: Micheal Laudrup. I due erano tatticamente agli antipodi, con il Ct che prediligeva un gioco di rimessa, lasciando volentieri la palla agli avversari per poi cercare di colpirli con rapidi contropiedi. Laudrup, per contro, era abituato a una concezione di calcio totalmente diversa, creativa, offensiva, e stava facendo faville nel Barcellona di Cruijff. Proprio il citato pareggio a Belfast aveva definitivamente incrinato le relazioni tra i due, con Møller Nielsen che aveva sostituito entrambi i fratelli Laudrup, una mossa paragonabile in Danimarca a quella che fece Claudio Ranieri in un derby romano dell’aprile 2010, quando tolse dal campo Totti e De Rossi. Poco dopo, Laudrup comunicò il suo addio alla Nazionale (in realtà rientrerà tre anni dopo). «A 25 anni avevo già accumulato oltre 60 presenze» ricorderà il giocatore in seguito, «tutti i big si erano ritirati ed ero consapevole di rappresentare per tutti il punto di riferimento. Ma non ero d’accordo sul modo in cui giocava la Danimarca e come potevo essere il faro della squadra, se non condividevo il progetto alla base? Mi è spiaciuto parecchio non partecipare a quella grande impresa, ma se tornassi indietro rifarei la stessa scelta».
Ciao Iugoslavia
Il 31 maggio 1992 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU emanò la risoluzione n. 757, che decretava l’embargo contro la federazione jugoslava, la sospensione degli scambi scientifici, tecnici e culturali nonché l’esclusione dalla partecipazione a manifestazioni sportive. Mancavano dieci giorni al fischio di inizio dell’Europeo e per coprire il buco la UEFA contattò la Danimarca. Il mito creato attorno all’impresa degli scandinavi narrò di giocatori richiamati in fretta e furia dalle vacanze, chi perso in qualche isoletta nel mezzo dell’Oceano Pacifico ad abbrustolirsi sotto il sole, altri impegnati a tracannare birra in qualche chalet in mezzo ai boschi. Non è andata propriamente così, come ricordato da Kim Vilfort. «Non vivevamo in un universo parallelo, sapevamo cosa stava succedendo alla Jugoslavia e alcuni di noi parlavano di ripescaggio. Il 3 giugno, inoltre, c’era in programma un’amichevole con la CSI (Comunità degli Stati Indipendenti, così si chiamava all’epoca ciò che rimaneva dell’URSS, ndr), in preparazione del loro Europeo».
Di necessità virtù
Lontana dall’odierna bulimia di partecipanti, la formula dell’Europeo svedese del ’92 prevedeva due gironi da quattro squadre. Assente l’Italia, eliminata nelle qualificazioni dalla CSI, le favorite erano Germania e Olanda, rispettivamente Campione del Mondo e d’Europa in carica, con la Francia guidata da Michel Platini quale principale outsider. La Danimarca iniziò come da pronostico, con un punto nelle prime due partite (0-0 contro l’Inghilterra, 0-1 contro la Svezia), poi si sbloccò a sorpresa contro una Francia assurdamente rinunciataria (a Papin e compagni bastava il pareggio), vincendo 2-1. La prima rete fu firmata da Henrik Larsen, flop in A nel Pisa di Mircea Lucescu stagione 1990-91, in gol due volte anche nella semifinale contro l’Olanda, dove si manifestò tutto il carattere degli uomini di Møller Nielsen. Incassato il 2-2 di Frank Rijkaard a pochi minuti dalla fine dopo aver perso l’ottimo terzino sinistro Henrik Andersen (ginocchio finito in frantumi per uno scontro con Marco Van Basten), con il morale fiaccato da una vittoria vista svanire a un passo dal traguardo e altri due difensori (John Sivebæk e Lars Olsen) finiti ko per infortunio ma costretti a rimanere in campo (il Ct li mise entrambi in attacco e piazzò la punta Flemming Povlsen al centro della difesa), i danesi resistettero per tutti i supplementari grazie alle parate di Peter Schmeichel. Il portierone, passato l’estate precedente al Manchester United, si superò anche dal dischetto, neutralizzando il rigore di Van Basten, mentre i danesi segnarono tutti.
Una lacrima sul viso
L’ultimo atto, all’Ullevi di Göteborg, andò in scena contro la Germania di Berti Vogts, arrivata in finale senza mai convincere del tutto. E continuò a non farlo anche grazie al proprio Ct, che decise di lasciare in panchina Mathias Sammer, l’elemento che garantiva equilibrio e ordine alla squadra. I danesi vinsero grazie alle reti di John Jensen e Vilfort. Il primo era noto, specialmente dai tifosi dell’Arsenal, per il suo scarso feeling con la porta avversaria, tanto che quando ruppe il ghiaccio con i Gunners alla presenza numero 98, ad Higbury iniziarono a circolare magliette con la scritta “I saw John Jensen score”. Vilfort, invece, aveva vissuto l’Europeo facendo la spola tra la Svezia e l’ospedale dove la figlia Line, 8 anni, lottava contro una grave forma di leucemia (sarebbe morta qualche settimana più tardi). Toccò proprio a lui chiudere il match. Lui che, come ha scritto Nicola Roggero nel suo “L’importante è perdere”, quella sera a Göteborg c’era solo con il proprio piede, perché il resto era a casa, «vicino a un dramma di fronte al quale nessun tiro conta qualcosa [...]». Una fiaba a lieto fine solo in campo, perché «in cielo, adesso, c’è una stella che questa fiaba se la fa sempre raccontare, per sapere quanto è stato bravo papà insieme ai suoi amici, quella volta».
Alec Cordolcini