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 2016  aprile 11 Lunedì calendario

L’ITALIA, MINI-POTENZA PETROLIFERA. UN TESORO DA UN MILIARDO DI BARILI

All’Expo di Parigi del 1878 non ci si stupì solo per la Tour Eiffel ma per le ampolline di petrolio portate fin lì dagli industriali lucani. In Basilicata gli "affioramenti" di greggio erano così cospicui che nella seconda guerra mondiale ci si rifornivano i camion della Wermacht. Intanto a Lettomanoppello sulle pendici della Maiella si scavavano rocce asfaltiche così consistenti che servirono da base per i cobblestone di Londra. Senza scomodare Plinio il Vecchio, che racconta che a Girgenti (Sicilia) usavano l’oleum per le lucerne, quando il 13 giugno 1949 Enrico Mattei annunciò il giacimento di Cortemaggiore il petrolio italiano aveva già una lunga storia, proseguita con alterne vicende fino ai giorni di Gianluca Gemelli e delle trivelle, che rischiano di fermare l’avventura.
Sarebbe imperdonabile: "Con le moderne tecnologie di prospezione, stime prudenziali indicano in un miliardo di barili le riserve accertate nel sottosuolo italiano, di cui 600 milioni in Basilicata", spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. Un tesoro nascosto da più di 40 miliardi alle quotazioni attuali. "Certo, l’Arabia Saudita ha 340 miliardi di barili di riserve e la Libia 48, ma il Regno Unito ne ha per 3 miliardi di barili e la Norvegia 6, i due Paesi petroliferi d’Europa: una distanza non abissale". L’Italia potenza petrolifera? "Di sicuro erano programmati già da due anni 16 miliardi di investimenti di compagnie internazionali, ma con tutte le incertezze delle ultime settimane molti sono stati annullati", spiega Pietro Cavanna, presidente della sezione idrocarburi di Assomineraria. "La Shell ha spostato altrove un importante investimento di ricerca che voleva realizzare nel golfo di Taranto, l’irlandese Petroceltic ha rinunciato a quelli al largo del Gargano che pure erano oltre le 12 miglia".
Oltre al petrolio c’è il gas: nel complesso in Italia sono in vigore 201 concessioni, per un totale di 894 pozzi in produzione (695 estraggono metano e 199 petrolio). "Ci sono poi 7000 vecchi pozzi chiusi o mai sfruttati", puntualizza Tabarelli. Dei pozzi in esercizio, 532 sono sulla terraferma e 362 in mare. Di questi ultimi, 250 sono sotto 92 piattaforme entro le 12 miglia, interessate al referendum del 17 aprile. Se vincerà la linea referendaria delle nove regioni che l’hanno promosso, non ci sarà che attendere la scadenza delle rispettive concessioni (in media due-tre anni) e poi chiuderli. "Si rischia di lasciare piombati sotto il fondo del mare almeno 6 miliardi di euro in idrocarburi, il valore di una finanziaria", commenta Carlo Andrea Bollino, presidente dell’Aiee (Associazione italiana degli economisti dell’energia). Se invece prevarrà la linea del governo, che aveva annunciato in autunno l’intenzione di valorizzare al massimo le risorse energetiche nazionali, le concessioni dureranno fino all’esaurimento del giacimento senza necessità di rinnovo, come accade su terra o fuori le 12 miglia (dove il regime resterà lo stesso).
L’unica certezza è che di nuove trivellazioni non ne verranno più fatte, come ha stabilito la legge di Stabilità 2016 proprio nel tentativo di evitare il referendum. Si apre in ogni caso un ampio fronte di incertezze: che ne sarà, per esempio, del campo Vega delle Edison nel canale di Sicilia, avviato nel lontano 1956, misto gas-petrolio, che giace in parte entro e in parte fuori le 12 miglia? L’incertezza ammanta lo scacchiere energetico proprio nel momento, l’inizio del 2016, in cui per la prima volta la produzione interna di idrocarburi ha raggiunto il 10% del fabbisogno nazionale. In Italia infatti – i dati sono del ministero dello Sviluppo – sono stati prodotti l’anno scorso 5,4 milioni di tonnellate di petrolio su 59 milioni di consumo. Significa 110mila barili al giorno, dei quali 75mila in Basilicata (pari a 3,75 milioni di tonnellate cui si aggiungono 1,49 miliardi di metri cubi di metano), quasi tutti nei 26 pozzi della Val d’Agri. È questo il più grande giacimento dell’Europa continentale (la concessione è 60% Eni e 40% Shell).
I pozzi afferiscono al celebre "Centro Oli" di Viggiano, dove il petrolio viene "ripulito" e quindi smistato via oleodotto verso Taranto. Quando (e se) verrà aperto il famigerato giacimento di Tempa Rossa (55% Total, 35% Shell e 10% Mitsui), dove le trivellazioni sono finite e sono stati costruiti finora 6 pozzi su 10, la produzione potrebbe impennarsi di altri 50mila barili (e 230mila metri cubi di gas), sempre che venga risolto il pasticcio con la Regione, che aveva posto a 100mila barili il limite alle estrazioni in Basilicata ma era stata bypassata con l’emendamento della discordia, quello Renzi-Boschi-Guidi nella Stabilità. Ormai minima è invece la produzione nella limitrofa Val Basento, dove tutta la storia di questo Oklahoma d’Italia era cominciata nel 1961, quando Mattei e Fanfani posero la prima pietra dello stabilimento.
Altri pozzi a terra di qualche rilievo sono a S.Anna e Gela in Sicilia (entrambi con una produzione di circa 8mila barili al giorno), mentre ormai in via di esaurimento sono giacimenti come Trecate in Piemonte (700 barili al giorno) o Mirandola vicino Modena (480 barili), e qualche goccia esce ancora da Caviaga in Val Padana, il pozzo la cui scoperta nel 1953 convinse definitivamente Mattei a non liquidare l’Agip (e a trasformarla in Eni). Per quanto riguarda il gas naturale, l’estrazione domestica è stata di 6,88 miliardi di metri cubi su 65 di consumo, da una lunga teoria di piattaforme fra Ravenna, l’Abruzzo, la Puglia adriatica, lo Ionio, il canale di Sicilia. Solo nel Tirreno le perforazioni sono ritenute non interessanti e dal 2013 espressamente vietate.
"Fra petrolio e gas, la produzione italiana, in percentuale sul fabbisogno, potrebbe benissimo raddoppiare entro pochissimi anni se solo ci fosse una forte volontà politica a spingere queste produzioni, che potrebbero in più dare un contributo molto marcato alla ripresa degli investimenti in Italia nel complesso", dice Bollino. Il quale invita anche a considerare che parallelamente prosegue la marcia delle rinnovabili, arrivate ormai al 20% dello scenario energetico nazionale (compreso però il 12% di idroelettrico), e in grado di raggiungere il 27% previsto entro il 2035 dalla ultime direttive comunitarie, il tutto in vista di un progressivo affrancamento da sceicchi e oligarchi vari. In termini economici, l’incasso totale degli idrocarburi made in Italy è stato di 3,4 miliardi di euro su 34 di bolletta energetica complessiva. Sono tutti valori in forte ribasso rispetto agli anni precedenti per i corsi calanti del greggio (la media del prezzo nel 2015 è stata di 52 dollari al barile e di 0,22 dollari per metro cubo di gas). Basta pensare che nel 2011 la bolletta sfiorava i 75 miliardi, mentre peraltro i consumi erano nettamente più bassi. Si sono ripresi con lentezza, ma nel 2015, il che è considerato dagli analisti un indicatore di modica ripresa, il consumo di gas (compresi tutti gli usi, da quelli domestici a quello di generazione elettrica) è cresciuto del 9,1% e quello di petrolio (anche qui, dalle auto alle industrie) del 3,6%.
Ma quanto resta in Italia del valore estratto, considerando che il petrolio è in parte riesportato per tre quarti e il gas invece destinato per intero al consumo interno? "Ci sono innanzitutto le royalty", spiega Cavanna. "Queste sono del 10% del valore del gas estratto in mare e del 7% del petrolio, sempre off shore. Per quanto estratto a terra, invece, la quota è fissa al 10%. Sono valori alti: pensi che in Gran Bretagna e in Norvegia le royalty nel 2000 sono state portate a zero". Del restante 90%, i calcoli stavolta sono di Nomisma Energia, circa la metà in media viene assorbito dalla compagnia per i costi, dalla ricerca al personale fino agli ammortamenti, e l’ultimo 45% costituisce il margine lordo. Su questo si calcolano le tasse, che sono assai pesanti, fino al 60 e più per cento. "Si può calcolare in 1,2-1,3 miliardi l’ammontare versato l’anno scorso al fisco italiano", dice Tabarelli.
Le royalty però sono deducibili dall’imponibile, una specie di ritenuta d’acconto, e sono state pari a 340 milioni nel 2015 (sempre fonte Mise), dei quali quasi 200 alla Basilicata. In generale, vanno per metà alle regioni interessate e per metà affluiscono in un fondo speciale dello Stato che poi le gira per la massima parte ai comuni coinvolti nelle operazioni. Solo per le estrazioni off-shore in mare aperto (oltre cioè le 12 miglia ma comunque nella "zona di interesse nazionale" che è in media di una cinquantina di miglia) le royalty vanno direttamente allo Stato. Strettamente connesso con la svolta che prenderà l’andamento delle estrazioni, è l’aspetto logistico.
Se partirà Tempa Rossa, bisognerà costruire un raccordo di una decina di chilometri per unirsi alla pipeline che già collega Val d’Agri con il complesso raffineria-stoccaggio-imbarco di Taranto (la sezione raffineria peraltro Descalzi ha detto in audizione mercoledì scorso che rischia di chiudere). In ogni caso bisognerà ottenere dalla Regione Puglia, ed è tutt’altro che scontato, il via libera al raddoppio almeno dello stoccaggio pre-imbarco. Ma anche in altre aree sono in corso programmi che potrebbero essere influenzati dalle vicende in corso, per esempio nell’alto Adriatico di fronte a Chioggia dove di petrolio ce ne sarebbe ma la subsidenza in atto ha fatto fermare tutto.
di EUGENIO OCCORSIO, Affari&Finanza – la Repubblica 11/4/2016