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 2016  aprile 06 Mercoledì calendario

Per gentile concessione dell’editore, Edizioni Anordest, pubblichiamo un capitolo del libro Riina family life, scritto dal terzogenito di Salvatore Riina

Per gentile concessione dell’editore, Edizioni Anordest, pubblichiamo un capitolo del libro Riina family life, scritto dal terzogenito di Salvatore Riina. Nel volume, Giuseppe Salvatore Riina, detto Salvo, racconta per la prima volta la vita famigliare dell’uomo che è stato per decenni il numero uno di Cosa Nostra e che ha vissuto in latitanza dal 1969 al 15 gennaio 1993. 23 maggio 1992 Quel 23 maggio era un sabato. Me lo ricordo bene perché molti dei nostri amici non erano andati a scuola e quindi avevamo potuto passare tutta la giornata in giro coi motorini. Avevo compiuto da poco quindici anni e tutti i pomeriggi io e Giovanni ci vedevamo con il resto del gruppo per chiacchierare o fare una partita a calcetto. In quel periodo avevamo una casa a Palermo, e per degli adolescenti come noi era una fortuna, perché in città c’era sempre il modo per divertirsi e distrarsi. Crescevamo, e i giochi in campagna cominciavano a starci stretti. Il primo ricordo che ho di quel sabato è un ricordo di suoni. Un’eco lontana ma veloce raggiunse la nostra conversazione. Era una sirena. Ad una se ne aggiunsero due, poi tre, e ancora e ancora. Stando a Palermo eravamo abituati ai suoni del traffico, delle emergenze, delle corse delle ambulanze e della polizia, ma lentamente i nostri sguardi si interrogarono più delle parole, perché il sottofondo cominciava a farsi costante. Lasciammo le nostre postazioni, i sellini dei motorini, e ci avvicinammo al bar. «Hai sentito?» domandò Giovanni al barista. Era immobile, con un bicchiere vuoto tra le mani, che ascoltava ipnotizzato la radio. «Ch’è successo?» «Unnu capisciu.» «C’è polizia dappertutto.» «Vanno a Capaci» si aggiunse un ragazzetto della nostra età, da dietro la macchina dell’espresso. «Dicono che hanno sparato con un lanciamissili nella galleria.» Ci guardammo con gli altri. Improvvisamente il suono delle sirene si sostituì a qualsiasi altra voce. Ci salutammo senza aggiungere nulla. Non avevo mai visto Palermo in quel modo. C’era gente con gli occhi spiritati, impauriti, in un misto di disperazione e resa. Sapevo che non era credibile un lanciamissili a Capaci, ma in quelle ore di tardo pomeriggio, quando il Sole era ancora alto in Sicilia, ciascuno interpretava come meglio poteva le notizie che arrivavano. Sembrava di stare in guerra ad ogni angolo delle strade, e con Giovanni dovemmo fare qualche slalom di troppo per guadagnare la strada di casa. Ancora non sapevo cosa aspettarmi, ma non ero più un ragazzino e certe cose cominciavo a riconoscerle. A casa c’erano tutti. Entrammo e mia madre subito ci fissò, senza dire nulla. La tv era accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. C’era il viso di Giovanni Falcone, quel 23 maggio 1992, che veniva riproposto ogni minuto, alternato alle immagini rivoltanti di un’autostrada aperta in due. Avevamo fatto tante volte quel giro per andare a Trapani, e ricordo il paesaggio di mare e montagna che si gode da quella prospettiva. Ora era un cratere fumante, pieno di rottami e di poliziotti indaffarati nelle ricerche. Io e mio fratello eravamo ancora in piedi a guardare in silenzio. Pure mio padre Totò era a casa. Stava seduto nella sua poltrona davanti al televisore. Anche lui in silenzio. Non diceva una parola, ma non era agitato o particolarmente incuriosito da quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena accigliato, ascoltava pensando ad altro e nessuno di noi aveva voglia di confrontarsi sull’accaduto. Il Tg1 divenne il sottofondo fino all’ora di cena. Erano le diciannove e trenta, e io mi chiusi in camera a pensare. Chi era Falcone lo sapevamo tutti a Palermo, e da quel giorno le cose sarebbero cambiate per sempre. La giornalista parlava di rivendicazioni, parlava di “mafia”, di committenti, e il giorno dopo le pagine dei giornali furono ancora più esplicite: il nome dei Riina era dappertutto. Per fortuna mio padre ostentava serenità, e il peso sulla mia famiglia sembrò più sopportabile. Palermo divenne una città militarizzata, nella quale polizia, carabinieri ed esercito erano appostati con una cura esagerata. I funerali di Giovanni Falcone, di sua moglie e della scorta li guardai chiuso a casa, sempre in televisione, mentre i miei amici si riversavano nella piazza del duomo a piangere e a gridare, anzitutto contro lo Stato. «Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio» piangeva una delle vedove in diretta tv. Io ascoltavo e, come tutte le parole che ho letto in quelle settimane, tenevo tutto quanto per me. Anche con Maria Concetta parlavamo di meno, e quella primavera passò in modo surreale. «Salvo, che facisti?» mi domandava sempre mio padre quando mi vedeva silenzioso. «Nulla, papà» rispondevo. «Tu, Salvo, devi stare bonu. Tu un giorno sarai il bastone della mia vecchiaia.» Quando ero ragazzino mi sono sempre domandato come mai rivolgesse a me queste parole e non a Giovanni, che era il maschio più grande. Sapere che un giorno sarei dovuto essere io il suo sostegno mi caricava di responsabilità che non volevo, ma allo stesso tempo mi inorgogliva. «Ma no, papà. Tu starai sempre bene. Non avrai bisogno di me.» «Ascoltami» ripeteva. «Tu sarai il bastone della mia vecchiaia.» La consapevolezza di quella situazione di tensione e controllo che nacque il 23 maggio 1992 mi impedì di fare qualsiasi domanda a mio padre, e come me tutti gli altri della famiglia. Mi convinsi che non ero più un bambino e accettai la percezione che tutta Italia in questo momento stava cercando Totò Riina, il capo dei capi, disse qualcuno. Però la vita continuava e bisognava andare avanti, magari anche con incoscienza. Non ci avrebbero mai presi. Salvo Riina Racconta Rita Borsellino nel libro Nata il 19 luglio (Melampo) che per suo fratello Paolo «davanti a qualunque uomo, qualunque sia la colpa che ha, tu devi capire come è arrivato a fare quelle scelte sbagliate; a quel punto ti chiederai quali sono le tue di responsabilità, come individuo e come società… Ecco, se c’è stato un momento in cui io mi sono sentita sconfitta e inadeguata è stato il momento in cui i figli di Riina sono finiti in carcere, uno, Giovanni, con l’ergastolo, l’altro con una pesante condanna. Significa che come società non siamo stati capaci di mostrare loro un modello diverso da quello che il padre aveva proposto loro». Viene più amarezza che rabbia nel leggere Riina family life, una sorta di Salvo nel paese delle meraviglie, l’amorevole e orgoglioso omaggio di un figlio al padre e al suo mondo, la favola capovolta di un pezzo di storia d’Italia. «Quello che sono diventato lo devo ai miei genitori che non mi hanno fatto mancare nulla e questa è la risposta che darò a chiunque mi domandi della mafia vista in televisione», scrive Salvo Riina al termine della sua testimonianza surreale ma interessantissima. La parola mafia compare eccezionalmente qui, nella penultima pagina, ma non è un fenomeno reale, è qualcosa visto in televisione. E, prima, quelle cinque lettere sono stampate solo un’altra volta, quando per il delitto del giudice Scopelliti (per cui il padre fu assolto) si dice che «la mafia aveva chiesto al magistrato di essere più “morbido” nelle sue sentenze e lui, per aver rifiutato l’offerta, era stato ucciso» (ma sarà vero o se l’è inventato la televisione?). «A megghiu parola è chidda ca nun si dici», ammonisce Totò nell’ultima visita in carcere che gli fa il figlio, nel maggio 2002 (poi verrà anche lui arrestato per associazione mafiosa e sconterà 8 anni e 10 mesi). Già, non era meglio stare zitto? Forse no. Oggi lui decide di parlare, e lo fa a modo suo, da marziano appena sbarcato in Sicilia, da uomo fatto che conservando il beato candore dell’infanzia nulla sa di quel padre killer prediletto di Luciano Liggio e poi regista della mattanza scatenata dai Corleonesi. Certo, papà non fa un mestiere come gli altri, è spesso fuori per lavoro e quando era fidanzato con la mamma faceva lunghe trasferte. Certo, noi dovevamo spesso cambiare casa, ma sembrava un gioco e poi «non era un argomento importante di cui discutere a tavola». D’istinto viene da chiedersi: come si permette? Quando si dilunga sulle sofferenze della madre, quale anestetico gli impedisce di pensare a quello che è successo ad altre madri? Saveria Antiochia, per esempio: è il 6 agosto 1985, sei a Roma, stai stirando, e alla radio senti il nome del commissario Ninni Cassarà ucciso con un agente di scorta e capisci d’istinto che quel poliziotto senza nome è tuo figlio Roberto, e non hai bisogno che ti raccontino che è morto subito cercando col suo corpo di proteggere il capo, lo sai già. E quando, a quasi 40 anni, Salvo Riina lamenta che la sua mano dal gennaio 1993 non può accarezzare il volto del padre, riesce a concepire che il braccio della poliziotta Emanuela Loi, strappato a 24 anni dal suo corpo dilaniato in via D’Amelio, fu trovato al quarto piano di un palazzo? Eppure, alla ragione, questi piccoli squarci sul mondo segreto di Cosa Nostra appaiono imperdibili.