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 2016  aprile 11 Lunedì calendario

APPUNTI PER OGGI


LA REPUBBLICA
BONINI FOSCHINI
Può sembrare un paradosso. Ma il fallimento del vertice di Roma sull’affaire Regeni con l’artificiosa accusa mossa dal governo del Cairo a Palazzo Chigi di «voler politicizzare il caso per ragioni interne dopo le dimissioni del ministro dello sviluppo economico sullo sfondo di un caso di corruzione» (così ieri il portavoce del ministero degli Esteri Abou Zeid) di fronte alla ribadita «volontà di andare fino in fondo alla verità» (lo hanno ripetuto ieri il ministro Gentiloni e il premier Renzi), consente all’inchiesta di ripartire da almeno due certezze che inchiodano gli apparati di sicurezza egiziani. Che tornano a dare centralità al ruolo del generale Khaled Shalaby, comandante della polizia criminale di Giza con precedenti per tortura e qualificano dunque la morte di Giulio per quel che è stata. Un omicidio di Stato.
La prima certezza. Per otto settimane, è stata dato per acquisita la circostanza che Giulio sia stato sequestrato nei cento passi che dividevano la sua abitazione e la fermata della metropolitana di Dokki. Ma, da venerdì sera, il quadro appare significativamente cambiato. È certo che alle 19.59 del 25 gennaio il cellulare di Giulio agganci la rete dati del metro. Questo significa che Giulio era all’interno della stazione e, a meno di non voler immaginare un sequestro nella folla o su uno dei vagoni del metro, sia regolarmente salito su uno dei convogli che lo hanno portato alla fermata di piazza Tahrir, dove, in un bar, aveva appuntamento con il suo amico Gennaro. La certezza che Giulio sia salito sul metrò la potrebbero dare le registrazioni delle 56 telecamere di sorveglianza della stazione di Dokki ma, curiosamente, gli inquirenti egiziani sostengono che la sera del 25 fossero fuori uso. Tutte. Tranne una. Puntata su una delle sei scale mobili di accesso. E tuttavia, aggiungono, il nastro della registrazione, è sovrascritto e potrebbe essere ripulito solo da esperti tedeschi cui, ovviamente, il nastro non è stato ancora messo a disposizione.
L’assenza di immagini di Dokki la sera del 25 fa il paio con quella della stazione di piazza Tharir. Cruciali per comprendere se Giulio vi sia arrivato. E non è chiaro — la delegazione egiziana non ha saputo o voluto spiegarlo — se perché anche queste fuori uso o, perché quelle immagini non siano mai state recuperate. L’accidia degli inquirenti egiziani è necessaria ad allontanare l’attenzione dalla scena di piazza Tahrir la sera del 25 gennaio, quinto anniversario della Rivoluzione. Perché su quella piazza sono la Polizia, sono gli uomini della Sicurezza Nazionale. E perché in quella piazza, quel 25 gennaio, sono in corso retate che — come comunicheranno fonti del Ministero dell’Interno — hanno come bilancio l’arresto “ufficiale” di «19 egiziani e 1 straniero» . Uno «straniero». Chi?
La seconda certezza. Fonti ufficiose egiziane riferiranno nei giorni successivi alla scomparsa di Giulio che gli stranieri fermati, in realtà, sono due. Uno è un cittadino turco. L’altro, un “cittadino americano”, la cui identità, però, resta misteriosa. Allora, come oggi. Ebbene, quella “nebbia”, si scopre ora, ha una logica. Deve proteggere l’uomo che delle operazioni di rastrellamento di quella sera è il dominus: il capo della Polizia di Giza. Il generale Khaled Shalaby.
Ne scrive in un breve articolo sul sito online del giornale locale “Veto”, recuperato e tradotto da
Repubblica, il giornalista Manal Hammad. Leggiamo: «Il generale Khaled Shalaby ha affermato che sono in corso accertamenti su un individuo di nazionalità straniera arrestato all’interno di un caffè. Lo straniero si trova nella questura di Giza, nella zona di Al Bahr Al Azam. Shalaby ha dichiarato a “Veto” che gli agenti della questura lo hanno arrestato in seguito ad una segnalazione di un cittadino a proposito di un individuo che parla coi giovani e con i cittadini in una lingua araba approssimativa, impiegando anche termini stranieri. È stato accertato che è straniero e cerca di mobilitare e indurre a scendere in piazza in occasione della ricorrenza della rivoluzione del 25 gennaio, fatto che ha portato a un alterco verbale tra lui e un cittadino a seguito del quale è stato denunciato alla polizia e arrestato. Nel confronto con gli uomini del Dipartimento investigativo, il giovane straniero ha negato di avere incitato i giovani ad opporsi allo Stato, ha sostenuto che i suoi spostamenti nelle zone popolari d’Egitto gli servono per imparare il dialetto egiziano. È stato redatto un verbale dell’accaduto ed inviata una comunicazione alla Procura » .
La circostanza riferita da “Veto” in quei giorni (di per sé neutra perché la notizia della scomparsa di Giulio Regeni non è ancora pubblica) è evidentemente significativa. Ma lo è altrettanto il fatto che per 8 settimane sia stata taciuta ai nostri investigatori. Sicuramente, incrociata con quanto lo stesso Shalaby dirà ufficialmente il pomeriggio del 3 febbraio (giorno del ritrovamento del cadavere di Giulio) consente di fissare tre circostanze. Sulla scena dei rastrellamenti del 25 si muove l’uomo che prima accrediterà “l’incidente stradale”, quindi fornirà il particolare dei “pantaloni abbassati” con cui Giulio è stato ritrovato e quindi riferirà di “aver visto il corpo” così distrattamente da non notare i segni di tortura, ma abbastanza da «escludere che la morte sia dovuta a coltellate».

FABIO SCUTO

NAZIONALE - 11 aprile 2016
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11/4/2016
il delitto del cairo
Al Sisi ora punta all’asse con i sauditi
Il re Salman acclamato durante la visita: piano di investimenti al Cairo da 24 miliardi di dollari
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME.
Per cinque giorni è stato acclamato come il salvatore del Paese dei Faraoni. Perché re Salman d’Arabia Saudita, nel corso di una visita che il governativo “Al Ahram” definisce storica, ha lasciato dietro di sé un fiume di denaro che consentirà al feldmaresciallo Al Sisi di affrontare con maggiore serenità il futuro e anche le “misure” italiane per il caso di Giulio Regeni successive al richiamo dell’ambasciatore per consultazioni. L’Egitto è un alleato strategico per l’Arabia saudita, che con l’arrivo di Salman sul trono e dopo la destituzione del presidente islamista Mohammed Morsi, si è molto riavvicinata al Cairo. «L’Egitto è fondamentale nella lotta contro il terrorismo e le nuove minacce (iraniane,
ndr)
», ha detto il sovrano saudita al Parlamento egiziano, che dopo le ultime elezioni è affollato solo di sostenitori di Al Sisi, ricevendo applausi a scena aperta con sventolio di bandiere verdi.
I segni di tanta simpatia e affetto si capiscono meglio nello scorrere l’elenco dei nuovi investimenti sauditi annunciati dal Ministro egiziano della cooperazione Sahar Nasr, che alla fine della lista letta in diretta tv sulle principali reti aveva la bocca asciutta. Gli accordi economici rappresentano il maggiore investimento saudita in un altro paese arabo, superano abbondantemente il 24 miliardi di dollari nei settori più diversi. C’è un fondo di investimento comune del valore di 16 miliardi di dollari per lo sviluppo di progetti economici nel distretto del cotone; 1,5 miliardi dollari per avviare 12 aree di sviluppo nel Sinai; ma soprattutto petrolio quasi gratis per i prossimi 5 anni, in un Paese come l’Egitto che se ha scoperto grazie all’Eni il più grande campo gasiero del mondo nel Mediterraneo, non ha giacimenti rilevanti ed è costretto a importare il suo fabbisogno. E se l’Eni dovesse tirarsi indietro in seguito alle tensioni con l’Italia è pronta ad entrare in scena la Lukoil di Vladimir Putin, altro grande amico del presidente al Sisi. Al Palazzo di Vetro dell’Eur a Roma non è un segreto.
Per entrare ancor più nell’immaginario della folla egiziana che lo ha acclamato al suo passaggio, re Salman d’Arabia Saudita non solo ha annunciato un prossimo investimento da 3,3 miliardi di dollari nell’area del Canale di Suez per un’area industriale, ma ha annunciato la realizzazione di un ponte tra le due sponde del Mar Rosso, per unire ancor più i due Paesi. In cambio di tanta generosità da parte del sovrano wahabita, l’Egitto ha accettato di chiudere la disputa per la sovranità su Tiran e Sanafir, due isolette disabitate nel Mar Rosso che si trovano in acque saudite. Una contesa che andava avanti dai tempi di Nasser.
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L’INCONTRO
Nella foto, il re dell’Arabia Saudita Salman Al Saud con il presidente dell’Egitto Al Sisi, durante la visita ufficiale del sovrano al Cairo

CORRIERE SARZANINI
ROMA La chiave è nel termine utilizzato dallo staff di Federica Mogherini. Perché la nota che annuncia il suo arrivo al G7 dei ministri degli Esteri in Giappone e l’incontro con il titolare della Farnesina Paolo Gentiloni, contiene una frase precisa: «Confrontarsi anche sul modo migliore in cui sostenere le decisioni italiane nei confronti dell’Egitto sul caso Regeni». «Sostenere», è questa la parola inserita nel comunicato per far sapere che l’Alto rappresentante dell’Ue per gli affari Esteri è schierata al fianco del nostro Paese nella crisi diplomatica che lo oppone all’Egitto. E «appoggio» lo stesso Gentiloni chiederà agli Stati dell’Unione, proprio nel tentativo di fare ulteriore «pressione» sul Cairo affinché collabori nelle indagini sulla cattura e l’omicidio del giovane ricercatore.

Domani il ministro vedrà l’ambasciatore Maurizio Massari, già rientrato a Roma dall’Egitto. Con lui avrà almeno una settimana di «consultazioni» per prendere quelle misure che, come ribadisce proprio nel corso della sua missione a Tokyo, «non scateneranno la guerra mondiale, ma serviranno a dare il segno della nostra insoddisfazione». La «rosa» è ampia, la linea tracciata. E al momento non mette in discussione i rapporti commerciali, soprattutto tenendo conto che l’Italia ha numerose aziende che lavorano in Egitto — ma anche ditte egiziane operano da noi — e soprattutto può contare sullo sfruttamento del giacimento scoperto dall’Eni sulla base di un accordo bilaterale già stipulato.

Molto altro, ribadiscono però alla Farnesina, si può fare. E così, oltre a «sconsigliare» i viaggi per turismo e a fermare tutte le numerose intese culturali già stipulate, prime fra tutte quelle tra università che finora portavano numerosi studenti a trasferirsi — sia pur per un periodo limitato — in Egitto per frequentare le università internazionali, si cercherà di influire sugli organismi internazionali.

L’Unione Europea è in cima alla lista, ma contatti saranno attivati anche con le Nazioni Unite facendo leva sul mancato rispetto dei diritti umani e sul recepimento delle direttive internazionali che in moltissimi Paesi prevedono condanne severe per il reato di «tortura». Si cercherà di «isolare» l’Egitto, mettendolo in mora proprio per aver consentito che un giovane potesse finire nelle mani «esperte» di chi lo ha sottoposto a sevizie indicibili fino a farlo morire. Perché è proprio questo il dato incontrovertibile, quello che dimostra il fatto che Giulio Regeni è stato ucciso da appartenenti ad apparati di sicurezza: la natura delle torture.

Gli esami svolti in Italia dall’équipe del professor Fineschi, hanno accertato che contro Giulio Regeni è stata usata una tecnica propria agli appartenenti ad alcuni servizi di intelligence o di polizia. E dunque si faranno conoscere ai rappresentati dell’Onu i documenti ufficiali che dimostrano il «trattamento» riservato al ragazzo proprio per ottenere quell’appoggio necessario a far leva sul regime guidato da Abdel Fatah al Sisi e convincerlo a condividere le informazioni raccolte dagli investigatori e dai magistrati locali. Altro terreno sul quale si è intenzionati a muoversi è quello della Banca Mondiale. Esistono infatti condizioni precise che consentono ai vari Paesi di ottenere finanziamenti e aiuti e tutte passano per il rispetto dei diritti umani e per la collaborazione tra i vari governi. Anche in quella sede il «caso Regeni» sarà illustrato proprio per cercare di ottenere il massimo consenso internazionale. E fino a che non ci sarà una contromossa egiziana, un segnale di collaborazione, l’ambasciatore Massari rimarrà in Italia.
Fiorenza Sarzanini fsarzanini@corriere.it

SACCHETTONI SU CDS
Ottenere i tabulati telefonici dei cinque pregiudicati indicati come i rapitori di Giulio Regeni e poi uccisi; conoscere i loro spostamenti, l’archivio dei contatti che avevano, la ricostruzione del blitz in cui sono morti. È questo l’obiettivo della nuova rogatoria che il pubblico ministero Sergio Colaiocco inoltrerà questa mattina alle autorità egiziane. Altre richieste per acquisire informazioni complete sul gruppo di criminali comuni e così tenere aperto il caso.

Malgrado le obiezioni logiche mosse dai magistrati italiani rispetto alla versione che li accredita come i colpevoli del sequestro e dell’omicidio, i rappresentanti del governo egiziano hanno continuato a sostenere la colpevolezza della banda. Durante il vertice di giovedì e venerdì gli è stato fatto notare che le persone in questione ignoravano i metodi della tortura compatibili con le ferite e le mutilazioni sul corpo di Regeni. Ma anche questo non li ha scoraggiati dal riproporre la stessa interpretazione dei fatti.

Nei giorni scorsi, al riguardo, la figlia di uno dei cinque, intervistata da un quotidiano del Cairo, ha sostenuto che i documenti di Regeni sono stati messi nel loro appartamento dagli agenti di polizia. Per questo la procura di Roma chiederà anche di acquisire i rilievi dattiloscopici sui documenti rinvenuti e le impronte dei criminali. In modo da poterle confrontare autonomamente. Naturalmente anche in questo caso il risultato non è scontato. Potrebbero esserci omissioni e documentazione incompleta. Secondo la squadra di carabinieri e polizia che sta operando sul caso, due dei cinque potrebbero essere stati arruolati dall’intelligence egiziana per fornire una via d’uscita al ministero dell’Interno e allontanare il sospetto dai servizi. Tra i pm di Roma c’è il convincimento che anche su questo (modesto) risultato incideranno le misure adottate dall’Italia. L’Italia «politicizza» la vicenda è stato il commento prevalente dal Cairo. Anche se in un’intervista il ministro del Turismo egiziano ha confermato che l’Egitto agirà contro gli assassini: «La giustizia è giustizia», ha dichiarato Yehia Rashed.
Ilaria Sacchettoni