9 aprile 2016
APPUNTI PER GAZZETTA - ANCORA SUL CASO REGENI
ROMA - Il richiamo dell’ambasciatore è solo primo passo. Ora il governo studierà nuove forme di pressing politico sull’Egitto, mentre la procura di Roma la prossima settimana inoltrerà una nuova rogatoria internazionale per acquisire tabulati-video. Il procuratore generale aggiunto egiziano Mostafa Soliman in una conferenza stampa al Cairo, in cui ha illustrando i risultati della missione a Roma dei giorni scorsi, ha ripetuto che l’Egitto non consegnerà i tabulati telefonici sul caso della morte di Giulio Regeni perché "sarebbe contro la Costituzione e le leggi vigenti egiziane".
"La parte egiziana ha rifiutato questa richiesta non per nascondere qualcosa, ma perché la Costituzione egiziana vieta di fornire informazioni di questo tipo. Abbiamo spiegato che, in base alla Costituzione, non abbiamo i poteri di fornire queste informazioni", ha aggiunto il procuratore. "Ci siamo rifiutati di compiere un atto che andava contro la Costituzione, anche se gli italiani hanno sostenuto che la cooperazione giudiziaria fosse legata alla consegna dei tabulati telefonici relativi a migliaia di persone".
Però, ha sottolineato il procuratore, "il 98% delle richieste italiane sono state soddisfatte". Soliman ha garantito che il lavoro di verifica sui tabulati sarà fatto dagli egiziani e poi i risultati saranno consegnati. "L’Italia ha chiesto la registrazione di chiamate telefoniche di tre persone in rapporto con la vittima e abbiamo detto: ’Sì, vi metteremo al corrente’.
Se l’avessimo saputo avremmo portato la risposta con noi" a Roma.
Tensione alle stelle. I rapporti tra Italia ed Egitto sono sempre più tesi, soprattutto dopo il fallimento del vertice di due giorni che avrebbe dovuto fornire qualche informazione utile a scoprire cosa è successo a Giulio Regeni, trovato morto al Cairo lo scorso 3 febbraio. L’Egitto, comunque, "desidera proseguire la collaborazione con la parte italiana per scoprire i fatti relativi all’omicidio dello studente italiano", ha dichiarato Suleiman.
Il procuratore, che ha parlato durante una conferenza stampa trasmessa in diretta dalla tv satellitare "Cbc extra", dopo aver illustrato il contenuto delle discussioni avute con gli inquirenti italiani, ha aggiunto: "siamo ancora nella fase delle indagini".
La procura di Roma insiste. La Procura di Roma, malgrado il fallimento del summit di ieri, non lascerà nulla di intentato per far luce sull’omicidio di Giulio Regeni. La prossima settimana inoltrerà una nuova rogatoria internazionale nella quale saranno riformulate alle autorità egiziane le richieste di acquisizione dei tabulati telefonici di una decina di persone. E dei video delle zone frequentate da Giulio Regeni.
Il richiamo dell’ambasciatore. Il richiamo per consultazioni a Roma dell’ambasciatore italiano in Egitto è la "misura immediata", la prima, a seguito del mancato cambio di marcia sulle indagini per chiarire la tragica morte di Giulio Regeni e, sugli altri passi, "ci lavoreremo nei prossimi giorni". Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, a Tokyo per partecipare al G7 degli Esteri di Hiroshima di domani e lunedì, rimanda a quanto detto di recente in parlamento. "Ricordo sempre gli aggettivi che ho usato e cioè che adotteremo misure immediate e proporzionali: questo ci siamo impegnati a fare e questo faremo".
L’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Ue, Federica Mogherini, e Gentiloni a Hiroshima parleranno domani della vicenda Regeni e del modo migliore perchè l’Ue sostenga gli sforzi dell’Italia per ottenere la verità.
Dopo il fallimento il vertice tra Italia ed Egitto sul caso Regeni, si apre però una speranza che il dialogo possa riaprirsi. Ci sarebbero infatti "in corso contatti ai massimi livelli" tra i due governi "nel tentativo di superare una escalation della crisi". A rivelarlo è una fonte diplomatica egiziana citata dal quotidiano "al Youm7". Il giornale del Cairo ha spiegato anche che secondo la fonte ci sarà "una conversazione telefonica" tra il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shukr e il titolare della Farnesina Gentiloni "per consultazioni sul caso Regeni".
Rientrando al Cairo nella notte, i componenti della delegazione di magistrati e responsabili della sicurezza egiziani che hanno partecipato alle riunioni a Roma sul caso di Giulio Regeni hanno "rifiutato di rilasciare qualsiasi dichiarazione sulla missione". L’Egitto, attraverso il suo ministero degli Esteri, ha annunciato di aver ricevuto stamattina la notifica ufficiale del richiamo a Roma dell’Ambasciatore d’Italia al Cairo, Maurizio Massari, per consultazioni. Il Cairo "non richiamerà" il proprio ambasciatore da Roma.
LEGGI "Volevano far sparire Giulio nel deserto" di C. BONINI
Dal comunicato diramato dalla Procura di Roma di ieri emerge la forte delusione di inquirenti e investigatori che non hanno viste soddisfatte le richieste avanzate per rogatoria l’8 febbraio scorso. Di fatto la collaborazione con le autorità giudiziaria egiziane è interrotta. A irritare la delegazione italiana la mancata consegna, tra l’altro, dei tabulati telefonici di una decina di utenze riconducibili ad altrettanti cittadini egiziani. Inoltre non sono state consegnate anche le richieste "relative al traffico di celle".Tutti elementi ritenuti indispensabili dalla Procura di Roma.
Sul caso Regeni, ’’l’Italia ha sempre detto che non può mettere in secondo
piano la verità. Lo dobbiamo alla famiglia e alla dignità del Paese. Questa è la nostra posizione, che mi pare molto chiara e coerente’’, ha detto oggi il ministro Graziano Delrio, a margine degli ’’Stati generali della Logistica del Nord Ovest’’.
VALENTINO SUL CORRIERE DI OGGI
ROMA Il cambio di marcia non c’è stato e la decisione era inevitabile. Il richiamo in Italia per consultazioni del nostro ambasciatore al Cairo apre di fatto un contenzioso, i cui sviluppi al momento non è possibile prevedere, ma che potrebbero portare lontano.
È bene subito precisare che la partenza di Maurizio Massari dalla capitale egiziana, prevista nei prossimi giorni, non è ancora una misura di ritorsione. È un «early warning», un’allerta precoce alle autorità egiziane, che sul caso Regeni non ci siamo proprio. Carica di valenza politica nel linguaggio della diplomazia, la scelta segnala l’«insoddisfazione» dell’Italia, del suo governo e della sua magistratura, per l’assenza di ogni contributo significativo da parte della delegazione venuta dal Cairo alle indagini sul rapimento, le torture e il barbaro omicidio del nostro ricercatore. «La collaborazione non può essere soltanto formale — dicono fonti diplomatiche — ma deve fornire un aiuto sostanziale per far progressi nella ricostruzione delle circostanze e nell’identificazione dei colpevoli». Sono infatti mancati elementi decisivi e non sono state soddisfatte le richieste basilari della parte italiana.
In ultima analisi, gli egiziani hanno perso l’ennesima occasione per dimostrare la volontà di collaborare lealmente a far piena luce sulla vicenda. Bisogna infatti ricordare che prima del fallimentare appuntamento romano, il nostro team investigativo era rimasto per ben sei settimane al Cairo senza ottenere informazioni di sostanza, che non fossero le varie e improbabili versioni, ultima in ordine di tempo la bufala dei 5 membri di una banda criminale, indicata come responsabile del rapimento e dell’assassinio di Giulio Regeni, uccisi in un conflitto a fuoco dalla polizia. Versione poi smentita, prima di essere parzialmente riproposta.
Ma se non è ancora un atto di rappresaglia, il richiamo dell’ambasciatore Massari, che in queste settimane non ha mai allentato per un momento la pressione sulle autorità del Cairo, manda un messaggio preciso e inequivocabile al regime del generale al Sisi: sul caso Regeni, l’Italia fa sul serio. E la decisione è il preambolo dovuto di una escalation, che diventerebbe obbligata se non si aprissero brecce di sorta nel muro del silenzio eretto dai dirigenti egiziani. In questo senso, esistono ancora concreti margini di tempo, che l’Egitto può utilizzare prima che scattino le cosiddette «misure proporzionate», evocate dal ministro Gentiloni in Parlamento.
Il ventaglio delle opzioni, che Gentiloni discuterà nei prossimi giorni alla Farnesina con Massari, il capo di gabinetto Elisabetta Belloni e i responsabili delle direzioni generali coinvolte, prima di sottoporle al vaglio di Palazzo Chigi, è quello classico. E la prima misura, sempre nel caso di assenza totale di novità da parte del Cairo, potrebbe riguardare i ricercatori e gli studenti italiani che sono o che intendono recarsi in Egitto per un periodo di studio, ai quali verrebbero fortemente sconsigliati la permanenza e il viaggio. A questa potrebbe accompagnarsi un eventuale degrado del livello dei contatti politici, con il blocco della partecipazione dei ministri a incontri di governo già programmati o in programma con l’Egitto.
In ogni caso, se questo scenario dovesse prodursi, è impensabile possa aver luogo il vertice inter-governativo tra Matteo Renzi e al Sisi, accompagnati dalle rispettive squadre di ministri, previsto per quest’anno in una data non ancora stabilita.
Perdurando il rifiuto a collaborare in modo sostanziale, il salto di qualità nella ritorsione sarebbe dichiarare l’Egitto «Paese non sicuro per il turismo», misura contundente per l’economia egiziana, che nell’industria delle vacanze ha il 12% del suo Pil e che nel 2015 ha già subito una diminuzione del 45% nel numero di visitatori dall’estero.
BIANCONI SUL CORRIERE DI STAMATTINA
ROMA Quando dopo un tira e molla di due giorni (che in realtà va avanti da due mesi), gli egiziani hanno invocato la loro Costituzione che, per tutelare la privacy dei cittadini, non consente di condividere i dati dei telefoni cellulari attivi sul luogo del rapimento di Giulio Regeni e in quello in cui fu ritrovato cadavere, i magistrati e gli investigatori italiani hanno avuto la conferma definitiva che il tanto atteso «vertice bilaterale» non avrebbe portato a nulla. Come temevano. E così è stato. La necessità di tenere aperto un canale di formale collaborazione impedisce di esplicitare fino in fondo il disappunto della Procura di Roma, che sull’omicidio del giovane ricercatore ha aperto un fascicolo ancora troppo scarno; soprattutto in mancanza degli elementi chiesti al Cairo, che nemmeno stavolta sono arrivati. I contatti telefonici, ma non solo.
L’importanza delle «celle»
Ci sono almeno due passaggi nel comunicato del procuratore Giuseppe Pignatone e del sostituto Sergio Colaiocco che — al di là dei toni diplomatici — lasciano trapelare tutta l’insoddisfazione degli inquirenti italiani; che non a caso hanno redatto un proprio resoconto pubblico, non condiviso con la delegazione egiziana, come immaginato alla vigilia della riunione. Il primo è proprio quello relativo al «traffico di celle», rispetto al quale solo adesso, e non dalla prima richiesta, è stata opposto l’impedimento di legge (che evidentemente c’era anche prima; perché non dirlo subito?). Nella versione ufficiale si legge: «L’autorità egiziana ha comunicato che consegnerà i risultati al termine degli accertamenti che sono ancora in corso»; ma subito dopo: «La Procura di Roma ha insistito perché la consegna avvenga in tempi brevissimi, sottolineando l’importanza di tale accertamento da compiersi con le attrezzature all’avanguardia disponibili in Italia».
Polizia e carabinieri dispongono di software capaci di elaborare e analizzare velocemente le attività di migliaia di numeri telefonici. Gli egiziani sono pressoché a digiuno di tutto ciò, e questo aumenta l’importanza dei dati, poiché è verosimile che rapitori e assassini non abbiano preso troppe precauzioni, non essendo abituati a indagini così tecnologiche.
Il ruolo della banda
L’altro punto «critico» è quello relativo alla gang di criminali comuni uccisi il 24 marzo e inizialmente indicati come responsabili del sequestro e dell’omicidio, poiché nelle case dei morti c’erano il passaporto e altri documenti di Regeni. Gli inquirenti egiziani ne hanno parlato avvertendo che — riferisce il comunicato — «solo al termine delle indagini sarà possibile stabilire il ruolo che la banda criminale abbia avuto nella morte del ragazzo italiano». Chiosano Pignatone e Colaiocco: «La Procura di Roma ha ribadito il convincimento che non vi sono elementi sul coinvolgimento diretto della banda criminale nelle torture e nella morte di Giulio Regeni».
Come dire che è inutile correre dietro a ipotesi inverosimili, e che semmai bisognerebbe concentrasi sul perché i documenti del ricercatore siano comparsi nella disponibilità dei bandati ammazzati. La spiegazione fornita dalla moglie del capobanda agli inquirenti del Cairo, i quali sostengono la necessità di verificarla, è che guardando alla tv il volto di Giulio, dopo la sua morte, il marito le disse che quel ragazzo l’aveva aggredito in strada nei giorni precedenti, e che per reazione lui e i suoi amici l’avevano rapinato, sottraendogli la borsa con i soldi, il passaporto e tutto il resto. Una versione talmente poco credibile (perché mai, una volta scoperta dalla tv la rilevanza internazionale del caso, dei criminali comuni avrebbero dovuto conservare la prova regina di un loro eventuale coinvolgimento?) che il solo ipotizzare di doverla approfondire fa pensare a un depistaggio.
Niente verbali
Tra le poche carte portate dall’Egitto non c’è nulla che possa offrire nuovi spunti investigativi. Le riprese delle telecamere di una stazione della metropolitana sono inutili perché sovrapposte a immagini successive al giorno del sequestro, e adesso si aspetta di trovare (in Germania secondo gli egiziani, o altrove) qualcuno in grado di far ricomparire ciò che è stato cancellato. Della riunione sindacale a cui partecipò Regeni nel dicembre 2015 non esistono filmati, mentre i tabulati telefonici di un paio di conoscenti di Giulio dicono poco o nulla. Piuttosto, sul cellulare del ricercatore italiano comparirebbero due contatti con numeri arabi il 25 gennaio, giorno del sequestro, che però gli investigatori locali non hanno ancora sviluppato per capire a chi appartengano. E non ci sono i verbali di nuovi testimoni ascoltati.
Niente, insomma. Tranne la promessa che «nessuna pista investigativa è esclusa». Quanto all’interessamento preventivo degli apparati di sicurezza a Regeni, addirittura con qualche pedinamento, ipotizzato nei giorni scorsi dalla stampa locale, dal team egiziano è arrivata solo una secca smentita: «Non ci risulta».
SACCHETTONI SUL CORRIERE DI STAMATTINA
ROMA Nel pomeriggio anche il paradosso: un comunicato della Procura di Roma che, pur sottolineando il fallimento del vertice italo-egiziano sul caso Regeni, ribadiva «la determinazione» di ognuno «nell’assicurare i responsabili alla giustizia» e a raggiungere la verità, sia pure separatamente. Più tardi, dopo aver consultato i magistrati e preso atto della loro delusione, il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha fatto rientrare l’ambasciatore in Egitto, Maurizio Massari: «L’ho richiamato per consultazioni. Vogliamo una sola cosa, la verità su Giulio Regeni». D’accordo il presidente del Consiglio Matteo Renzi: «L’Italia ha preso un impegno con la famiglia Regeni, con la memoria di Giulio ma anche con la dignità con ciascuno di noi».
L’intesa è saltata, ma lo scambio d’informazioni fra squadre investigative andrà avanti. Da parte dell’Egitto c’è l’impegno formale a trasmettere i famosi tabulati dei traffici telefonici nei giorni della scomparsa e del ritrovamento del corpo del ragazzo. Tabulati mai forniti e non ancora interamente acquisiti sostiene la polizia del Cairo. E c’è anche la promessa, ottenuta dal procuratore Giuseppe Pignatone e dal pm Sergio Colaiocco, a trasmettere i verbali delle molte persone ascoltate in questi due mesi dalla polizia egiziana.
Quanto alle richieste arrivate dagli egiziani, gli investigatori italiani hanno messo a disposizione oltre agli esiti dell’autopsia del professor Fineschi (che ha fatto una relazione davanti alla delegazione egiziana giovedì pomeriggio), anche una parte dei dati contenuti nel pc del ragazzo. La ricostruzione dell’archivio di Regeni è una sorta di ossessione per gli egiziani che l’hanno affrontata fin da subito al vertice nella scuola di polizia. I magistrati romani si sono offerti anche di mettere a disposizione dei colleghi egiziani la tecnologia. È stata anche fatta una relazione sui metodi d’intercettazione online da esperti della polizia postale.
La notizia del ritiro dell’ambasciatore al Cairo viene accolta in modo differente. Fonti anonime egiziane lasciano trapelare una reazione più moderata e un’altra invece decisamente più aggressiva. La prima accredita l’idea che ci sia ancora spazio per trattare: «Il ministero degli Affari esteri pubblicherà nelle prossime ore un comunicato per rispondere alla decisione dell’Italia di richiamare il proprio ambasciatore al Cairo per consultazioni sullo sfondo del caso Regeni». La seconda, più asciutta, sembra censurare la decisione della Farnesina: «Il ministero degli Affari esteri egiziano finora non è stato informato ufficialmente del richiamo del proprio ambasciatore al Cairo per consultazioni da parte dell’Italia; sullo sfondo dell’omicidio di Regeni e delle ragioni di questo richiamo, tanto più che non c’è stato un comunicato sui risultati delle riunioni delle squadre d’inchiesta egiziana e italiana».
Sia pure con una serie di distinguo, in Italia maggioranza e opposizione concordano sul ritiro dell’ambasciatore. Nessuno però sembra disposto a scommettere sul risultato.
Ilaria Sacchettoni
FRANCESCA CAFERRI SU REPUBBLICA INTERVISTA A MARINA OTTAWAY
«Non mi stupisce. È quello che fanno da quando sono al potere. Non ammetteranno mai di essere responsabili di questa morte. Daranno la colpa all’Italia e diranno che loro hanno fatto tutto il possibile».
Una spiegazione simile può
avere conseguenze sul fronte interno?
«Sì. Al Sisi e i suoi stanno già da tempo perdendo credibilità dentro il Paese. Questa crisi, unita alla pessima situazione economica e al crescente scontento, potrebbe aiutare ad accendere la rabbia. L’editoriale con cui Al Ahram domenica ha messo per la prima volta in dubbio le versioni ufficiali sul caso Regeni è in questo senso un segnale interessante. E in qualche modo coraggioso ».
Sta dicendo che potrebbero esserci rivolte?
«Non credo che una crisi sia imminente ma che questo possa essere un altro passo verso una reazione contro Al Sisi. Se l’opposizione non sarà abbastanza forte, potrebbe essere l’esercito stesso a liberarsi di lui. Non parlo di un golpe di ufficiali di basso rango contro la leadership ma dello stesso Consiglio superiore delle Forze Armate. Potrebbero decidere che la situazione sta per andare fuori controllo e liberarsi di lui. Lo hanno già fatto con Mubarak, sarebbe una replica dello stesso scenario. Un’ipotesi di continuità ».
Crede che la decisione dell’Italia possa avere qualche conseguenza?
«Sinceramente no. So che ci sono profondi legami economici, ma l’Egitto non conta sull’aiuto dell’Italia, dell’Europa o degli stessi Stati Uniti per sopravvivere. Sono i Paesi del Golfo, gli Emirati, l’Arabia Saudita quelli che tengono su l’economia egiziana in crisi. All’Eni gli egiziani possono dire che c’è sempre qualcun altro pronto a sfruttare i giacimenti che oggi controllano loro ».
E gli Stati Uniti? I segnali di scontento nei confronti di Al Sisi, dalla politica ai giornali, si moltiplicano...
«Fino a quando l’Egitto mantiene la stessa posizione su Israele l’America non cambierà nulla. Obama è a fine mandato e la politica estera è l’ultima delle sue preoccupazioni. Delle torture, delle morti, si sapeva già tutto. Ma al di là di qualche voce isolata è stata scelta la politica del silenzio. Prima o poi gli Stati Uniti dovranno prendere posizione su Al Sisi ma credo che sia ancora presto. Non vedo segni di movimenti immediati in questo senso. Non so se la scelta dell’Italia porterà a un’accelerazione».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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LE RIVOLTE
Non credo che ci saranno ma i militari potrebbero liberarsi di lui come è già accaduto in passato con Mubarak
Nella foto, Marina Ottaway senior scholar del Wilson Center
L’INTERVISTA / L’AMERICANA MARINA OTTAWAY, ESPERTA DI MEDIO ORIENTE
ROMA.
Quando si parla di Egitto, la voce di Marina Ottaway è una delle più ascoltate negli Stati Uniti. Senior scholar del Wilson center, segue le evoluzioni del paese di Al Sisi da quattro decenni e ha un’attenzione particolare per l’Italia, suo Paese di origine.
Professoressa Ottaway, come è possibile che il governo egiziano non abbia compreso la necessità di collaborare in modo reale con l’Italia?
PEZZO DI CARLO BONINI SU REP
Nel dossier di sole 30 pagine l’ultima beffa degli egiziani “Niente tabulati, c’è la privacy”
CARLO BONINI
ROMA
C’È STATO un momento esatto in cui è apparso chiaro a tutti che era finita. Ieri, all’ora del pranzo. Davanti a un risotto mantecato zucchine e gamberetti e a un’orata al forno con patate. Seduti intorno al tavolo di uno dei saloni del Casale Renzi, residenza storica dell’Arma, nel cuore verde dei Parioli, serviti da appuntati in livrea con vassoi in peltro.
SEGUE A PAGINA 3 CAFERRI E FOSCHINI ALLE PAGINE 2 E 4
«OTTIMA l’orata». Il procuratore generale aggiunto del Cairo Mostafa Soliman, il suo giovane addetto alla cooperazione Mohamed Hamdy, i generali Adel Gaffar, Mostafa Meabed, Ahmed Aziz e Alaa Azmi, scherzano e mangiano con l’appetito di chi sta celebrando la fine di un’indimenticabile vacanza romana. Chiedono agli esterrefatti commensali italiani, quando ci si rivedrà. Annuiscono di fronte alle richieste di bis di quel menù preparato nel rispetto della dieta musulmana. Fingono di non capire che il fondo del barile è stato raschiato. Che la pazienza italiana è esaurita.
LA CARTELLINA
«Vogliamo trovare i responsabili della morte di Giulio Regeni. Chiunque essi siano», annuncia con enfasi giovedì mattina il Procuratore Mostafà Soliman. Ma è un salamelecco. L’ennesimo. Perché dopo la consegna degli atti da parte del Procuratore Giuseppe Pignatone, le slide e l’esposizione dei referti autoptici sul corpo di Giulio del professor Vittorio Fineschi, quando insomma tocca a loro aprire la borsa, ne esce una striminzita cartellina. Avevano fatto annunciare un dossier di 2 mila pagine, che aveva convinto la Procura ad assicurare la presenza durante gli incontri di 10 interpreti. Ne avevano portate neppure una trentina. Gli inutili tabulati telefonici di Gennaro e Francesco, gli amici di Giulio. L’altrettanto inutile verbale di ritrovamento del suo cadavere. Il grottesco verbale con cui, un testimone, riferiva che «non erano state fatte riprese della riunione sindacale dell’11 dicembre 2015», quella in cui Giulio era stato fotografato. Fuffa.
I DATI DELLE TELEFONATE
Tocca allora a Pignatone, dopo un profondo respiro, chiedere di nuovo quanto era stato promesso dalla Procura generale egiziana: lo sviluppo della cella telefonica del quartiere di “Dokki” (luogo della scomparsa di Giulio) tra le 19,45 e le 20.15 del 25 gennaio e di quella, tra la notte del 2 e la mattina del 3 febbraio, del quartiere “6 Ottobre” (zona del ritrovamento del suo corpo). Ma solo per sentirsi rispondere che quei dati non saranno mai consegnati «per ragioni di privacy ». Il Regime militare di Al Sisi invoca il «rispetto dell’articolo 57 della Costituzione che protegge il segreto delle comunicazioni dei suoi cittadini». E ci sarebbe da ridere se non fosse una provocazione. Non fosse altro perché quell’obiezione non è stata sollevata dall’Egitto né il 14, né il 22 marzo, quando viene preso l’impegno alla consegna. Pignatone tenta allora un’altra strada. «Potreste portare voi i dati ed esaminarli qui a Roma dove vi metteremmo a disposizione i software ». «La privacy ce lo impedisce », rincula l’ineffabile Mostafà.
I DUE ARABI E GIULIO
Non va meglio con i tabulati. Ne aveva chiesti una ventina la Procura. Due su tutti. Quelli di Mohamed Abdallah, capo del sindacato degli ambulanti risentito con Giulio per il denaro di una ricerca non andata in porto. E quelli di Mohamed, il coinquilino di Regeni. Quello che aveva aperto alla Sicurezza Nazionale la casa dove Giulio viveva, tacendogli la circostanza. Ma neanche quelli sono nella borsa dei 6 del Cairo. «Magari, allora, avete le informazioni su quei due nomi arabi che vi abbiamo chiesto il 14 marzo… », abbozza uno dei nostri inquirenti, riferendosi a due singolari chiamate ricevute da Giulio la mattina e il pomeriggio del 25 gennaio, giorno della sua scomparsa, da due cellulari intestati a cittadini egiziani. «Non abbiamo ancora completato l’identificazione », è la risposta.
LA BUFALA DEI RAPINATORI
Giovedì pomeriggio la delegazione egiziana si congeda con un impegno. «Lavoreremo stanotte ». È una balla. Perché non ha nulla da dire. Come del resto scopre lo Sco quando, riaccompagnati i 6 in albergo, vede immediatamente riuscire dall’hotel i quattro generali per un indimenticabile pomeriggio e serata nel centro di Roma. Non a caso, ieri, e questa volta con tavoli separati (i magistrati in una sala, i poliziotti nell’altra), si ricomincia dal nulla. Gli egiziani rianimano la macchinazione della Banda dei 5, i disgraziati cadaveri “serviti” come gli assassini di Giulio. Le domande degli italiani si fanno spazientite. «Perché dei rapinatori avrebbero dovuto torturare Giulio?». «Perché avrebbero dovuto conservarne i documenti?». «Stiamo approfondendo», è la risposta. E poi: «La moglie di uno dei banditi ci ha detto che suo marito aveva litigato con Regeni in strada qualche tempo prima e gli aveva preso il portafogli».
IL VIDEO
Non si capisce dove finisca il dolo e cominci la dabbenaggine. Si sa quando si entra nel grottesco. Quando cioè la delegazione egiziana spiega che fine abbia fatto un video della sera del 25 gennaio recuperato dall’unica telecamera funzionante delle 56 installate nella metropolitana di Dokki. Quel video, ammesso e non concesso riprenda Giulio nel metrò, è sovrascritto da altre immagini. «Bisognerà mandarlo in Germania per una ripulitura», dicono. «È perché non lo avete ancora fatto in due mesi?». «Non c’è stato tempo».
FRANCESCA SCHIANCHI SULLA STAMPA
Il governo richiama l’ambasciatore
e pensa alle prossime mosse
Il rientro di Massari non è una rottura ma un gesto altamente simbolico Ora Roma potrebbe congelare scambi culturali e sconsigliare viaggi in Egitto
L’insoddisfazione era nell’aria già da giovedì, al termine della prima giornata di incontri. Ieri, subito dopo la fine dei colloqui, Farnesina e Palazzo Chigi sono stati avvertiti dagli inquirenti italiani: dal Cairo non sono arrivate le informazioni richieste, niente traffico delle celle telefoniche, niente video della metropolitana.
Non c’è stato, insomma, quel «cambio di marcia» nella collaborazione alle indagini richiesto alla vigilia dell’arrivo nella capitale della delegazione di magistrati egiziani.
Così, la decisione che già si era pensato di assumere in caso di fallimento dell’incontro, presa in filo diretto tra Roma (dov’era il premier Renzi) e Tokyo (dove si trova il ministro degli Esteri Gentiloni, impegnato nel G7) è stata immediatamente comunicata: il nostro ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari, è stato richiamato in Italia per consultazioni.
Un provvedimento temporaneo che non segna la rottura dei rapporti con l’Egitto, ma comunque ad alto contenuto simbolico nel linguaggio della diplomazia. L’ambasciatore partirà alla volta di Roma tra domani e dopodomani e resterà qualche settimana. Il tempo di discutere altre misure «proporzionate» da adottare, come le aveva definite il ministro Gentiloni martedì scorso in Parlamento: in base agli sviluppi della vicenda, si legge nel comunicato pubblicato sul sito dal ministero degli Esteri, «si rende necessaria una valutazione urgente delle iniziative più opportune per rilanciare l’impegno volto ad accertare la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni». Verità che giurano di voler agguantare Renzi e Gentiloni («vogliamo una sola cosa: la verità su Giulio», twitta il ministro); verità richiesta a gran voce dai familiari del ricercatore friulano, che attraverso il loro avvocato esprimono «soddisfazione» per il richiamo dell’ambasciatore a Roma.
È ampio il ventaglio delle possibilità diplomatiche per fare pressione sugli egiziani. Il primo intervento potrebbe essere sugli scambi culturali: ad esempio, sconsigliare studenti e ricercatori che, come Giulio, intendano trascorrere un periodo di approfondimento in Egitto dal farlo. Oppure, sospendere temporaneamente programmi bilaterali nel settore della cultura e dell’Università. Una certa incidenza potrebbe averla anche l’eventuale decisione della Farnesina di dichiarare l’Egitto Paese «non sicuro», scoraggiando viaggi e vacanze tra Cairo piramidi e Mar Rosso. Su un altro livello, si potrebbe agire raffreddando le relazioni politiche, abbassando ad esempio il livello dei contatti (non sarebbero più nostri ministri a partecipare a eventuali incontri nel Paese, ma figure non apicali) o impedendo di viaggiare in Italia a personalità politiche egiziane. Quel che appare certo, a oggi, è che non si terrà il vertice intergovernativo tra Italia ed Egitto che pure era previsto. Appare invece più improbabile al momento il ricorso a misure commerciali come le sanzioni, che pure è un’ipotesi circolata nei giorni scorsi.
Come andare avanti per riportare sui giusti binari la collaborazione se ne discuterà nei giorni in cui l’ambasciatore Massari sarà in Italia. A meno che già il suo richiamo non convinca gli egiziani a una maggiore collaborazione. La prima reazione, ieri sera, è stata quasi piccata: «Il ministero degli Affari Esteri finora non è stato informato ufficialmente» della scelta italiana, diceva un comunicato e «delle ragioni di questo richiamo, tanto più che non c’è stato un comunicato sui risultati delle riunioni delle squadre d’inchiesta egiziana e italiana».
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