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 2016  aprile 08 Venerdì calendario

REFERENDUM TRIVELLE: A CONFRONTO LE RAGIONI DEL Sì E DEL NO


La politica energetica in Italia sembra avere bisogno dei disastri per cambiare direzione. Come i referendum che dopo Chernobyl e Fukushima hanno chiuso la strada al nucleare, anche la consultazione del 17 aprile sulle «trivelle» – che potrebbe imprimere una svolta «antifossili» al sistema energetico italiano – ha le sue lontane origini in una catastrofe: l’esplosione della piattaforma petrolifera Deep Horizon nel Golfo del Messico, che nel 2010 provocò una gigantesca marea nera, i cui effetti nell’area sono gravi ancora oggi. A seguito di quel disastro il governo Berlusconi vietò ogni nuova attività estrattiva di idrocarburi nelle 12 miglia davanti alle coste italiane. Nel 2012 però, passata l’emozione, il governo Monti le permise di nuovo, e nel 2014, nel decreto Sblocca Italia, il governo Renzi dichiarò l’estrazione di petrolio e gas in mare «attività strategica», sottraendola così al consenso delle Regioni. Fu per questo che nove regioni italiane, per la prima volta nella storia, presentarono congiuntamente la richiesta di sei referendum per smantellare quelle norme.
Di fronte alla sollevazione regionale il governo ha alzato bandiera bianca e, con la legge di stabilità di fine 2015, ha riportato la legislazione sulle estrazioni in mare a quella «proibizionista» del 2010, con una sola differenza: le attività ora in atto entro le 12 miglia hanno concessioni (i permessi di estrarre dati dallo Stato ai privati) senza limiti di tempo, valide, in pratica, fino a che ci sarà qualcosa da estrarre. Ed è proprio per abolire o mantenere questa norma, che andremo alle urne il 17 aprile.
«È una norma assurda» dice il geologo Giorgio Zampetti, direttore scientifico di Legambiente, una delle associazioni per il Sì al referendum. «Tutte le concessioni per lo sfruttamento di idrocarburi a terra e in mare oltre le 12 miglia hanno una scadenza trentennale, perché mai dovrebbero essere esentate quelle entro le 12 miglia? Credo sia l’unico caso in Europa in cui è il concessionario, un privato, a poter decidere quanto continuare a sfruttare una risorsa pubblica».
«Per forza che è così», ribatte Pierluigi Vecchia, geologo degli idrocarburi ed esponente del comitato Ottimisti e Razionali, che si batte per il non voto al referendum, così che non raggiunga il quorum del 50 per cento, necessario perché sia valido. «Se vincesse il Sì le concessioni in scadenza nelle 12 miglia non sarebbero più rinnovate e i giacimenti andrebbero abbandonati, con la perdita di migliaia di posti di lavoro. Inoltre chi ha investito in base a leggi esistenti e precisi piani di produzione subirebbe danni e questo porterebbe a cause milionarie di risarcimento, che pagheremmo noi cittadini».
«Se il Sì vince non ci sarà nessuna chiusura di massa e immediata delle attività estrattive entro le 12 miglia» obietta Zampetti. «La loro fine sarebbe scaglionata fra il 2017 e il 2034, via via che scadono i 30 anni di concessione e le eventuali proroghe di 10 anni già ottenute. Un tempo, del resto, quasi sempre sufficiente ad esaurire giacimenti che sono in declino produttivo già da tempo».
Fra i giacimenti di possibile prossima chiusura, però, ce ne sono alcuni che sembrano ancora in buona salute, come quello dell’Eni davanti a Crotone, che pur avendo la fine concessione al 2018, nel 2015 ha fatto il record del gruppo, con 557 milioni di metri cubi di metano estratti.
Scorrendo l’elenco degli impianti «in ballo» con il referendum, si scoprono poi altre sorprese. La prima è che, nonostante si parli sempre di «trivelle», in gioco in realtà non ci sono perforazioni ma un’ottantina di piattaforme che gestiscono centinaia di pozzi trivellati molti anni fa. La seconda sorpresa è che, anche se si insiste molto sul pericolo di maree nere, quasi tutte queste piattaforme estraggono metano, con rischi di inquinamento molto ridotti.
«Si tratta comunque di impianti industriali dove un incidente sarebbe grave per l’ambiente» dice Zampetti. «E anche se le piattaforme petrolifere sono poche, una perdita in una di queste avrebbe conseguenze pesanti. Lo dimostra quello che è avvenuto il 13 marzo davanti alla Tunisia, quando la rottura di un tubo in un impianto offshore ha sporcato di greggio tre chilometri di spiagge». «Ma gli standard di sicurezza italiani sono fra i più rigidi del mondo: sono più di 50 anni che non si verificano incidenti» ribatte Vecchia.
Un’inchiesta di Greenpeace sui dati, mai resi pubblici, delle analisi condotte fra 2012 e 2014 dall’Ispra sui sedimenti e sulle cozze intorno a 34 piattaforme a gas nell’Adriatico (le altre non sembra siano mai state controllate) ha però rilevato nel 79 per cento dei casi valori superiori ai livelli accettabili per metalli pesanti e idrocarburi aromatici. Quindi, tanto innocue le piattaforme non sembrano essere. «È molto strano, perché quegli inquinanti non sono usati nella produzione di metano nelle piattaforme. Potrebbero quindi avere un’origine esterna» dice Vecchia. «Ma torniamo al punto vero: perché dovremmo lasciare nel sottosuolo risorse utili, su cui abbiamo già impianti? Nessuno al mondo accetterebbe un simile spreco: anche Obama, che ha proposto di vietare le estrazioni oltre le 3 miglia in Atlantico (il governo federale ha giurisdizione oltre quella distanza, prima le acque sono dei singoli Stati), non vuole toccare le attività già esistenti». Una risposta si può trovare in quello che l’economista Paul Ekins, del London University College, scriveva in un articolo su Nature nel 2014: per non far crescere le temperature globali oltre i 2°C rispetto al 1850 bisognerà lasciare nei giacimenti il 53 per cento del gas e il 35 per cento del petrolio. «Anche se chiudessimo le estrazioni entro le 12 miglia» fa però notare Vecchia «non calerebbero subito i consumi italiani, e avremmo comunque bisogno di importare quel gas e quel petrolio. I promotori del Sì, quindi, stanno in pratica proponendo di far estrarre quegli idrocarburi da qualche altra parte». «Ovviamente noi non proponiamo più importazioni, ma di ridurre la nostra dipendenza con più efficienza e più energie rinnovabili» replica Zampetti. «Negli ultimi dieci anni abbiamo ridotto i consumi annui di petrolio da 85 a 58 milioni di tonnellate e di metano da 87 a 67 miliardi di metri cubi».
Ed è forse proprio questa la vera posta in gioco per i promotori del referendum: non tanto anticipare di qualche tempo la chiusura degli impianti più vicini alle coste ma innescare un dibattito sul sistema energetico e mandare un segnale politico al governo per un suo maggiore impegno verso le rinnovabili, finora decisamente trascurate.
«Puntare ancora sulle energie fossili per il futuro dell’Italia, grattando il fondo del nostro minuscolo barile, denota mancanza di lungimiranza» dice Luca Pardi, chimico-fisico del Cnr e presidente Aspo, associazione che studia il mondo dell’energia. «L’attuale prezzo basso del greggio ha ridotto la ricerca e lo sviluppo di nuovi giacimenti, mentre la domanda cresce. Le riserve quindi calano, mentre i costi di estrazione crescono. L’attuale situazione non durerà e l’Italia non eviterà i futuri problemi energetici grazie ai suoi piccoli giacimenti, pari a pochi mesi di consumi nazionali. Sarebbe saggio lavorare per superare la dipendenza da petrolio e metano puntando decisi su efficienza e rinnovabili, che darebbero anche più posti di lavoro di quelli persi negli idrocarburi».
Alex Saragosa