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 2016  aprile 08 Venerdì calendario

LA FILOSOFIA DEL KAIZEN CHE DÀ IL POTERE AGLI OPERAI


Provate a immaginare una fabbrica dove siano aboliti decisioni e ordini rigidi calati dall’alto. Dove l’operaio possa indicare come modificare una catena produttiva per renderla più efficiente. Dove la piramide del potere sia in qualche modo rovesciata e le maestranze propongano, e dispongano anche. Dove le fasi della produzione non siano stabilite una volta per tutte, ma possano essere modificate continuamente, con piccoli accorgimenti, suggeriti dal basso. La multinazionale giapponese Toyota è riuscita a fare di questa filosofia produttiva un modello industriale di successo, e nel museo di Nagoya la propone riassunta, in una prima, semplice regola: rispetto per le persone. Di mezzo ci sono zen e umanesimo. Ma, al contempo, molta praticità. Si tratta del cosiddetto metodo Kaizen, un mix tra riflessione, creatività e buon senso, ma soprattutto convinzione che sia utile mettere sempre in discussione gli schemi mentali abituali.
Anche in Italia oggi oltre mille aziende rivendicano di applicare il metodo Kaizen con ottimi risultati. Meno sprechi, più redditività, maggiore qualità. Geox, colosso della moda quotato in Borsa (l’anno scorso ha superato 870 milioni di euro di ricavi), è una delle tante. Giorgio Presca, amministratore delegato, sintetizza così: «Chiedermi come si fa una cucitura sarebbe inutile e sbagliato. Questo significa che chi è in alto nelle gerarchie non possiede tutte le competenze e quindi deve ascoltare chi le ha. Ma c’è dell’altro: servono luoghi in cui chi ha le capacità manuali possa esprimere le sue idee, anche le più folli, per evitare che nella produzione si resti sempre fissati sullo stesso tipo di pensiero. La storia è piena di innovatori che sono stati derisi e denigrati. Invece è essenziale avere il coraggio di cambiare abitudini sbagliate. E di coinvolgere tutti nella ricerca di nuove idee». Quando, per esempio, Geox ha deciso di entrare nei mercati scandinavi, si è affidata al metodo Kaizen per trovare innovazioni capaci di proteggere dal freddo estremo. Chiedendo il contributo di tutti, dagli operai ai manager.
Secondo l’economista giapponese Masaaki Imai, che dalla fine degli anni Ottanta lo diffonde nel mondo, il metodo Kaizen è prima di tutto «uno stato d’animo mai soddisfatto dallo status quo: tutto ciò che facciamo dovrebbe essere migliorato continuamente». Imai, un uomo gentile e pacato, ha 86 anni. Ha fondato il Kaizen Institute per divulgare il suo metodo in Occidente (la sede italiana è a Bologna). E oggi è una star internazionale contesa dalle università. Sale in cattedra e racconta come, per migliorare quello che si fa, sia anzitutto necessario cercare uno sguardo diverso sulle cose.
Il Gemba, che in giapponese significa «posto reale», è il luogo dove si svolge l’azione. Può essere un reparto della fabbrica. Potrebbe anche essere un ospedale o una qualsiasi struttura della pubblica amministrazione. È lì, dice Imai, che occorre osservare ogni oggetto, impianto o relazione con occhi nuovi, «per identificare il problema e poi risolverlo applicando il buon senso». Cosa non sempre facile se ci si impunta su modelli di pensiero precostituiti. «Moltissimi dei problemi che affrontiamo possono essere risolti semplicemente usando il buon senso» dice. Così la mentalità manageriale caratterizzata dalla dipendenza da schemi tanto elaborati quanto rigidi appare il principale ostacolo al problem solving, il processo cognitivo che consente di analizzare una situazione ed escogitare una soluzione. Quindi contro l’arroganza intellettuale va riscoperta l’umiltà. Bel match. Con un vincitore inatteso.
Quando, qualche decennio fa, alcuni grandi gruppi industriali occidentali si accorsero che nel lontano Oriente Toyota cresceva impiegando meno capitale finanziario, cominciarono a chiedersi quale fosse il suo segreto. Lo fecero multinazionali come la General Electrics e la Chrysler negli Stati Uniti. E lo fece anche la Fiat, in Italia. Il Lingotto tentò l’emulazione durante l’era di Vittorio Ghidella, amministratore delegato tra la fine degli anni Settanta e la fine degli Ottanta. «Fu l’epoca del lancio del just in time, in base al quale si produce solo ciò che è stato già venduto o si prevede di vendere davvero» ricorda Bruno Fabiano, cofondatore di Kaizen Italia. «La Fiat fece però l’errore di limitarsi a un copia e incolla del metodo, senza cercare soluzioni personalizzate». Tante aziende sono invece riuscite a fronteggiare la crisi economica proprio modulando sulle loro esigenze specifiche la filosofia giapponese. Che poi interamente giapponese non è.
Tutto partì infatti con un ingegnere e saggista americano, Edward Deming, spedito dagli Stati Uniti in Giappone nell’ambito del piano Marshall, per la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale. A lui si deve la creazione del cosiddetto ciclo di Deming, per il miglioramento continuo della qualità della produzione industriale. Gli Usa però lo archiviarono rapidamente mentre i giapponesi presero Deming molto sul serio e ne fecero un eroe nazionale. Il metodo Kaizen sviluppato da Masaaki Imai parte da lì. E ora, dopo essere stato per decenni gloria del Sol Levante, ha iniziato a farsi strada anche in Europa e in America.
In Italia, per esempio, in provincia di Venezia, nello stabilimento di Acque minerali San Benedetto (quartiere generale a Scorzè), cinque anni fa decisero di concentrarsi sulla riduzione del tempo necessario a cambiare lo stampo di una bottiglia. «Prima occorrevano quattro ore, ora ne impieghiamo solo una e mezza» dice il direttore generale del gruppo Frederic Barut. «Così abbiamo ridotto i costi e aumentato la capacità produttiva. Lo abbiamo fatto eliminando tutte le attività inutili e a ideare i vari cambiamenti sono stati gli operai, quelli che hanno il know how». In pratica, nello stabilimento, un lavoratore ha cominciato a cronometrare i tempi produttivi, un altro quelli non produttivi, un terzo ha iniziato a contare i chilometri quotidiani per andare da un luogo all’altro della fabbrica in cerca di una vite, di un bullone, di un trapano. E poi si sono cercate soluzioni semplici per accorciare i tempi.
Altrove hanno inventato invece il «supermercato» per l’approvvigionamento del materiale necessario alla produzione: «Scaffali bassi, carrellini. I dipendenti passano ed è come se facessero la spesa, diminuendo così sprechi e tempo» dice Paolo Fracassini, responsabile della produzione di Argo Tractors, a Fabbrico (hinterland di Reggio Emilia), che con oltre 1.600 dipendenti produce macchine agricole destinate per oltre l’80 per cento all’estero. Nello stabilimento più di un caporeparto all’inizio ha puntato i piedi. Poi, però, i prezzi sul mercato si sono abbassati, il reddito del gruppo è cresciuto. E anche i più ostili al cambiamento hanno cambiato idea.