Giuseppe Scaraffia, il venerdì 8/4/2016, 8 aprile 2016
L’ANTICA ARTE DI APPENDERE IL CAPPELLO
In inglese si dice to get one’s feet under the table, in italiano «appendere il cappello», ma il significato è sempre lo stesso: sistemarsi sposando una persona agiata. Un’operazione non facile, che richiede tatto e abilità. Di solito chi è meno benestante cerca nel coniuge una figura genitoriale, in grado di garantire il suo benessere. Per questo i settantenni con pensione statale non vanno a ruba, a differenza dei coetanei milionari: perché non rappresentano figure paterne.
Il matrimonio della macchina da cucire con la lira, così era stata bollata la riuscitissima unione tra il principe de Polignac e Winaretta Singer, entrambi omosessuali e melomani. A chi glielo rinfacciava il principe replicava: «La macchina da cucire è una grande artista, la mia lira ha una sola corda, ma le grandi rendite di mia moglie mi daranno un’orchestra».
Meno riuscito un analogo esperimento tra la pittrice lesbica Romaine Brooks e un pianista gay troppo attento alle convenienze. Ma una separazione e un adeguato assegno di Romaine avevano risolto ogni contrasto.
Sostanzialmente riuscito potrebbe definirsi il matrimonio tra la madre di Proust, l’ereditiera ebrea Jeanne Weil, e un medico di successo, il professor Adrien Proust. Certo il luminare era un po’ volage, ma amava la famiglia e nessuno è perfetto. Meno soddisfacenti le nozze della contessa Greffulhe, l’ispiratrice della duchessa de Guermantes nella Ricerca del tempo perduto. Il ricchissimo marito tradiva implacabilmente la bellissima e fedelissima consorte con quelle che lei definiva sprezzantemente «donne da materasso».
Un eccesso di utilitarismo poteva essere fatale. Un disastro l’unione tra il dandy Boni de Castellane e l’ereditiera americana Anna Gould. Quando faceva visitare il suo meraviglioso palazzo, costruito con le finanze della moglie, arrivato alla camera di Anna, diceva indicandola: «E questa, è il rovescio della medaglia». Spese folli e tradimenti senza fine avevano suggellato il divorzio.
Altri matrimoni sembravano degni di una fiaba. La bellissima Caroline Blackwood, erede dei birrai Guinness, non era soltanto intelligente, ma apparteneva a una delle famiglie più aristocratiche dell’Inghilterra. Lui, Lucian Freud, era non solo un libertino e un artista ancora sconosciuto, ma, pecca imperdonabile nell’ambiente nobiliare, un ebreo. A indurlo alle nozze era stata anche, spiegava lui stesso, «una ragione pratica. Lei aveva un po’ di denaro, eredità di suo padre, che non poteva toccare finché viveva nel peccato». Peccato che Freud fosse non solo compulsivamente infedele, ma anche dispotico e sempre di cattivo umore. Quando lei se ne andò, la suocera esultò: «È meraviglioso. Caroline se n’è andata, via, via, via».
A volte essere cacciatori di dote non basta. Quello tra una ragazza grassoccia ma ricca e un ascetico dandy, Marcel Duchamp, ne fu un esempio. Lo si sarebbe potuto definire un matrimonio d’interesse, se la famiglia della sposa, insospettita dalle ragioni di quel seduttore privo di mezzi, non avesse fortemente limitato la rendita a Lydie. Deluso, Duchamp aveva abbandonato la pittura per gli scacchi. Una sera, stanca di aspettare il suo ritorno, la moglie glieli aveva fatti trovare incollati alla scacchiera. Inevitabile il divorzio.
Il duca di Galles che aveva cercato invano di opporsi al matrimonio della figlia Maria col giovane e squattrinato D’Annunzio, affrettato da una fuga d’amore e da un parto imminente, stava in realtà espiando il suo passato. Infatti quando era arrivato a Roma, al seguito dell’esercito francese, Jules Hardouin era un semplice sottufficiale che solo l’ostinato amore di una nobildonna aveva elevato al rango di duca. Tre figli non sarebbero riusciti a trattenere l’irruente D’Annunzio, che però rimase sempre in ottimi rapporti con la consorte.
A volte fare un buon matrimonio è un riflesso inconscio. Non si sa come, insinuavano i maligni, ma ogni moglie di Hemingway era più ricca della precedente. Se la povera Hadley gli aveva perso freudianamente una vecchia valigia piena di manoscritti, la facoltosa Pauline gliene aveva fatta trovare una di Vuitton, molto amata dallo scrittore per la sua praticità.
Certo l’amore prolunga le unioni di questo tipo. «Cara, non penserai mica che mi metta a lavorare?», aveva chiesto André Malraux a Clara, la giovane moglie dell’alta borghesia ebraica che aveva fino all’ultimo centesimo finanziato i suoi viaggi e le sue speculazioni. Una fuga a Firenze aveva cancellato i dubbi della famiglia della sposa. Ma i familiari non sapevano che i due, romantici e innamorati, si erano reciprocamente promessi di divorziare entro sei mesi. Invece la coppia sarebbe durata ben quindici anni.
Al povero Sacher von Masoch non bastarono il fascino, il benessere, il titolo nobiliare e persino una specie di contratto per garantire un matrimonio felice. Ben presto l’ingrata moglie, salvata dalla povertà, si era stancata di umiliarlo avvolta in una pelliccia e aveva fatto causa comune con l’uomo scelto per tradirlo, lasciandolo in un mare di debiti.
Nel 1925 l’incontro con una bellissima pittrice svedese salvò il profeta del dadaismo, Tristan Tzara, da una scomoda precarietà. Il dadaista affidò al grande Adolf Loos la costruzione di una modernissima villa, ancora visibile a Montmartre. Ormai Tzara era al sicuro, aveva persino una cuoca ma continuava la sua battaglia: «Sono contro tutti i sistemi, il più accettabile è quello di non averne nessuno».
Giuseppe Scaraffia