Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  aprile 08 Venerdì calendario

Notizie tratte da: Theodora Bosanquet, Henry James al lavoro, Castelvecchi, Roma, 2016, pp. 62, euro 9,50Vedi Libro in gocce in scheda: 2352674Vedi Biblioteca in scheda: mancaVirginia Wolf era tra gli appassionati di Henry James at Work, il libro che Theodora Bosanquet ha dedicato allo scrittore scomparso

Notizie tratte da: Theodora Bosanquet, Henry James al lavoro, Castelvecchi, Roma, 2016, pp. 62, euro 9,50

Vedi Libro in gocce in scheda: 2352674
Vedi Biblioteca in scheda: manca

Virginia Wolf era tra gli appassionati di Henry James at Work, il libro che Theodora Bosanquet ha dedicato allo scrittore scomparso. La cui vocazione per la letteratura era «chiara e imperiosa come la fede di un santo nel fondo di un monastero».

Quando una mattina di agosto Theodora Bosanquet sente dettare Gli ambasciatori di Henry James la sua vita cambia per sempre. A ottobre del 1907 quel posto da dattilografa è suo.

Abbinamenti improbabili quelli dello scrittore Henry James. L’uomo massiccio e possente, che quando si lasciava crescere la barba sembrava un ammiraglio, un lupo di mare, abbinava i colori con disinvoltura. Come quella volta che si presentò con i pantaloni verdi e un gilet scaccato di blu e giallo.

Lo scrittore cacciava i gatti con grida di profondo disprezzo.

Un fastidio al polso costringe Henri James, sin dagli anni Novanta, alla dettatura. Di questo suo espediente il letterato dice: «Mi sembra che tutto si dipan[i] molto più sicuramente attraverso la bocca che attraverso la mano». Lo stesso non era per le opere teatrali e per i racconti, infatti, «sapeva bene […] che la fatica manuale dello scrivere era l’aiuto migliore per ottenere la brevità necessaria». Proust, d’altronde, non dettò mai la Recherche.

Quando l’opera teatrale La protesta venne messa in scena, dalla Stage Society nel 1917, gli attori provarono «imbarazzo a pronunciare le proprie battute». Il modo di parlare di Henry James, infatti, «grazie anche alla pratica della dettatura, era diventato così irrimediabilmente caratteristico che una domanda a un impiegato delle ferrovie riguardo a un biglietto o a un pescivendolo riguardo a un’aragosta potevano facilmente essere riconosciute come uscite dallo stesso conio che usava indirizzandosi al Comitato Accademico della Royal Society of Literature».

Quel giorno che dovette sostituire la sua macchina da scrivere, una Remington con una Oliver, perché fuori uso fu incapace di dettare. A mancargli era quel ticchettio metallico divenuto negli anni così amico.

«Tanti anni di esperienza […] gli avevano insegnato a non lasciare una parola più lunga di una sillaba in balia della sorte. Si dava pena di pronunciare ogni lettera pronunciabile, compitava le parole che all’orecchio si sarebbero potute confondere con altre, e non c’era segno di interpunzione che lasciasse inespresso, tranne qualche volta il punto fermo. Occasionalmente apriva una piccola “parentesi”, qualche parola per delucidare la dattilografia, aggiungendo ad esempio, dopo aver compitato The Newcomes, che si trattava del titolo di un romanzo di Thackeray [William Makepeace, ndr]».

Henry James era una persona premurosa. Quando Theodora era malata questa si vedeva recapitare mazzi di rose rosse e quando era stanca della cioccolata. A Natale, invece, era immancabile un paio di guanti.

Henry James aveva le gambe corte. Il suo «esercizio indispensabile alla composizione letteraria» lo portava a macinare chilometri su e giù per la stanza. Una volta a Theodora disse: «Lo so che quando detto sono troppo prolisso». Se poi una parola sgattaiolava via dalla sua mente: «interrompeva il ritmo della camminata e […] si avvicinava alla mensola del camino o a uno scaffale abbastanza alto da poterci posare sopra i gomiti mentre faceva riposare la testa tra le mani inseguendo ad alta voce la fuggitiva».

«Ogni mattina, dopo aver riletto le pagine scritte il giorno prima, si sistemava in una poltrona e per un’ora circa si sottoponeva a uno sforzo cosciente. Poi, trascinato da un’ondata di ispirazione, si alzava in piedi e, misurando la stanza ad ampie falcate, faceva risuonare accenti di una vibrante certezza. In quei momenti, non poteva essere disturbato da nessun rumore o spettacolo. Orde di gatti […] potevano piangere sotto la sua finestra, falangi di automobili cariche di visitatori importuni mettersi a strombettare davanti alla sua porta, e lui non sentiva niente».

Era prolisso e quando scriveva «con una distesa di 100.000 parole e oltre davanti a sé, Henry James cullava sempre l’ingannevole speranza di esaurire facilmente il suo tema rimanendo nei limiti imposti dalla copertina del volume. Il problema dello spazio cominciava a infastidirlo solitamente quando era già oltre la metà del percorso».

La crespa Cornelia nasce dall’impossibilità per lo scrittore di rispettare il rigido limite di 5.000 parole imposte dall’«Harper’s Montly Magazine». Il risultato finale fu un racconto tanto lungo da uscire in due puntate. Lui, per sua stessa ammissione, «rompeva gli argini».

Le automobili suscitavano il lui «un vigoroso accesso di meraviglia, ammirazione o orrore nei confronti della complessità di un’epoca che produceva dei mostri così efficienti da divorare in un sol boccone le distanze protettive». Era «uno dei pochi uomini che non avevano la minima pretesa di capire il funzionamento di qualsiasi macchina», inclusa quella da scrivere. Nonostante ciò salire su un’auto gli dava «la sensazione di un’avventura spirituale». Lo stesso brivido che evocava in Proust.

Henry James cercava l’ispirazione dalle conversazioni con gli amici. «Ricostruendo e calibrando un cumulo di aneddoti poteva infallibilmente tirare fuori il nucleo vivo di un’opera d’arte». «Prendeva tutto ciò che gli potevano dare e lo restituiva nei suoi libri».

«Si può dire che il suo unico svago fosse coltivare amicizie». Meglio se loquaci: «essere “incapaci di esprimersi” era per lui il vizio capitale della società, che ai suoi occhi equivaleva a trattenere deliberatamente i tesori dell’esperienza altrui».

«Nell’intimità della composizione, proporzioni e disposizioni preappuntate raramente tendono a diventare qualcosa di diverso attraverso variazioni e cambiamenti migliorativi, certi elementi si impongono mentre altri se ne vanno tenendo aperta la porta per qualcosa di più giusto e più appropriato. Fare appunti preliminare e bozze provvisorie è sempre soggetto a questa costante possibilità».

«Tra i personaggi creati da Henry James la menzogna è frequente quanto tra i comuni mortali e non più semplice da individuare».

Se c’era una cosa che proprio lo irritava era «essere acclamato in quanto autore di Daisy Miller [uscito per la prima volta nel 1878, ndr] da persone che avevano solo una vaga idea delle Ali della colomba o della Coppa d’oro». Questa «era una delle tante ragioni per cui Henry James aveva perso la fiducia nella comprensione intellettuale. Accostato ripetutamente a Daisy, si sentiva come una grande dame che, pur avendo un portagioie pieno di diamanti, fosse costretta dai suoi ammiratori a portare sempre il semplice filo di pietre di luna indossato in occasione del suo debutto in società».

Oltremodo critico verso se stesso, «una mattina, obbligato a trascorrere il tempo selezionando una serie di racconti per il volume futuro [New York Edition, ndr], confessò che la difficoltà della selezione risiedeva principalmente nella difficoltà di leggerli tutti: “Mi sembrano così brutti mentre li leggo che non posso andare avanti se non con una penna in mano, modificando via via gli errori grossolani e ingenui che a mio giudizio deformano ogni pagina».

«Henry James era […] profondamente convinto che i suoi primi scritti potessero essere migliorati quasi in ogni frase». Ne è un esempio la seconda versione, più ironica, dell’Americano. «Nella prima edizione, Valentin avvertiva il suo amico delle peculiarità dei Bellegarde […]: “Mia madre è strana, mio fratello è strano e io credo fermamente di essere ancora più strano. I vecchi alberi hanno strane crepe, le vecchie stirpi hanno bizzarri segreti”. Nella versione rivista, aggiungeva: “Staremmo bene in un museo o in un romanzo di Balzac”».

Processo di ri-lettura e di ri-scrittura si fondevano. A tal riguardo diceva: «Era come se mentre la chiara materia era ancora là, simile a una scintillante distesa di neve su una pianura, il mio passo di esploratore avesse del tutto disimparato l’antico ritmo e si fosse trovato naturalmente a seguirne un altro, che poteva a volte accordarsi più o meno con le orme originali, ma che più spesso fendeva la superficie in altri luoghi. Quel che era soprattutto interessante, ad ogni modo, era la somma spontaneità di queste deviazioni e differenze, che diventavano, in tal maniera, questioni non di scelta bensì di immediata e perfetta necessità: necessità fino alla fine, di trattare le quantità in questione».

A chi lo criticava per il moltiplicarsi delle frasi descrittive e per l’abuso di avverbi rispondeva: «Gli aggettivi sono lo zucchero della letteratura e gli avverbi il sale».

In fatto di opinioni Henry James non fu dei più teneri. Sul conto dello scrittore soprannominato il “mastino di Darwin” diceva: «Huxley è un essere veramente geniale… Ma ovviamente la mia conversazione con lui non è che amabilmente generica». Di Ruskin che «era pura e semplice debolezza» e, per finire, che era «facile ̶ più che facile ̶ aggirare Flaubert intellettualmente».

Quando durante una colazione inglese gli venne chiesto cosa ne pensasse del Generale Grant e della formazione del suo primo Gabinetto, di cui tutti i giornali parlavano, fu colto da grande imbarazzo: «A quanto pareva, in America succedevano cose interessanti e io», disse, «assurdamente, ero dovuto venire in Inghilterra per scoprirlo: io non avevo la benché minima idea di tali avvenimenti ̶ non mi sembrava che fosse accaduto niente di interessante da ricordare almeno non dai tempi della Guerra». [Autobiografia degli anni di mezzo]

Del suo soggiorno in Italia raccontò di non aver mai parlato con un italiano in quasi un anno «salvo con lavandaie e camerieri». «[…] Persino una creatura abituata quanto me a sentimentalizzare, quando si tratta dell’intera mise en scène della vita italiana, non riesce ad accettare facilmente ciò che ci sta dietro. A volte sono sopraffatto da quanto sia pietoso questo assurdo desiderio di reciprocità tra l’Italia in sé e tutti i miei ampollosi panegirici al riguardo».

Henry James nasce negli Stati Uniti e mal soffre la città di Londra, nostalgico della raffinata civiltà di Boston degli anglosassoni dice: «Non ricordo di aver udito da labbra inglesi altro giudizio intellettuale (qualsiasi fosse la provocazione a cui si rispondeva) che non fosse la generica sintesi “incredibilmente intelligente”. La cosa esasperante non è che non riescono a dire di più, ma che non vogliono farlo, nemmeno se ci riuscissero, affondando nell’ottusa accettazione e nel conformismo britannici… Sto perdendo il mio livello ̶ il mio buon vecchio livello che ritenevo essere così alto; il mio livello di buon senso, di grazia, di buone maniere, di vivacità, di urbanità, di intelligenza, di ciò che rende facile e naturale il modo in cui mi relaziono! E tutto ciò per aver cenato fuori 107 volte durante lo scorso inverno!».

Il poeta e critico letterario britannico Edmund Gosse ricorda così Henry James, ospite insieme a lui a una scampagnata di artisti e scrittori nell’estate del 1886: «Tra tutti noi, […] era l’unico placido ̶ benevolo, indulgente ma serio, e raramente austero dietro quel ghigno geniale… Si ricorda ancora con quanta affabilità indossò una ghirlanda di fiori a una festa di compleanno e anche, abbassandosi nobilmente, prese parte una sera a uno scherzo. Ma soprattutto, pur non essendo molto più anziano di noi, era serio, con l’aria vagamente da zio, ma contento e non sprezzante».

Nel 1915 lo scrittore presta Giuramento di Fedeltà al Re d’Inghilterra, muore il 28 febbraio 1916. Disse: «Ero veramente troppo legato, prima, per un cambiamento simbolico di simile importanza». «Questo evento mi ha solo mostrato ciò che ero virtualmente ̶ cosa che è piuttosto deludente rispetto a un’acuta sensazione».