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 2016  aprile 08 Venerdì calendario

COSÌ MAFIA CAPITALE DIVENTA LETTERATURA ALLO STATO PURO

COSÌ MAFIA CAPITALE DIVENTA LETTERATURA ALLO STATO PURO –
C’è stato il criminale che teneva imballati 107 dipinti di inestimabile valore nel caveau di una banca, al riparo da sguardi indiscreti: però anche dei propri. E chi i quadri li teneva appesi alle pareti del salotto: Nicola Schiavone, figlio del boss dei casalesi Francesco Schiavone, pittore dilettante che per la sua somiglianza con l’attore indiano Kabir Bedi si era guadagnato il soprannome di Sandokan. La pinacoteca di Massimo Carminati, o meglio la prova della sua esistenza, i carabinieri l’hanno invece trovata sedici mesi fa durante le indagini di Mafia Capitale in un armadio di ferro sul balcone della cucina di un anonimo appartamento al primo piano di un anonimo palazzo in una via anonima del quartiere Aurelio, a Roma. Lì, abitavano i suoceri del “Cecato”. Lo chiamavano così perché aveva perso l’occhio sinistro in uno scontro a fuoco quando aveva 23 anni. Allora era soltanto un estremista di destra: militava nei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. Inseguito da un mandato di cattura, stava tentando di espatriare con due camerati in Svizzera, di notte. La Renault 5 su cui si trovava, che procedeva anche a fari spenti, venne bloccata dalla polizia con una raffica di mitra e un proiettile raggiunse il giovane Carminati alla testa.
Poteva essere l’epilogo di una carriera da fuorilegge. Se anziché rappresentare un handicap, quella terribile menomazione non avesse addirittura segnato un salto di qualità. Da gregario del terrore nero a “Re di Roma”, come lo ha definito Lirio Abbate sull’Espresso, scoperchiando, tre decenni dopo quell’episodio, il pentolone delle nuove alleanze criminali nella capitale. «Ho un ricordo chiaro», scrive Abbate, «della scena in cui le fonti hanno svelato la sua identità: gesticolavano, in silenzio; poi con una mano si sono tappati l’occhio, alla fine hanno pronunciato con tono di voce basso, quasi impercettibile quel nome, Carminati. Ripetevano che Carminati non aveva paura di nessuno, si sentiva protetto e immortale: “Aveva visto la morte in faccia e l’aveva sconfitta”. Ecco perché tra i criminali romani era diventato un capo da rispettare».
Il curriculum, del resto, parlava chiaro. Processato e assolto per omicidi. Poi rapine in banca, ricettazioni, e la Banda della Magliana. Fino a diventare letteratura allo stato puro. È lui “il Nero” di Romanzo Criminale, il best-seller scritto dal magistrato Giancarlo De Cataldo e ispirato alle gesta di quella banda guidata da Enrico “Renatino” De Pedis che ha insanguinato per 15 anni la capitale d’Italia. Ma nemmeno la più fervida fantasia, forse, poteva immaginare l’esistenza di quella pinacoteca: sei Guttuso, 25 Schifano, due Keith Haring, De Chirico, Montanarini, e perfino un Picasso. I documenti che attestavano la proprietà di tutto quel ben di Dio galleggiavano dentro l’armadio metallico sul balcone dei suoceri in mezzo a una catasta di custodie di orologi Rolex. Tutte vuote.
Il contenuto di quel ripostiglio dice molto a proposito del “Mondo di Mezzo”, la zona grigia dell’assenza di regole e convenzioni, dove la torbida poltiglia di politica, affari e interessi criminali dispiega tutta la sua lucida efficacia. «Ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C’è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico»: sono parole di Carminati.

Detenuto modello. Nel Mondo di Mezzo girano tanti soldi. Si fanno su tutto: sugli appalti comunali, sugli affari delle aziende municipalizzate, sull’emergenza abitativa, sui campi nomadi e la gestione degli immigrati. Soldi sui poveracci, e con una facilità sconcertante. «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno», dice al telefono a una sua collaboratrice Salvatore Buzzi, insieme a Carminati l’altro personaggio chiave nell’inchiesta Mafia Capitale.
Perché nel Mondo di Mezzo teorizzato dal “Cecato” può pure accadere che un ex estremista nero legato alla Banda della Magliana stringa un sodalizio di ferro con un ex galeotto diventato un’icona della sinistra. Poco più che ventenne, Buzzi lavorava in banca ma non era affatto un impiegato modello. Aveva imboccato la cattiva strada, una strada fatta di assegni trafugati, e un giorno d’estate del 1980 uccise il suo complice con 34 coltellate. Si beccò una condanna a 24 anni, ma, al contrario di Carminati, quell’episodio fu l’occasione di un clamoroso riscatto. Miriam Mafai ne parlò in un articolo su Repubblica, raccontando di un convegno senza precedenti nel carcere di Rebibbia sulla condizione dei detenuti, dove un «giovanotto bruno e barbuto» parlava della necessità di costituire «una cooperativa agricola per la gestione della Tenuta del Cavaliere, ora in gestione patrimoniale del Comune di Roma». Un giovanotto con sulle spalle quasi un quarto di secolo di detenzione, che appena finito di leggere la sua relazione intitolata “Misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna”, stringeva la mano al senatore Giuliano Vassalli, al sindaco di Roma Ugo Vetere, all’onorevole liberale Aldo Bozzi e al direttore del Popolo Giovanni Galloni.
Il giovanotto carcerato era stato il primo in Italia a laurearsi in cella con 110 e lode in Lettere e filosofia, e quel giorno, il 29 giugno del 1984, iniziava un percorso culminato dieci anni più tardi, dopo sei trascorsi in carcere e un periodo di semilibertà, con la grazia concessa dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. In breve, Salvatore Buzzi era diventato il punto di riferimento per le comunità di diseredati di tutta Roma. Alla cooperativa 29 giugno, che aveva fondato già nel 1985 e intitolata a quel giorno storico, nessuna giunta comunale avrebbe mai potuto rifiutare un gesto di benevolenza. Qualche appalto per il verde pubblico, il portierato dei residence affittati a peso d’oro dai privati per alloggiare le famiglie bisognose, fino alla gestione dei campi nomadi. E il business cresceva, e cresceva, al riparo delle gare pubbliche, con proroghe continue degli affidamenti. Finché intorno alla Cooperativa 29 giugno non si è costruito un autentico impero.
Società immobiliari, imprese di costruzioni, officine meccaniche, energie rinnovabili... Per un giro d’affari astronomico, se si considera la base di partenza: gli ispettori del ministero dell’Economia accertarono che nel solo 2012 il consorzio Eriches 29, che faceva capo a Buzzi, aveva incassato 6,4 milioni. Il tutto grazie alle proroghe. Niente male per una cooperativa sociale. Gli interessi spaziavano in tutta la città, fino al litorale di Ostia, da anni nelle mani delle mafie locali. E con i metodi classici del Mondo di Mezzo, almeno secondo i magistrati che un anno fa spiccarono un mandato di cattura nei confronti di Andrea Tassone, il presidente democratico del municipio che governa quel gigantesco quartiere di Roma: dalle intercettazioni gli inquirenti avevano tratto la convinzione che avrebbe intascato denaro per favorire le cooperative di Buzzi. Nessuna conclusione è lecito trarre prima del giudizio definitivo. Ma è un fatto che Buzzi, parlando di Ostia con una sua collaboratrice, aveva ammesso: «’Na mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso... so’ tutti corrotti, non so se l’hai capito».
Il fondatore della 29 giugno era intoccabile. Lo invitavano ai talk show, i politici pendevano dalle sue labbra. Aveva sponde a sinistra, dov’era considerato una specie di Madonna pellegrina, come sul versante opposto. L’ex amministratore delegato dell’Ama Franco Panzironi, che era contemporaneamente segretario generale della Fondazione Nuova Italia di Gianni Alemanno, ha detto ai giudici che Buzzi avrebbe finanziato con 200 mila euro la campagna elettorale dell’ex sindaco di destra. Il quale ha subito smentito il suo ex fedelissimo: «È la terza volta che Panzironi ripete le stesse falsità prive di ogni riscontro nelle carte processuali».

Marciume e sciacalli. Comunque sia andata, l’autorità di Buzzi nel mondo politico, senza distinzione di schieramenti, era fuori discussione. Alla vigilia delle elezioni che l’avrebbero incoronato sindaco di Roma, Ignazio Marino si spinse a promettere: «Il primo stipendio da sindaco di giugno 2013 lo investirò tutto in obbligazioni della cooperativa 29 giugno. Bisogna ricostruire la comunità nella nostra città partendo dalle persone che sono rimaste indietro». E al processo salta fuori che Buzzi aveva chiesto la disponibilità ad acquistare obbligazioni della sua cooperativa anche a De Cataldo. Ricevendone però a quanto pare un cortese rifiuto. Ma la cosa più incredibile è che nella telefonata intercettata fra i due, Buzzi aveva detto all’autore di Romanzo Criminale e (con Carlo Bonini) di Suburra: «Oh, lo sai chi lavora co’ noi? Che te fai una risata ora, che è venuto a lavora’ co’ noi? Carminati, c’ho pure Carminati, mo’».
Il Mondo di Mezzo è dove tutto si mischia, dove non c’è destra, né sinistra, dove non ci sono criminali, politici, corrotti e corruttori. È il ventre profondo di Roma, dove capita che s’incrocino sul medesimo terreno personaggi come Luca Gramazio, consigliere regionale della destra estrema e figlio d’arte (suo padre Domenico, ex consigliere regionale, ex parlamentare, non ha mai rinnegato il passato fascista), e Mirko Coratti, presidente del consiglio comunale ed esponente del Partito democratico che finisce inevitabilmente commissariato, tanto il marciume è penetrato in profondità nelle sue falde. E poi giù, giù, fino agli sciacalli catapultati sulle aziende pubbliche, travestiti da amministratori con stipendi a svariati zeri, ai colletti bianchi che pilotano gli appalti, ai dirigenti comunali infedeli in combutta con i corruttori, ai capobastone dei clan mafiosi di Ostia e zone limitrofe, dove l’unica differenza con Cosa Nostra è che i loro affiliati non giurano sull’immagine di Santa Rosalia.

Quel bravo ragazzo. Ma nel Mondo di Mezzo c’è posto anche per i bravi ragazzi, quale sicuramente era considerato Luca Odevaine. Uno che era di Legambiente e poi diventa braccio destro del sindaco Walter Veltroni, quindi capo della polizia provinciale di Nicola Zingaretti, per inventarsi superesperto dell’immigrazione al servizio degli Interni: componente del Coordinamento nazionale per l’accoglienza dei profughi.
Un bravo ragazzo, che come tanti bravi ragazzi scivola un giorno, appunto, su una ragazzata. Succede nel 1986, quando lui ha trent’anni. Roba di spinelli, e chi non ha mai fumato uno spinello in quegli anni, in quella Roma? A Odevaine però costa caro: due anni con la condizionale. Segue indulto e riabilitazione. La faccenda sarebbe finita lì, se non riemergesse quando il Nostro incappa nell’inchiesta di Mafia Capitale, dove salta fuori che Buzzi gli dava 5 mila euro al mese per sistemare, sostengono i magistrati, le gare dei centri di accoglienza per immigrati. Un business pazzesco: altro che lo spaccio di droga. E insieme, nell’ordinanza giudiziaria che lo colpisce, viene a galla anche quel particolare del passato di Odevaine, insieme a un dettaglio che spiega tante cose del bravo ragazzo: il gip Flavia Costantini rivela che si è fatto cambiare il cognome, aggiungendo una “e” alla fine. La ragione? «Non compromettere le sue possibilità istituzionali», scrive il magistrato. Di quali possibilità, aggiunge, è presto detto: Luca Odevaine «è un signore che attraversa, in senso verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative nel settore dell’emergenza immigrati». Il sistema nelle sue mani prevede «l’attribuzione di favori a imprese amiche, che si dividono il mercato». Più modestamente, lui si è definito un “facilitatore”. Per quello, dice, prendeva i 5 mila euro al mese. «Ho approfittato di un sistema e ho sbagliato. Mi sono inserito in un meccanismo che mi ha fatto guadagnare, certo. È stato il mio errore, che pagherò», ha confessato. Soldi ne giravano, e tanti. L’appalto del Cara di Mineo, che soprattutto l’ha fatto finire nei guai, era di 97 milioni. Finisce guarda caso alle cooperative del giro. Ma non basta. Il presidente dell’autorità anticorruzione Raffaele Cantone racconta in una relazione ustionante, nella quale boccia senza appello l’appalto di Mineo, che il bravo ragazzo amico di Veltroni che gode della fiducia dei prefetti del ministero dell’Interno, al punto da avere l’incarico di bandire la gara per la gestione del centro di accoglienza per rifugiati più grande d’Europa, viene addirittura assunto come dipendente da quello stesso centro. Luca Odevaine, con quella “e” aggiunta, secondo il magistrato, per mascherare un errore di gioventù. Tesi che però lui giudica falsa. Dice che aveva promesso al padre in punto di morte di ripristinare il cognome originario della famiglia, che era stato trascritto sbagliato negli atti del Comune di Messina dopo il terremoto del 1908. «E non per dissimulare un reato del 1988 per cui sono stato riabilitato», fa mettere a verbale. Il giudice lo fissa negli occhi: «Fosse stato per il suo cognome lei sarebbe a piede libero. Il problema non è il suo cognome».