Edoardo Vigna, Sette 8/4/2016, 8 aprile 2016
«BASTA CON GLI STEREOTIPI. ANCHE IN TV SVELIAMO IL VERO “MONDO DI MEZZO” FRA CRIMINALITÀ E POLITICA CHE, CON LA CORRUZIONE, BLOCCA LA NOSTRA SOCIETÀ» [GABRIELLA PESSION]
«Il Sistema è nato prima ancora di “Mafia Capitale”». Gabriella Pession si accalora subito. «Lo scandalo è scoppiato quando avevamo già cominciato a girare, tra Roma, Bari e Istanbul. Ovviamente la nostra serie tv ne è permeata: al cuore del racconto c’è proprio questa criminalità nuova, a metà fra quella di strada e i poteri alti. Il “Mondo di mezzo” che affonda nella corruzione e di corruzione avviluppa ogni cosa». Fuori tira vento forte, noi siamo seduti a un tavolino defilato al Tommaseo, lo storico caffè triestino: l’attrice di cinema e tv è qui – insieme con il compagno, l’attore irlandese Richard Flood – per girare una nuova fiction italiana scritta da Carlo Lucarelli (negli ultimi due anni, lei che è nata in Florida ed è perfettamente bilingue, ha lavorato molto all’estero, protagonista della serie Crossing Lines – in onda su Netflix – di Ed Bernero, autore anche di Criminal Minds). Ha appena lasciato Giulio, il figlio di 19 mesi, a passeggio per la città con la tata: e prima di cominciare l’intervista la chiama per verificare che lei gli abbia messo la sciarpa. Il 18 aprile andrà in onda su Rai 1 la prima puntata (di 6) della nuova serie di cui è interprete principale con Claudio Gioè (per la regia di Carmine Elia): Il Sistema, appunto. Un racconto «che, per fluidità e ampiezza del linguaggio, è ispirato a serie americane – per me straordinarie – come True detective, che hanno diffuso una maniera “autoriale” di fare tv».
Un racconto che arriva mentre a Roma anche l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone eleva – appunto – a “sistema” irregolarità e violazioni, confermando le indagini della procura su Mafia Capitale e malaffare come prassi abituale.
«Il titolo, in effetti, racchiude tutto. Noi incardiniamo l’affresco cominciando a raccontare una storia che parte dal suicidio apparente di un industriale. Il protagonista, che è suo fratello ed è un maggiore della Guardia di Finanza (Gioè, ndr), sicuro che l’altro non fosse il tipo da togliersi la vita, decide di indagare. E per capire cosa sia successo, s’infiltra in un’organizzazione criminale, fingendosi un affarista con pochi scrupoli. In questo modo, scopre una realtà oscura, a metà fra la classe politica e dirigenziale del Paese e il crimine “basso” del narcotraffico. Il filo nero che li lega, nella serie è rappresentato da un avvocato, di nome Alcamo, colluso con mafia e ’ndrangheta, che ricicla il denaro sporco investendo nell’alta finanza, in fondi esteri e imprese legali».
L’architrave di un “sistema” che ormai sembra soffocare tanti gangli del Paese.
«Di solito, però, siamo abituati a pensarlo e a vedercelo mostrare in termini di stereotipi. Questa volta, nella narrazione tv, emerge invece una classe criminale più articolata, preparata, colta, raffinata, che ha occupato, appunto, quella “terra di mezzo” in cui si instaura il clima della corruzione, e che sta bloccando lo sviluppo della nostra società. Ad agire per l’intermediario c’è anche una donna che, di fatto, è la vera contabile, colei che ricicla il denaro dei malavitosi facendo apparire tutto legale».
Un ruolo da “cattiva”, dunque.
«Come la realtà, anche questo personaggio non può essere ingabbiato in una semplificazione. I ruoli femminili spesso servono come spalla per mettere in risalto un aspetto del protagonista maschile. Daria Fabbri (lei, ndr), invece, è più articolata. È figlia unica di un professore universitario, un uomo colto e retto, che ha studiato tutta la vita e vive per i suoi studenti: loro sono legatissimi, lei è super-preparata ed è l’orgoglio del padre. Poi entra in questo studio di avvocati, non sapendo inizialmente di che cosa si occupasse. Però a un certo punto, l’ingranaggio si rivela più grande di lei. E lei, che è intelligente ma anche manipolativa, ammetterà: “Quando ho capito che cosa c’era dietro, avrei potuto tirarmene fuori, ma non ho voluto”. Ecco la vera corruzione, quella che agisce con la tentazione del denaro, del potere soprattutto. Quando s’incontra con il finanziere infiltrato, pensa sia un criminale come lei. Così la situazione si aggroviglia… Nella seconda stagione, a cui gli sceneggiatori stanno già lavorando, la storia e la figura di Daria sarà ancora più multiforme».
Le serie tv, del resto, come mi ha detto il grande attore inglese Jeremy Irons, sono «ormai anche meglio del cinema perché permettono di “lavorare” sui personaggi e sulle storie». Se poi è dalla stessa cronaca che arrivano “elementi” di approfondimento sempre nuovi... Quando è arrivata a vivere a Roma? E com’era la capitale allora?
«Sono arrivata a 19 anni. Sono stata zingara tutta la vita. Dopo l’America, da piccola mi sono trasferita con mia madre a Milano; poi ho vissuto mesi a Leningrado, quando facevo pattinaggio agonistico e mi allenavo con la nazionale olimpica. Poi ho passato un anno e mezzo in Australia, con un fidanzatino... Roma per me è una bellissima donna, la più bella che c’è al mondo, e quando sono a Trastevere con mio marito ci sembra un sogno. Ma è una donna “corrotta”. Non ti puoi fidare totalmente. All’inizio non mi sono nemmeno resa ben conto di essere entrata nel grande mondo del cinema. In fondo, ho iniziato questa carriera per caso».
In che senso? Molti dicono così…
«Il mio primo, grande amore è stato il ghiaccio. A 7 anni, andai a vedere un’amica al palazzetto a Milano: pensai subito che il pattinaggio sarebbe stato l’amore della mia vita. Il giorno dopo indossavo i pattini. No, non sarei diventata una campionessa: mi mancava potenza fisica, anche se ero bella artisticamente. E poi c’era un ambiente tremendo».
E che sarà stato mai…
«Altroché! In confronto, il mondo del cinema non è niente… Allora, nelle gare, esistevano due criteri di giudizio: uno tecnico e uno artistico. Si potevano fare ingiustizie enormi… E poi c’erano invidie fortissime: tra le mamme, oltre che tra le figlie. Io ero una pischella con i codini, mi portarono a Leningrado ad allenarmi con la nazionale olimpica. Beh, una volta, prima di una gara, mi trovai un tutù tagliato a metà!».
Finì male?
«Ho fatto carriera agonistica fino ai 14 anni, quando mi sono rotta i legamenti. Ho sofferto anche di anoressia, subito dopo... Venivo poi da una realtà familiare tumultuosa. Ho avuto i genitori che si sono separati, ripresi, ri-separati… Mia mamma, che è il mio modello di coraggio, quando cominciai ad avere dei problemi, chiuse il suo studio di pubbliche relazioni nel momento di maggior successo, e si dedicò a me. Comunque, a 19 anni, a Roma feci qualche provino. E dopo una piccola particina, incontrai Lina Wertmüller, che è stata la persona che mi ha introdotto a questo mestiere. Cercava da tre anni la protagonista per il film Ferdinando e Carolina».
Come andò?
«Pioveva, mi trovai nello studio a casa sua a Roma. Mi guardava attraverso i suoi occhiali bianchi. “’A bella, che sai fare?”. Mi fece provare delle scene dal copione con l’accento un po’ tedesco, che ho studiato a scuola, e un po’ napoletano... Volle investire su di me. Lei, a chi aveva studiato all’accademia, diceva: ora dimenticate tutto! Intendiamoci, la tecnica è importante: ci confrontiamo sempre con il mio compagno, che ha studiato drammaturgia a Oxford, nella migliore al mondo di teatro. A me l’hanno insegnato sul set, personaggi come Giancarlo Giannini: un giorno, stavamo facendo un “campo largo”, e poi la scena si restringeva… Io però continuavo a dimenarmi. Lui mi disse: “Gabriellina, lo vedi l’obiettivo? Tutto ‘sto casino che fai, non si vede! Devi andare alla sintesi del movimento...”».
Qual è stata la sua prima percezione della realtà criminale?
«Sul film della Wertmüller. Stavamo girando a Taranto e ci chiesero il pizzo: “O ci date 100 mila euro o vi bruciamo il set”. La Sacra Corona Unita. “Domattina si parte”, ci dissero la sera. Come? Dove? Siamo dovuti andare a rifare Taranto sulla Tiburtina… Poi li hanno arrestati, ma intanto riuscirono a costringerci a cambiare tutto».
E di quel mondo corrotto che oggi si fa “sistema”, che tracce ha incrociato?
«Ci sono stati casi di produttori che lavoravano un anno, grazie alla connessione con la politica, per poi sparire… E tanti casi di persone che magari non erano attori ma venivano messe per forza nelle produzioni. Quando lo racconto a mio marito, che è irlandese e non capisce, mi chiede: cosa c’entra tutto questo con la recitazione? Ho anche pensato di smettere di fare questo mestiere a 26-27 anni».
Quando?
«Ero all’apice del successo in tv. Dissi a me stessa: se sono solo una pedina da mettere e togliere all’interno di un gioco, non ci sto più. Oggi per fortuna è diverso».
Cosa le era capitato?
«Mi venne, letteralmente, un travaso di bile. Ci siamo trovati una volta su un set in cui i produttori non pagavano la troupe da due mesi. Io mi sono fermata: “Non giro più”, ho detto, anche se c’era chi mi suggeriva di non lasciare perché avrebbe dato una brutta immagine di me. Ma io, per la mia dignità, mi farei uccidere. Se ritengo sbagliata una cosa, non riesco ad andare contro ciò che penso. Avevo il potere di incidere, ero nella legalità, e ho scelto. Saldarono tutto, e ricominciammo. Ora sono nella posizione di esercitare quella che lo sceneggiatore Francesco Scardamaglia chiamava “l’ecologia dei rapporti”: la libertà di scegliere con chi lavorare».
Potere impagabile.
«Il mio è un lavoro ingiusto, instabile, che non segue logiche precise. Occorre sviluppare un proprio distacco. Io sono riuscita a viaggiare seguendo una mia linea retta. Ho mandato giù le mie belle ingiustizie. Ma il fatto di essere stata un’atleta mi ha abituato a perdere: tutte le volte che ho vinto, ho sempre mantenuto la consapevolezza che una sconfitta è dietro l’angolo».
Come donna, le difficoltà sono sempre più grandi che per gli uomini?
«Sul set, fai ancora fatica ad essere ascoltata. In fondo, cinema e tv ci raccontano spesso come stereotipi, personaggi piatti, senza niente dentro. A me interessa mostrare che cosa c’è sotto la maschera che tutti indossiamo nel mondo: la “cattiva”, la “buona”, la “mangiauomini”, quella che sta a casa e rompe le scatole al marito…».
La polemica sulla dichiarazione di Bertolaso sulla candidata Meloni che dovrebbe “stare a casa a fare la mamma” è ancora fresca.
«Un’affermazione come minimo infelice. Non credo che sia giusto che una donna debba fare la mamma punto e basta. Le donne a fatica hanno costruito la propria identità di lavoratrici. Ma io so di non essere un esempio medio. Il mestiere che faccio mi consente di portare la tata sul set in modo da stare con mio figlio. Non avrei accettato questo copione se non avessi potuto farlo: la maternità per me è una priorità. Ma è anche vero che lavoro da quando avevo 16 anni, e se non potessi farlo sarei una madre pessima, frustrata. Di sicuro, l’Italia non ha strutture che aiutino particolarmente le mamme. In Irlanda, dove sono andata a partorire, l’ospedale per il primo anno mi ha messo a disposizione una nurse che veniva ogni settimana a vedere come stavo io, come stava il bambino... Si organizzano anche gruppi per le donne che stanno allattando. In Germania, le mie amiche mi hanno detto che ti danno addirittura il corredo estivo e invernale per il primo anno».
In America c’è una donna – Hillary Clinton – che potrebbe diventare l’uomo più potente del mondo.
«Ho la doppia cittadinanza: mia nonna Gabriella – che prese mia madre 18enne e s’imbarcò su un transatlantico – approdata a New York, chiamò mio nonno e gli disse: “Resto a vivere qui”. Quindi posso votare per le presidenziali. Certo, quando ho sentito che Donald Trump si candidava, ho pensato a una barzelletta, mentre ora m’inquieta: gli americani si comportano come se la realtà fosse una fiction tv. Ma neppure Hillary mi convince: la sua ambizione mi spaventa. Del resto, non credo che le conquiste, per le donne, possano arrivare da un’alta carica politica. Angela Merkel, nonostante il potere enorme, non ha avuto questo effetto. Servirà una lunga battaglia dal basso».