Sabina Minardi, l’Espresso 8/4/2016, 8 aprile 2016
COMPAGNA FELICITA’ – Siamo nati per essere felici. E se la vita fa di tutto perché ce ne dimentichiamo; se la politica sconforta, se la paura tende agguati di continuo, la felicità resta il perimetro che tutto avvolge: come un abbraccio
COMPAGNA FELICITA’ – Siamo nati per essere felici. E se la vita fa di tutto perché ce ne dimentichiamo; se la politica sconforta, se la paura tende agguati di continuo, la felicità resta il perimetro che tutto avvolge: come un abbraccio. A quasi 73 anni Roberto Vecchioni non ha più voglia di battaglie e dibattiti sterili. «Sono un pessimo lottatore», dice, mentre arriva in libreria il suo ultimo libro, "La vita che si ama" (Einaudi), indirizzato ai quattro figli: miscellanea di aneddoti e memoir, versi e contrappunti sulla sola sfida da combattere ancora: la conquista della felicità. Che solo a enunciarla risveglia la grinta di sempre. «La voglio addosso come una febbre, un innamoramento che non si spegne, la lunga onda di una mareggiata d’inverno con tutti gli scogli e i rifiuti possibili e insieme il corpo di una donna bellissima che esce dal mare e mi manda da lontano la vela di un bacio. Eccola, la felicità». L’amata casa sul lago; i cani, gli amici, i figli. Ma anche gli incontri: i tanti alunni di trent’anni d’insegnamento, i colleghi, i fan. La felicità è l’amore e la trama stessa di cui è fatta una vita. «Perché non è un momento in cui ti estranei da tutto: non è una passeggiata sul lungomare, sapendo una donna là con te. Questo si chiama pace, serenità, una miserabile copia della felicità, che confina con la noia. E non è neppure l’euforia, il brivido casuale, le risate: sono le bugie della felicità. Non è un angolo acuto della vita, una bisettrice, un cerchio. O la quadratura del cerchio. La felicità è la geometria stessa». Lei scardina l’idea comune che la felicità sia questione di attimi intensi e indimenticabili. La sua idea di felicità somiglia a quella aristotelica di "virtù coltivata". Più che istanti da cogliere al volo, la felicità è la cornice di tutto, il perimetro della vita? «Certo, la mia felicità è in senso classico. Il perimetro di tutto, sì. Anzi: l’area. Il controcoro di tutta la vita. È la situazione naturale dell’uomo: siamo noi che lo dimentichiamo. In realtà, tutto brilla di felicità: la stessa rinascita della vita, ogni anno, con le stagioni, dice che niente se ne va, tutto torna. E nei minimi frangenti dell’esistenza c’è un’area in cui la felicità esiste sempre». Parla da poeta. Ma si può essere felici di fronte a un mondo così infelice? «Credo di sì. Perché questa felicità, che non è comportarsi bene, non andare a letto con altre donne - quelli sono comandamenti - ma stare in armonia, è un dovere verso noi stessi: quando io ho fatto tutto quello che c’è da fare, anche per me ma soprattutto per gli altri, devo saper custodire me stesso e l’armonia che ho dentro, che si chiama felicità». Ci vuole un gran coraggio. «Moltissimo. Forse anche un po’ di incoscienza nel non pensare al mondo». E non le sembra un po’ irresponsabile? «No. Se fossimo tutti i minuti a pensare alle disgrazie del mondo, saremmo irresponsabili verso noi stessi. Bisogna sapere che la vita è una cosa seria, che è difficile. E aiutare gli altri, con le parole e a fatti. Ma esisti anche tu: e raggiungere la felicità è un dovere». La felicità è l’amore, un cane. Gli amici: come Carlin Petrini, «che arrivava con la banda da Bra, Barolo e salami, e si accampava a cazzeggiare». «Ne ho citati pochi di amici, sarebbero a decine, amici scompaginati e geniali, un po’ fuori di testa: che felicità». Felicità pura sono stati gli happening sul lettone coi figli: la "schifezzata cosmica". «Memorabili. Riti di passaggio, festa di primavera, un recitar a soggetto, un incrociarsi di saggezza e stupidità, tra la passione e la buffonata di vivere. Tutti sbracati sul nostro letto, a vedere film, a discutere e mangiare schifezze, roba da infarto materno. Poi i figli crescono. Anche se hanno sempre bisogno di tornare, di condividere i loro "manufatti"». Anche nella malinconia c’è felicità? Persino nel dolore, sostiene. «La malinconia è la felicità del dolore: la parte migliore. Il dolore di per sé è tremendo, ma è inglobato nella felicità. Che non è mai statica, ma uno stato di frenesia, di attesa, legata al destino che ti costruisci, non a quello che ti capita». Come in "Luci a San Siro"? C’è dentro il dolore dell’abbandono. Dov’è lì la felicità? «La felicità era mascherata da dolore. Se in quel momento la mia donna non mi avesse lasciato non l’avrei mai scritta. E quella specie di amore sarebbe durato forse anni, ma sarebbe finito. Lo strazio, quel pugnale nel cuore, l’addio di quella sera non fa più male, ma la commozione che mi prende ogni volta è viva e lo sarà sempre. Perché quella canzone fa parte di ciò che io chiamo "il tempo verticale", in cui passato, presente e futuro sono impilati l’uno sull’altro. E i ricordi sono tutti lì, a portata di mano, non dispersi. È un obelisco la vita, non un orizzonte». Lei è sposato da trent’anni con la scrittrice e attivista Daria Colombo. È la monogamia la strada per la felicità? «Sono sicuro di sì: è un’incredibile forza in più. Solo che questo amore deve arrivare dopo i 30: con gli amori dei 20 si sperimenta. Dopo i 30 anni non ci si dovrebbe lasciare più». La felicità di cui parla è un fatto privato. Eppure, il diritto alla felicità è un pilastro della Costituzione americana; teorie economiche propongono di misurare il benessere di una nazione non dal Pil ma dall’indice di felicità. Non vale la pena lottare per la felicità altrui? «Vale, vale la pena. Ma io sono un pessimo lottatore. Un grande lottatore è mia moglie, che si sta battendo anche adesso, da capolista a Milano per la sinistra, per una dimensione collettiva. Abbiamo due visioni complementari della felicità, uno che la progetta, l’altra che la realizza». È il segreto di una vita di coppia felice? «È uno dei segreti, non crea interferenze. Sono un uomo del Novecento, un po’ astratto. Lei tiene a bada lo scorrere della vita. La mia felicità è eterea: la sognavo da bambino, più che possederla». Non era un bambino felice? «No, lo ero molto. Avevo una madre molto attenta, e un padre che mi insegnava la fantasia. Ero felice anche perché vita sognata e vita reale coincidevano». La politica le ha mai dato felicità? «Quando ero più giovane sentire che c’era tanto da fare, che io servivo, me ne dava molta». Poi? «Non mi rivedo più quasi in niente di quello che era stato un tempo e per cui ero effettivamente militante. La politica è diventato il regno dei sofismi, è solo affermazione personale. Nell’anima sono sempre e comunque di sinistra; una sinistra all’antica, berlingueriana. In pratica, non mi ritrovo quasi in niente». Ma non è diventato renziano? «No, non si può dire che io sia renziano. Ci sono cose che accetto e altre no, ma non in Renzi, nella politica: perché mi sembrano inutili, paralogismi. Mi piacerebbe che ci fosse un varco in direzione della felicità altrui. Perché dà felicità l’impegno di cambiare le cose. Ne vedo poco. Milano in questi anni ha dato un grande esempio: è più bella, anche la sua gente lo è. È ritornata la mia città. Ci si è resi conto che ognuno non può tenere tutto per sé: le cose bisogna spartirle. E ora è una città che può rendere felice chi la abita. Più di altre dove si gozzoviglia». Per esempio? «Non voglio parlarne. Ma ci sono città difficili, dove l’impegno può rendere felici. Napoli mi fa felice. E non solo perché lì sono le mie origini. A Napoli ti svegli e dici: qui ho tanto da fare. Il progetto, la speranza che le cose possano migliorare sono un pezzo di strada verso la felicità». Il successo dà felicità, non lo neghi. «Se corrisponde al merito. Dubito dei successi quando non c’è dietro valore e bellezza. Se è il tassello di uno spazio che hai trovato, e che gli altri riconoscono perché non sarebbero così se tu non fossi al tuo posto, genera felicità. Cantare è il mio modo di far riappropriare le persone della felicità. Scrivere mi rende felice. Questo libro è una parlata, un nonno che racconta davanti al camino». Non dica così, i poeti non invecchiano. «Ma io nonno lo sono davvero: ho tre nipotine. E questo libro l’ho scritto per rispondere a mia figlia, che un giorno mi ha chiesto: "Ma tu chi sei davvero?". Dovevo spiegare la felicità che ho vissuto e che ho tentato di dare agli altri».