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 2016  aprile 07 Giovedì calendario

GLI ILLUSIONISTI DELLE TASSE

A giudicare dai proclami governativi, l’Italia starebbe attuando («finalmente!», si ama aggiungere) una vera e propria rivoluzione nella politica economica. Decine di miliardi di tasse in meno, decine di miliardi di spending review, ovvero di riduzione della spesa pubblica inefficiente e improduttiva. E prima ancora di aver presentato alle autorità europee il Documento di economia e finanza del 2016, si comincia a discutere di nuove riduzioni delle tasse. C’è chi ricorda la promessa di ridurre l’Ires (la tassa sui profitti), c’è chi comincia a parlare di riduzione dell’Irpef (l’imposta sui redditi delle persone fisiche), una misura quest’ultima particolarmente adatta ad affrontare gli appuntamenti elettorali (fra i più vicini le elezioni comunali e il referendum costituzionale, poi forse le politiche). Sullo sfondo, minacciose più che mai, stanno le cosiddette «clausole di salvaguardia» (aumento dell’Iva e delle accise) previste dalle leggi di Stabilità degli ultimi anni e pronte a scattare ove le riduzioni di spesa non si rivelassero sufficienti.
Ma come stanno veramente le cose? Se guardiamo a quanto fatto fin qui il bilancio è molto semplice: nonostante molte tasse e molte spese siano state ridotte, i dati Istat certificano che la pressione fiscale (pari al 43,5 per cento) e la spesa pubblica corrente del 2015 sono rimaste sostanzialmente invariate. Ciò si deve in parte al fatto che i conti ufficiali contabilizzano il bonus da 80 euro come aumento di spesa e non come riduzione di entrata, ma soprattutto al fatto che le indubbie riduzioni del gettito fiscale e contributivo (riduzione Irap, tassa sulla prima casa, decontribuzione sui neoassunti) sono state compensate da altrettanti aumenti di altri tipi di entrate, come le imposte sul risparmio e le tasse locali (la tassa rifiuti sfiora ormai i 9 miliardi e nell’ultimo anno ha visto crescere i propri incassi del 9,6 per cento). È plausibile sostenere che la nuova composizione del gettito sia migliore della precedente, ma resta il fatto che un conto è ridurre la pressione fiscale, un altro è spalmare la stessa pressione fiscale su soggetti differenti. Se anziché guardare a che cosa è successo fin qui proviamo a immaginare che cosa ci aspetta nel prossimo futuro le prospettive si fanno più nebulose, ma qualcosa tuttavia si riesce a intravedere.
Riassumerei la situazione così: il problema numero 1 del governo per il 2017 è il disinnesco della bomba dell’aumento dell’Iva e delle accise, una clausola che da sola vale circa 15 miliardi. L’idea del governo è di coprire questa spesa con l’ennesima richiesta di flessibilità all’Europa, il che significa, in buona sostanza fare più deficit, da accollare come sempre alle generazioni future. Naturalmente dobbiamo anche aspettarci che questo mancato aumento dell’Iva venga venduto, come già è successo quest’anno, come l’ennesima riduzione delle tasse.
Il problema numero 2 del governo, una volta disinnescato in parte o in toto l’aumento dell’Iva, è di promettere ulteriori riduzioni fiscali. Ma su quali tasse? Irap, Ires o Irpef? Per indovinare su quali riduzioni punterà il governo conviene fare tesoro dell’esperienza passata. E l’esperienza dice che, quando si è trattato di scegliere, il governo ha sempre puntato (come è logico, ancorché sbagliato) sulla scelta elettoralmente più conveniente. Quando si trattava di destinare 10 miliardi alle imprese (riducendo l’Irap) o alle famiglie (riducendo l’Irpef), ha scelto di cominciare dalle famiglie, istituendo il famoso bonus da 80 euro giusto a ridosso delle elezioni europee del maggio del 2014, destinando meno soldi (e non subito) alle imprese, con la riduzione dell’Irap sul lavoro scattata nel 2015. Quando si è posto il problema dei tempi di riduzione dell’Ires (una tassa che grava sui bilanci delle imprese) si è preferito posticipare (dal 2016 al 2017) l’attuazione del provvedimento. E ora che si sta ponendo il problema dei tempi di riduzione dell’Irpef (una tassa che grava sulle famiglie) l’idea che si sta affermando è di anticipare la riduzione stessa dal 2018 al 2017.
Anche la decontribuzione totale sulle nuove assunzioni introdotta nel 2015, un provvedimento apparentemente bilanciato, ossia favorevole sia ai lavoratori sia alle imprese, ha avuto un’impronta elettoralistica: anziché concentrare le risorse sulle imprese che aumentavano l’occupazione (come ad esempio chiedeva la Cgil) si è preferito un provvedimento molto costoso (circa 25 miliardi in 3 anni) ma capace di interessare, almeno potenzialmente, la totalità dei datori di lavoro. Mi pare che la logica sia chiarissima. Quello che è ragionevole aspettarsi, dunque, è il medesimo menù degli ultimi due anni. Nuove riduzioni di imposta, alcune virtuali (mancato aumento dell’Iva), altre effettive (una piccola rimodulazione delle aliquote Irpef?), il tutto coperto da un aumento del deficit e da piccoli inasprimenti fiscali su imposte e balzelli meno visibili o meno impopolari. Tanto l’opinione pubblica è distratta, i giornali sono prudenti, le generazioni future (per ora) non votano.