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 2016  aprile 07 Giovedì calendario

GLI ANIMALI SANNO COME NASCONO I BAMBINI?

Molti di voi conosceranno Koko, quell’enorme, felice gorilla femmina che vive in cattività e usa un po’ di lingua dei segni. Koko ha 44 anni e vive in California. Ama i gattini. Conosce persino la storia delle api e dei fiori ed è in grado di pianificare la sua maternità, o almeno è quanto vorrebbe farci credere un celebre video di YouTube. Nel video la tutrice di Koko, Francine Patterson, si presenta alla gorilla, che è troppo vecchia per partorire, con un taccuino che mostra quattro modi in cui Koko potrebbe diventare madre. Per cominciare, dice Patterson, un gruppo di gorilla un maschio adulto, due femmine adulte e un cucciolo potrebbe andare a vivere con Koko e con il suo compagno, il maschio adulto Ndume. In alternativa potrebbe unirsi a loro un neonato con uno o due cuccioli più grandi; un terzo scenario prevede l’aggiunta di un piccolo e basta. Nella quarta opzione si potrebbero fare entrare due femmine adulte che facciano piccoli con Ndume per Koko. Patterson dà l’elenco a Koko, che smette di grattarsi il petto e sembra contemplare la sua scelta. Con l’indice destro Koko tocca l’ultima opzione del taccuino. «Ottima idea, perché questo farebbe felice Koko e farebbe felice Ndume», dice la tutrice alla gorilla.
Ecco qui, dunque: è chiaro che Koko sa come nascono i bambini. Perché mai altrimenti preferirebbe procreatrici a un cucciolo in carne e ossa?
È una convinzione popolare che gli animali sappiano bene da dove vengono i bambini. Nella specie di Koko i maschi silverback, sessualmente maturi, sorvegliano gelosamente i cosiddetti harem di femmine da altri maschi. E gli sfidanti vittoriosi spesso uccidono i figli del silverback sconfitto prima di dedicarsi a farne di propri. Oltre a questo, i gorilla evitano di accoppiarsi tra parenti stretti grazie al fatto che l’individuo che raggiunge l’età riproduttiva deve lasciare la sua famiglia per trovarsene una nuova.
I gorilla non hanno l’esclusiva delle strategie comportamentali in fatto di sesso e genitorialità. Una gallina può espellere lo sperma indesiderato prima che fecondi le sue uova. Un babbuino maschio si butta nella mischia se un suo figlio ha bisogno di supporto sociale e politico. In certe specie le femmine schiamazzano mentre copulano con un maschio alfa ma non quando vanno con uno di basso rango: un modo di pubblicizzare il loro fascino ad altri partner influenti. Ovunque volgiamo lo sguardo, gli animali si comportano come se capissero perfettamente gli effetti del sesso, in che modo sono imparentati con potenziali partner e con la prole, e quanto sia cruciale portare avanti la propria stirpe, con geni vincenti, per di più. Ci piace raccontare le osservazioni su sesso e cure parentali animali con un linguaggio che implica qualche punto in comune tra noi e loro. Ma sarà vero che le altre specie sanno che è dal rapporto sessuale che vengono i figli? Koko lo sa?

Menti animali
Di fatto non ci sono studi in letteratura che si siano chiesti se gli animali capiscano o no la riproduzione. Il meglio che gli scienziati hanno in mano per scoprire che cosa sanno gli animali di come vanno le cose viene dalle ricerche del primatologo Daniel Povinelli, dell’Università della Louisiana a Lafayette, su che cosa i primati non umani (gli animali cognitivamente più simili a noi) afferrino della fisica e di altri ambiti riguardanti rapporti di causa ed effetto. Nei suoi libri Folk Physics for Apes e World without Weight, Povinelli descrive decenni di lavori sperimentali che hanno cercato di capire che cosa sanno gli animali della gravità.
È possibile addestrare certi scimpanzé a raggruppare oggetti in base allo sforzo che serve per sollevarli. Ma quando poi gli si chiede di disporli dal più pesante al più leggero senza farglieli prima sollevare, i risultati degli scimpanzé non vanno al di là della casualità, segno che la loro comprensione non è frutto di un ragionamento sul peso. Per dirla con Povinelli, l’abilità degli scimpanzé è un talento fisico, non cerebrale.
Per capire fenomeni non osservabili quali gravità e fecondazione, un animale deve essere capace di pensiero astratto, l’abilità di formare nella mente rappresentazioni di cause o forze invisibili sottostanti. Noi umani usiamo il pensiero astratto per trasferire nozioni da una situazione a un’altra, il che ci permette di risolvere problemi che non abbiamo incontrato prima e persino di inventarci nuove distrazioni. Pur essendo di gran lunga più intelligenti di quanto gli scienziati li abbiano tipicamente considerati, animali come gli scimpanzé non sembrano avere queste specifiche capacità cognitive. Mi ricordo la volta che una sagace undicenne rispose alla mia domanda «perché gli scimpanzé non giocano a baseball?» non con le incompatibilità anatomiche ma con un «perché non riusciamo a spiegargli le regole».
Ovviamente, il solo fatto che i ricercatori non abbiano ancora trovato prove di pensiero astratto nelle scimmie antropomorfe non vuole dire che sia assente. Immaginiamo per amore di discussione che abbiano questa capacità. In quel caso ogni individuo dovrebbe comunque ancora scoprire per conto proprio che il sesso genera figli, o questa conoscenza riproduttiva dovrebbe essere condivisa usando qualche forma di linguaggio. Il che ci porta al problema successivo: le altre specie non hanno il dono della parlantina.
Grazie agli anni di addestramento, Koko segna su richiesta il nome di centinaia di oggetti, ma non fa conversazione. Senza la sua capacità di comunicare per segni, non ci verrebbe da descrivere le sue capacità verbali innate come sofisticate. I gorilla brontolano in presenza di grandi quantità di cibo, grugniscono quando si avvicinano l’uno all’altro o si separano dai loro piccoli, emettono grugniti copulatori e ridacchiano quando giocano. I primatologi Alexander H. Harcourt e Kelly Stewart hanno studiato queste vocalizzazioni nei gorilla di montagna (che sono simili a quelle dei gorilla di pianura come Koko) quando lavoravano all’Università della California a Davis e hanno scoperto che non sono più complesse dei display di minaccia che i gorilla presentano nella foga del momento. Le loro vocalizzazioni sono telegrammi sullo status sociale e sul potenziale comportamento nel futuro prossimo da parte dell’emittente, ma niente di più.
In effetti tra i primati selvatici una scarsa capacità verbale è la norma. Nei cercopitechi verdi c’è forse quanto di più simile al linguaggio umano, e non è neanche vagamente paragonabile per complessità. Come hanno osservato Dorothy Cheney e Robert Seyfarth, dell’Università della Pennsylvania, in studi approfonditi su questi animali nell’Africa orientale, i cercopitechi verdi emettono segnali di allarme differenti per «aquila», «serpente» e «leopardo». Queste grida o «parole» così caotiche non sono apprese, come le parole umane, ma innate. Anche se i segnali di allarme sono arbitrari, come le nostre parole, non sono mai usati per chiacchierare del serpente che le scimmie hanno visto il giorno prima o per seminare il panico sul leopardo che potrebbero incontrare l’indomani. Persino a volersi convincere che quei segnali siano parole scimmiesche, è difficile passare da un «linguaggio» tanto rudimentale a uno in cui l’emittente riesce a spiegare: «Quando facciamo sesso, è da lì che un figlio comincia a svilupparsi».
Per giunta, niente suggerisce che gli animali abbiano un concetto di tempo che permetta di collegare una causa come un rapporto sessuale con un effetto così lontano nel tempo come un cucciolo, e pianificare di conseguenza. Orangutan, bonobo e scimpanzé sono stati tutti osservati mettere da parte strumenti per usi futuri. Il caso più sinistro di tutti è Santino, lo scimpanzé di uno zoo svedese che accumula pile di sassi sotto un cumulo di paglia per tirarli ai visitatori quando meno se lo aspettano. Ma al momento le osservazioni di una pianificazione futura nelle scimmie antropomorfe sono di ore, o al più di qualche giorno, neanche lontanamente abbastanza da coprire la durata di una gravidanza che dura quasi quanto quella umana.
Se gli animali sono privi di pensiero astratto, linguaggio e capacità di pianificazione futura necessari per procreare intenzionalmente, allora devono sapere cosa fare (sesso) anche se non sanno il perché (farlo permette di generare prole e perpetuare la specie). In effetti gli animali possono mettere in atto ogni tipo di comportamenti all’apparenza complessi senza prevederne gli effetti. Sara Shettleworth, scienziata cognitiva dell’Università di Toronto, cita l’esempio di quei corvi che fanno cadere le noci su superfici dure, spaccandole. Molti osservatori danno per scontato che i corvi mettano in atto questo comportamento in modo cosciente per ricavare cibo. Ma un approccio più scientifico alla comprensione di quel comportamento, nota Shettleworth, è partire dal presupposto di una causa «prossima»: lo stato fisiologico interiore dell’uccello, la fame, è legato alla presenza di noci e superfici dure. Quando un corvo vola sopra una superficie dura e lascia cadere le noci, a spingerlo è una fisiologia che incoraggia un comportamento alimentare condizionato sulla base dei successi precedenti, non un ragionamento del corvo su che cosa sia meglio fare per calmare la fame.
L’idea di cercare cause prossime per il comportamento animale è difficile da accettare. Noi esseri umani diamo per scontato che siccome sappiamo perché facciamo quello che facciamo, quando gli altri animali si comportano in modo simile devono saperlo anche loro, e ne antropomorfizziamo il comportamento. Ma a questo modo di ragionare manca il rigore necessario per capire veramente i processi cognitivi animali.
Il comportamento dei gorilla, e di fatto la maggior parte di quello che gli animali fanno, si spiega in modo più logico senza attribuire loro nessuna nostra capacità di immaginazione, specialmente quando si parla di fare figli e di paternità biologica. Prendiamo per esempio il silverback che uccide la prole che la sua nuova consorte ha avuto da un altro maschio. I gorilla infanticidi diffonderanno nella futura generazione più geni rispetto ai non infanticidi. Se c’è quindi qualche base biologica dietro a questo comportamento complesso, alla possibilità di impararlo o a entrambi, allora sarà trasmessa ai figli maschi, che ripeteranno il comportamento, e alle femmine, che faranno figli che lo esibiscono. Questi silverback devono mostrare aggressività minore verso la propria prole e maggiore verso quella di altri, e questa selettività potrebbe essere facilitata dalla pratica. Una volta che avrà figli propri, il nuovo silverback avrà perso lo stimolo a uccidere neonati, forse grazie a ormoni che influiscono sul comportamento e che fanno da tramite tra lui, i piccoli e le madri. Nessun aspetto di questo fenomeno richiede nozioni riproduttive o di paternità.

Se solo sapessero
Se potessimo insegnare alle grandi scimmie antropomorfe che è il sesso a produrre figli, ci potremmo aspettare un drastico cambiamento del loro comportamento in natura. Maschi e femmine che volessero figliare potrebbero conservare sperma e inserirlo manualmente. I maschi potrebbero passare più tempo con le femmine dopo il coito, potenzialmente fino alla nascita, e restare poi con madre e figlio finché il piccolo non fosse abbastanza grande da essere indipendente. Le femmine diventerebbero forse più competitive per conquistare l’opportunità di riprodursi con i maschi che preferiscono. Se costrette ad accoppiarsi contro la loro volontà, potrebbero persino cercare di interrompere la gravidanza. Le femmine che volessero evitare la gravidanza potrebbero nascondersi durante il periodo dell’estro, quando sono fertili e attirano la maggior parte dell’attenzione maschile.
Sapere da dove vengono i figli porterebbe a capire come gli individui sono imparentati, il che avrebbe conseguenze sul comportamento. Maschi e femmine potrebbero cominciare a interessarsi al comportamento riproduttivo della prole matura e magari a cercare per la famiglia un buon posto in società quando i figli sono ancora immaturi e assicurare loro un partner di qualità. Potrebbero persino impedire ai piccoli di lasciare il gruppo al momento della maturità e influire meglio sulla loro vita riproduttiva. Fratelli e sorelle, sapendo di essere figli degli stessi genitori, potrebbero formare relazioni più strette e durature di quanto sembrino fare in queste specie. Una volta consapevoli della parentela con la prole che si è accoppiata con individui di altri gruppi e ha figliato a sua volta, questi animali mostrerebbero forse meno competizione e violenza tra gruppi che di norma sarebbero stati nemici ma ora sanno di avere legami di sangue.
In altre parole, se le antropomorfe capissero che l’atto sessuale genera figli si comporterebbero in modo molto più simile agli esseri umani. Il che ci riporta a Koko. Di lei ho visto molti video, e ho notato che si esercita con i segni e ne impara di nuovi esponendosi a una serie di simboli su un taccuino. A quanto pare, ogni volta che le si presenta un simbolo lo tocca prima con un dito, che sia o meno in grado di ricordare e produrre il segno corretto. La scelta di maternità di Koko, quindi, non prova affatto che abbia compreso la domanda e ancora meno come nascono i bambini.
Per quanto pieno di passione e di cure possa essere, niente del comportamento sessuale, sociale e parentale degli animali richiede una conoscenza della biologia riproduttiva, come invece accade con Homo sapiens. A un certo punto della storia, la nostra specie ha sviluppato culture ricche di credenze su procreazione, famiglia e parentela che per molti versi ci separano dalle nostre cugine antropomorfe e, di fatto, da ogni altra creatura del pianeta.