Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  aprile 02 Sabato calendario

IL DRITTO E IL ROVESCIO DELLA BATTAGLIA DEI SESSI

Si chiama Ray Moore. Faceva il tennista professionista in Sudafrica negli anni della segregazione. Un suo caro collega di Coppa Davis, che non si nominerà per pietà, amava dire di essere «decisamente contro l’apartheid, anzi: chiunque, a casa propria, dovrebbe tenere almeno due o tre neri». Fino alla conferenza stampa che lo ha reso celebre e disoccupato, mister Moore lavorava come amministratore delegato dell’evento californiano di Indian Wells: probabilmente il miglior appuntamento al mondo, dopo i quattro tornei dello Slam.
Si è giocato il posto con un’uscita atroce sulla disparità di valori tra il gioco maschile e quello femminile: «Se io fossi una tennista, ogni sera mi inginocchierei e ringrazierei Dio per aver fatto nascere Federer e Nadal, perché hanno trascinato il tennis». Apriti cielo.
Martina Navratilova, pasionaria dei diritti delle donne e degli omosessuali, ha chiesto la sua testa un tempo capelluta e oggi spelacchiata. La regina Serena Williams ha invece affermato che nessuna donna dovrebbe mai inginocchiarsi di fronte ad alcuno. Neanche un giorno, insomma, e addio Moore: dimissioni con letterina di scuse, agevolate dal proprietario del torneo Larry Ellison (sì, quello di Oracle), che l’America non è l’Italia e, da quelle parti, un fine dicitore alla Tavecchio sta a casa a curare il giardinetto e non rimane a presiedere una federazione sportiva.
Mister Moore ha toccato un cristallo con la chiave inglese. Temi delicati e indubbiamente inzuppati di ipocrisie, come la parità e la non-discriminazione, non si possono trattare con modi tanto grossolani. Tanto che è prassi, in casi simili, attendersi reazioni ormai codificate: violenti flutti di indignazione via web, in specie dalla terza traduzione rimasticata in su; produzione in serie di qualche proclama intriso di risentimento da parte di associazioni, movimenti, reti, sindacati, attivisti; isolate voci controcorrente, invariabilmente bollate come nazi-omo-fascio-retro-razziste; poi risacca, la vita che torna a scorrere alla sua velocità, l’oblio.
Ovvero, il momento giusto per ricordare la storia della parità nel tennis, perché merita e aiuta a districarsi tra le lamiere contorte di una cosa dal nome angelico e dal corpo diabolico che usiamo chiamare uguaglianza. Fino agli anni Settanta non era considerato peccato pagare il successo in un torneo femminile con uno zero in meno rispetto all’omologo maschile. La verità? Salvata qualche dea con mani fatate, le donne dei tempi si esercitavano in una variante degenere del gioco, nota tuttora nei circoli come “tirala di là, spera che non torni di qua”.
Uno smargiasso e supponente yankee avvizzito di Los Angeles, Bobby Riggs, già campione a Wimbledon e agli Us Open nel 1939, era arrivato a 55 anni in sufficiente forma fisica da buttare lì una provocazione: sarò anche vecchio, ma voi datemi la miglior tennista del mondo e ne farò carne da hot dog. Il 13 maggio del 1973, in un pomeriggio presto ribattezzato con dubbio gusto Mother’s Day Massacre, Riggs scese in campo a San Diego, di celeste vestito, per incrociare la racchetta con una delle donne più vincenti della storia, la compita australiana Margaret Smith Court, trentanni di vita e 23 titoli Slam. Bobby, come direbbero a Milano, la tirò scema: ossequi e un mazzo di fiori prima del riscaldamento, una serie di palle corte e pallo netti in partita, astuzia e zero ritmo. La Court non ci capì nulla e finì rosolata, 6-2 6-1.
Ma non terminò così: perché Riggs rilanciò, sostenendo di poter battere qualunque professionista femmina. Tutti si voltarono verso la Emma Bonino del tennis, Billie Jean King, altra supercampionessa del tempo, la stessa atleta ardita che aveva creato la cellula della futura Wta (Women’s Tennis Association), segnando l’emancipazione finanziaria delle donne nel tennis. Billie Jean e le sue ragazze erano stufe di quella fettina di torta riservata loro dagli organizzatori dei tornei: 90% agli uomini, 10% alle donne perché, si diceva, non erano certo loro a vendere biglietti. La King non poteva sottrarsi alla sfida: aveva capito che la riscossa doveva necessariamente passare per una rivincita morale e di marketing.
Fu organizzata, sotto il cappello di “battaglia dei sessi”, la più bieca baracconata di cui il tennis serbi memoria: 30.472 spettatori assiepati nell’Astrodome di Houston, le majorettes, la banda con la grancassa, la King portata in campo da simil-schiavi su un trono da Cleopatra. Quel 20 settembre del 1973, sulla distanza dei cinque set, Bobby Riggs finì vittima della sua superbia e la King trionfò: 6-4 6-3 6-3. Se avesse perso pure lei contro un pensionato occhialuto, campione sì ma all’alba della seconda guerra mondiale, «il tennis femminile sarebbe tornato indietro di 50 anni». Quel successo generò una sbandata collettiva: il leggendario movimento Women’s Lib, per qualche mese, venne rinominato Women’s Lob, in omaggio ai pallonetti che Riggs fu costretto a rincorrere con la lingua penzoloni per tre set. Decine di migliaia di donne passeggiavano per le strade degli Stati Uniti indossando la t-shirt ricordo della sfida dei sessi, col punteggio stampato a caratteri cubitali: «Cos’è, il tuo numero di telefono?», ridacchiavano per la strada i maschi scornati.
Coi tempi della vita, accelerati da quella vendetta, i montepremi dei circuiti Atp e Wta si avvicinarono progressivamente. I quattro Slam, gestiti non dai sindacati dei giocatori ma dalla federazione internazionale, riconsiderarono le loro politiche a velocità eterogenee: gli Us Open, com’era ovvio, pareggiarono i premi già in quel 1973; via via si accodarono gli altri. Fino ai reazionari di Wimbledon, gli ultimi ad abdicare: il comitato londinese abolì le ultime sterline di squilibrio – ormai simulacro di uno status, perché erano davvero spiccioli di differenza – appena nove anni fa.
È successo dell’altro, però. I tornei più importanti, proprio come gli Slam, sono diventati combined, si disputano cioè contemporaneamente i tabelloni maschile e femminile. Finché restarono divisi, si assisteva a scene poco edificanti come le tribune traboccanti per l’Atp di Roma e, la settimana successiva, spalti desertificati durante gli incontri Wta.
Ricordarlo non attira simpatie, come la ovvia considerazione che la Wta ha molto più bisogno dell’Atp che non viceversa; eppure il dibattito sull’opportunità che uomini e donne guadagnino le stesse cifre nel tennis non era defunto ma solo sparito dalla vista, come un fiume carsico. Che l’avventatezza di Ray Moore ha nuovamente spinto in superficie, stuzzicando il numero uno del mondo, Novak Djokovic: «Le donne meritano ammirazione e vanno rispettate per ciò che fanno. La parità dei montepremi è stata una battaglia degli ultimi anni e so quante energie abbia investito la Wta per raggiungerla. D’altro canto, credo che l’Atp dovrebbe lottare di più, perché i dati mostrano che gli spettatori che guardano gli incontri maschili sono più numerosi. E questa è una ragione per essere pagati maggiormente. Non dico che Moore abbia ragione né torto: dico che noi dovremmo perseguire le nostre ragioni con più forza e, finché le statistiche diranno che il tennis maschile genera più attenzione e vende più biglietti, bisognerà distribuire i premi di conseguenza».
Non c’è dubbio: non solo i botteghini ma pure i dati di ascolto mondiali definiscono il tennis come uno sport decisamente omocentrico. In questo senso, forse, si può accogliere il Moore-pensiero: Federer e Nadal hanno generato come e più di Agassi e Sampras, Becker e Lendl, Borg e McEnroe una passione sfrenata per il tennis ai quattro angoli del mondo. Quindi interesse, quindi affari, quindi soldi per tutti, donne comprese. Se il circo equestre di Houston è stato un male necessario per scrostare pregiudizi e viete discriminazioni, oggi il tennis femminile – questo dice Djokovic – dovrebbe conquistarsi sul mercato l’accesso agli stessi quattrini dei maschi, e non ritenerlo acquisito per diritto inalienabile. La parità imposta con la pistola, come le quote rosa, non è vera parità ma un’icona stilizzata: sono tanti i direttori di tornei che vorrebbero ridiscutere i premi in palio per le donne, confrontando entrate (ticket, diritti tv) e uscite. Ma si devono mordere la lingua e pagare, perché è vietato.
Vero è che Andy Murray, numero due del ranking, è per contro un qualificatissimo difensore del partito della parità a priori: lo scozzese, peraltro, argomenta bene. «Credo ci dovrebbe essere totale parità», sostiene Murray che – rammentano i malpensanti – è stato iniziato al tennis dalla madre e si avvale, caso rarissimo, di un coach donna, Amélie Mauresmo. «Novak dice che le donne dovrebbero guadagnare più di noi se vendessero più biglietti degli uomini: bene, in un torneo come questo, se la Williams gioca sul campo centrale e contemporaneamente c’è un match di Stakhovsky, la gente va a vedere Serena».
Per darsi ragione, però, lo scozzese ha forzato un paragone che cadrebbe se, messa da parte la gigantessa del tennis, si proponessero in vendita biglietti dei match di Angelique Kerber, l’ultima vincitrice Slam; di Carla Suarez Navarro o di Petra Kvitova, giocatrici top ten il cui valore di mercato impallidisce di fronte ai grandi nomi del tennis coi pantaloncini. Né l’ironia di Murray contro chi (come il sindacalista ucraino Sergiy Stakhovsky, numero 70 al mondo) invoca disparità di assegni ma non attira le folle regge alla prova del ragionamento: se i soldi finissero solo a chi davvero muove il mercato, vale a dire una manciata di superstar, tanto varrebbe abolire il Tour e trasformarlo in una perenne esibizione itinerante con Novak, Roger, Rafa e Andy che si sfidano a oltranza per la delizia dei paganti. Una volta pensionati quei quattro fenomeni, però, il tennis come mestiere si scoprirebbe estinto.
La parità dei sessi, insomma, non dovrebbe pretendersi compiuta con un atto livellatore di imperio, per cui ognuno vale uno. Che poi non è neppure vero, giacché l’autentico scandalo del tennis non è mica Federer che incassa 98 milioni mentre Serena si deve accontentare di guadagnarne solo 76, ma è la vera, inaccettabile disparità di una disciplina ricca che scarica carrettate d’oro su pochissimi fuoriclasse mentre il centesimo miglior tennista del pianeta, uomo o donna che sia, tribola per arrivare in pari alla fine dell’anno. Che il terzino del Lumezzane incassi più di Stakhovsky – uno che a Wimbledon ha battuto Federer – ricevendo oltretutto lo stipendio indenne da spese che giochi o meno, che vinca o meno, non pare scandalizzare né Murray e soci, né Serena, né Billie Jean, né Martina.