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 2016  aprile 07 Giovedì calendario

Notizie tratte da: Stephen King, On Writing, Frassinelli, 2015, pp 320, 20 euro. Vedi Libro in gocce in scheda: 2353322Vedi Biblioteca in scheda: 2348532Un fratello di due anni maggiore, di nome David

Notizie tratte da: Stephen King, On Writing, Frassinelli, 2015, pp 320, 20 euro.

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Un fratello di due anni maggiore, di nome David. La madre, Nellie Ruth Pillsbury King li crebbe da sola perché il compagno era scappato coperto di debiti. Cambiarono spesso città.

Tra le tante baby sitter, Eula, o Beulah: «Magari era al telefono a divertirsi con qualcuno e mi chiedeva di avvicinarmi. Mi abbracciava e solleticava, spingendomi a ridere. All’improvviso, senza smettere di sghignazzare, mi tirava uno sganassone abbastanza forte da mandarmi al tappeto. Poi mi faceva il solletico con il piede finché non riprendevamo a ridere entrambi».

Eula-Beulah, «una scoreggiona incallita»: «Talvolta, se stava per scappargliene una, mi sbatteva sul divano, mi premeva contro la faccia le chiappone coperte dalla gonna di lana e si liberava. “Bang!” strillava entusiasta».

Eula-Beulah, licenziata dopo che per colazione gli aveva fatto mangiare sette uova. Quando il bambino si sentì male lo chiuse nell’armadio della madre e poi andò a dormire sul divano.

La madre gli raccontò di aver assistito al suicidio di un marinaio che si era gettato dal tetto del Graymore Hotel di Portland, Maine: «Si è spiaccicato. Dal corpo è uscita una poltiglia verde».

Dopo l’asportazione delle tonsille fu costretto a mesi di convalescenza. «Divorai tonnellate di fumetti, per poi dedicarmi con gusto a Tom Swift, Dave Dawson (un eroico pilota della Seconda guerra mondiale, sempre alla guida di aerei che “aggredivano l’alto dei cieli con le loro eliche”) e concentrarmi alla fine sugli agghiaccianti racconti di animali firmati da Jack London. A un certo punto iniziai a scrivere storie di mio pugno. L’imitazione anticipò la creazione. Copiavo parola per parola le avventure di Combat Casey sul bloc-notes, talora aggiungendo mie descrizioni dove sembravano più opportune». Dopo averli letti, la mamma gli consigliò di scriverne uno tutto per conto suo, senza copiare.

La prima storia scritta, da bambino: quella del Signor Orecchie Magiche, coniglio bianco che andava in giro in auto con altri quattro amici animali per aiutare i bambini. Alla mamma piacque. Ne scrisse altre quattro, lei lo ripagò con un quarto di dollaro per ciascuna storia.

Il primo televisore lo ebbero nel 1958 (Stephen King è nato nel 1947).

Il primo film che guardò alla televisione: Robot Monster. «Un attore con un costume da gorilla e una boccia per pesci rossi sulla testa (chiamato Ro-Man) correva in giro cercando di ammazzare gli ultimi superstiti di un conflitto nucleare. Ai tempi mi sembrò un capolavoro».

Da ragazzino spedì un racconto a Forrest J. Ackerman, agente letterario e curatore della rivista dedicata alla fanstacienza, Spacemen. Il racconto fu rifiutato, ma Ackermann lo conservò. Una ventina di anni dopo, quando King era in una libreria di Los Angeles a firmare copie di un libro, Ackermann si presentò con il racconto («battuto a interlinea singola sull’ormai defunta Royal che mamma mi aveva regalato a 11 anni per Natale») e se lo fece autografare.

Dopo aver visto al cinema Il pozzo e il pendolo, nel 1961, decise di trasformare il film in un libro e di stamparselo da solo, con l’aggeggio in cantina usato dal fratello Dave per stampare una rivista di sua invenzione. Otto pagine in interlinea singola, come copertina il disegno di un pendolo sgocciolante sangue. Inventò anche il nome delle edizioni: V.I.B, Very Important Book. Ne tirò una quarantina di copie. Pensò di venderle a 25 centesimi. In una mattinata a scuola i ragazzini ne comprarono una trentina, poi fu rimproverato da un’insegnante e costretto a restituire i soldi.

Quando, all’ultimo anno di superiori, confessò alla madre che non gli sarebbe dispiaciuto arruolarsi per il Sudest asiatico, perché di certo ne sarebbe nato un romanzo, quella rispose: «Non dire idiozie. Con la tua vista saresti il primo a essere ucciso. I morti non scrivono libri».

Nelle ultime settimane di liceo iniziò a lavorare alla fabbrica tessile Filati & Tessuti Worumbo. Nello stesso tempo scriveva per il Weekly Enterprise, settimanale sportivo.

Su consiglio della madre, si iscrisse alla facoltà di magistero dell’Università del Maine, a Orono.

La fabbrica tessile chiuse per la settimana del 4 luglio. Alcuni dipendenti, tra cui non era Stephen King, nel periodo di chiusura restarono al lavoro per pulire l’azienda. Al ritorno uno di quelli gli confessò che nello scantinato c’erano «topi grossi come gatti, se non come cani». Ciò gli fece venire l’idea per un racconto, Secondo turno di notte. Due mesi dopo la rivista Cavalier lo comprò per 200 dollari. «In precedenza ne avevo già piazzati altri due, ma totalizzando appena sessantacinque dollari. In quella circostanza ne guadagnai il triplo, e in unico colpo. Mi si mozzò il fiato. Ero ricco».

Nell’estate del 1969, come studente addetto alla bibioteca dell’università del Maine, si ritrovò un pomeriggio a pranzare sul prato dietro la libreria universitaria, con altri ragazzi: «Tra Eddie Marsh e Paolo Silva era seduta una tipa snella con una risata fragorosa, i capelli tinti di rosso e un paio di gambe da schianto messe in evidenza da una minigonna gialla. Aveva con sé una copia di Anima in ghiaccio di Eldridge Cleaver. Non l’avevo mai incrociata sul lavoro e non riuscivo a credere che una studentessa del college fosse capace di sghignazzare in maniera così meravigliosamente spavalda. Comunque, letture impegnative o meno, imprecava più come un operaio che un’universitaria (avendo sgobbato in fabbrica, mi consideravo un esperto in materia). Si chiamava Tabitha Spruce. Ci sposammo nel giro di un anno e mezzo. Lo siamo ancora».

A proposito della moglie: «Veniamo entrambi dal ceto basso, mangiamo carne, tifiamo per i democratici e nutriamo la diffidenza tipica della gente del Nord per la vita fuori dal New England. Ce la intendiamo dal punto di vista sessuale e siamo monogami per natura. Però a legarci saldamente sono l’amore per le parole, il linguaggio e il nostro mestiere».

Laureato, sposato, con due figli, non trovò posto come insegnante e iniziò a lavorare in una lavanderia. Stipendio: un dollaro e 60 l’ora.

Quando cominciò a scrivere Carrie trovò lavoro come insegnante per 6.400 dollari l’anno a Hampden. Per riviste per adulti scriveva racconti osé. La moglie lavorava da Donkin’ Donuts e intanto scriveva storielle che mandava alle case editrici (ma le tornavano sempre dietro).

Per i diritti dell’edizione tascabile di Carrie la casa editrice Signet pagò 400mila dollari (la metà andò a Stephen King, l’altra metà alla Doubleday la prima casa editrice che l’aveva acquistato).

Nel febbraio 1974 la madre morì per un tumore all’utero. «Dave mi svegliò alle sei e un quarto della mattina, sussurrandomi attraverso la porta che probabilmente mamma se ne stava andando. Quando entrai nella stanza da letto principale, mio fratello le era seduto accanto, reggendo una Kool per consentirle di fumare. Lei tirò qualche boccata, tossendo e respirando a fatica. Non era del tutto cosciente, con lo sguardo a guizzare tra me e Dave. Mi misi di fianco a lui, afferrai la sigaretta e la porsi di nuovo a mamma, che allungò le labbra per serrarle intorno al filtro. Sul comodino c’era una copia di Carrie, riflessa all’infinito da un esercito di bicchieri. Zia Ethelyn gliel’aveva letta il mese precedente (…) Dave la prese per una mano e io per l’altra. Sotto le lenzuola non c’era il corpo di mamma ma di una bambina denutrita e deforme. Mio fratello e io fumammo e parlammo un po’. Non ricordo nulla della conversazione (…) L’intervallo che separava i rantoli diventò sempre più lungo, finché il respiro non cessò completamente».

«Le serate dei miei ultimi cinque anni da beone si chiudevano immancabilmente con lo stesso rituale, cioè versando nel lavandino le birre avanzate in frigo. Se me ne dimenticavo, mi chiamavano nel dormiveglia, finché non scendevo dal letto a prenderne un’altra. E un’altra. E un’altra ancora».

Nel 1985, oltre a essere alocolizzato, diventò cocainomane. «Durante la primavera e l’estate del 1986 mi dedicai a Tommyknocker - Le creature del buio, spesso sgobbando fino a mezzanotte con il cuore che toccava i centotrenta battiti al minuto e un paio di cotton fioc infilati nel naso, per tamponare l’emorragia provocata dalla cocaina».

«Hemingway e Fitzgerald non si sbronzavano in quanto estrosi, alienati o moralmente deboli, ma perché era la loro natura. Forse è vero che i tipi creativi corrono un rischio maggiore di diventare alcolisti o tossici rispetto al resto, ma che importanza ha? Siamo tutti uguali quando vomitiamo all’angolo di un marciapiede».

Arrivò a bere una cassa di lattine di birra da mezzo litro a sera: «C’è un romanzo, Cujo, che ricordo a malapena di avere scritto».

«La vita non dev’essere di sostegno all’arte, ma viceversa».

« Sono convinto che chiunque ricorra a “strafico” vada sbattuto in un angolino della classe e gli estimatori degli ancora più tremendi “al presente” o “tutto considerato” debbano essere mandati a letto senza cena».

Contro l’uso della forma passiva dei verbi: «Forse gli scrittori timidi sono attratti da questi verbi proprio come gli amanti pavidi sono conquistati da partner indolenti. Perché correre rischi? Meglio non ficcarsi nei guai.(…) Il classico autore impacciato scrive “La riunione sarà tenuta alle sette” perché una vocina gli suggerisce: “Fa’ così e la gente ti giudicherà una persona colta”. Affrancatevi da questo equivoco abissale! Non siate dei babbani! Pancia in dentro, petto in fuori! Date al soggetto la collocazione che merita».

«Da ragazzino divoravo Ray Bradbury e scrivevo come lui, ricalcandone la spontaneità, lo stupore e la velata nostalgia. Non appena passai a James M. Cain, cominciai a usare uno stile duro, essenziale e sincopato. Con Lovecraft, la mia prosa diventò contorta e ridondante. Da adolescente buttai giù racconti dove queste influenze si fondevano, dando origine a un buffo pastrocchio. Si tratta di un passaggio obbligato per sviluppare il proprio stile, ma non succede per caso».

James Joyce, quando cominciò a calargli la vista, prese a vestirsi sempre di bianco, convinto che questo gli riflettesse meglio la luce sulle pagine dei libri che leggeva.

L’amico che andò a trovare Joyce e lo trovò accasciato sulla scrivania. Era colpa della scrittura: «Quante parole hai scritto oggi?». «Sette». «Niente male, almeno per te». «Immagino tu abbia ragione. Ma non so che in ordine vadano messe».

Anthony Trollope era un impiegato delle Poste inglesi, ma tutte le mattine prima di andare in ufficio scriveva per due ore esatte. Se allo scadere del tempo era a metà frase, non la completava fino al giorno successivo.

John Creasey, giallista inglese, fu l’autore di cinquecento libri sotto dieci pseudonimi diversi.

«Se non mi siedo alla scrivania ogni mattina, i personaggi avvizziscono diventando monodimensionali e posticci. La narrazione perde di smalto e non riesco più a padroneggiare la trama e il ritmo della storia».

«Un tempo sostenevo nelle interviste di sgobbare ogni santo giorno tranne Natale, il Quattro Luglio e il mio compleanno. Era una bugia che raccontavo ai giornalisti perché funzionava e non era troppo stupida. La verità è che, se scrivo, scrivo di continuo. E se mi prendo una pausa, stacco del tutto, ma durante questi periodi di calma piatta mi sento disorientato e fatico ad addormentarmi. Per me il vero lavoro è non lavorare».

«Sono convinto che la prima stesura di un libro, per quanto lungo, non debba portare via più di tre mesi: la durata di una stagione».

«Mi piace tenere una media di dieci pagine al giorno, ovvero duemila parole in tutto. Centottantamila in tre mesi, una discreta lunghezza per un libro, sufficiente al lettore per perdercisi dentro con entusiasmo, se la scrittura è efficace e scattante. Certe mattine quel numero di cartelle è una bazzecola. Più spesso, invecchiando, pranzo seduto alla scrivania e stacco verso l’una e mezzo del pomeriggio. Di tanto in tanto, quando le parole non vogliono saperne di uscire, alle cinque sono ancora lì a cincischiare. Soltanto in caso di una calamità accetto di gettare la spugna prima di avere raggiunto il traguardo delle duemila».

I primi due romanzi (Carrie e Le notti di Salem) scritti nella lavanderia di un maxicaravan con un tavolino da bambini in bilico sulle cosce, «pestando sui tasti dell’Olivetti portatile di mia moglie».

John Cheever scriveva nella cantina del suo appartamento di Park Avenue, vicino alla caldaia.

King scrive con un sottofondo di musica a tutto volume, soprattutto Ac/Dc, Metallica e Guns N’ Roses.

«Non mi fido della trama per due motivi: innanzitutto, perché di massima le nostre esistenze ne sono prive, nonostante calcoli e programmi, per quanto scrupolosi e accurati. In secondo luogo, perché sono certo che una struttura rigida non sia compatibile con la spontaneità della vera creazione».

Edgar Wallace inventò e brevettò un aggeggio battezzato la Ruota della Trama. Se uno scrittore non sapeva più come continuare la sua storia, bastava girare la ruota e leggere il responso in una finestrella. Per esempio: un arrivo inatteso, o l’eroina dichiara il proprio amore eccetera.

«Se vi spiego che Carrie White è una liceale emarginata dai compagni, con una brutta carnagione e un abbigliamento dimesso, confido che siate capaci di completarne il ritratto. Non ho bisogno di fornirvene un resoconto pignolo, brufolo per brufolo e gonna dopo gonna. A scuola, tutti abbiamo incrociato degli sfigati; se delineassi alla perfezione i miei, in parte bloccherei il ricordo dei vostri, rischiando di inficiare il legame di mutua comprensione che ambisco a instaurare tra noi».

«Ogni romanziere ha un solo Lettore Ideale e, in vari momenti del lavoro di scrittura, si domanda: “Chissà che accidenti penserà quando vedrà questa parte?”. Per me quel primo lettore è mia moglie Tabitha».

Poco dopo avere terminato Psyco, Hitchcock ne organizzò una proiezione per un paio di amici, che ne andarono pazzi. La moglie, Alma Reville, restò in silenzio aspettando che gli altri avessero finito di fare i complimenti. Quindi: «Non può essere distribuito così». Quando le chiesero perché: «Janet Leigh deglutisce quando dovrebbe essere morta». Era vero.

La volta che, liceale, dopo aver mandato un manoscritto ricevette la risposta, scritta a penna: «Niente male, ma SBRODOLATO. Da accorciare in base alla formula: seconda stesura = prima stesura – 10%. Buona fortuna».