Stefania Rossotti, Grazia 31/3/2016, 31 marzo 2016
IL BUNKER DELL’AMORE
L’importante nella vita è decidere da che parte stare. Margherita Buy sceglie una sedia a doghe di legno e lascia a me il divano, morbido. Le propongo uno scambio e lei chiede: «Ho sbagliato?». Andiamo avanti così, fra imbarazzi e complimenti, grazie e prego. Fino a che riusciamo a dircelo: stiamo calme, è solo un’intervista. La verità è che oggi nessuno è tranquillo: abbiamo cominciato la giornata con la notizia delle stragi di Bruxelles. Ancora non sappiamo il numero e il nome delle vittime, possiamo solo immaginarle. Un istante prima che tutto finisca.
Noi siamo qui, in un palazzo romano immerso nel verde: sedia o divano, caffè o tè, e poi biscotti, se ci va. Apparentemente è tutto qua, quello che dobbiamo scegliere. Ci guardiamo in faccia e lo capiamo subito: per poter parlare davvero non possiamo fare a meno di dircelo, che siamo spaventate e disorientate. «Oggi non mi vengono tanto bene nemmeno le parole», confessa Margherita, 54 anni, madre di Caterina, 14. «È un mondo così difficile. Che cosa dobbiamo fare con i nostri figli? Dobbiamo farci forza e lasciarli andare, oppure chiuderli nel bunker del nostro amore protettivo?». Non ho ovviamente nessuna risposta.
Il motivo del nostro incontro è, in realtà, lieve: il film interpretato da Buy in uscita il 14 aprile: Nemiche per la pelle di Luca Lucini. Una storia divertente, dove temi molto seri sono cucinati con la leggerezza che solo una commedia sa dare. «Sono contenta di aver lavorato su un registro per me un po’ diverso», dice Margherita. Il film racconta di due donne che “ereditano”, da un uomo che hanno entrambi amato, un figlio che non è di nessuna delle due. E provano a educarlo, a giorni alterni. Ognuna con il suo stile. Perché tanto la prima è eterea, tanto l’altra (interpretata da Claudia Gerini) è concreta e sanguigna. La pavida e la guerriera, l’intellettuale e la tamarra. Opposte. Unite solo da un iniziale rifiuto.
«Da principio nessuna delle due vuole farsi carico del figlio di un uomo che non ha voluto un bambino da loro. E che morendo le ha nominate “mamme per forza”. Costringendole a fare i conti anche con l’altra: un modello di donna molto diverso dal proprio, una femminilità sconosciuta e da principio assolutamente detestabile».
Lei ne ha di amiche-nemiche, quelle donne che ti catturano, ma che sono sideralmente diverse da te?
«Le mie amiche sono tutte antichissime, risalgono al Medioevo, alla mia giovinezza. Sono persone a cui voglio bene da sempre e che, in qualche caso, la vita ha cambiato molto. Ma non abbastanza da mutare la loro anima, quel che conta quando ci si vuole bene. Siamo molto diverse fra noi, ma abbiamo un’intera esistenza in comune e questo ci rende simili, per sempre. Ci sono loro e tanto. Ho poco spazio per le persone nuove».
Non è un tipo curioso, lei.
«Si sbaglia, le vite degli altri mi interessano. Ma legarmi a una persona sconosciuta e molto diversa da me è un’altra cosa, spesso troppo faticosa. Non ho abbastanza resistenza per star dietro a stili e pensieri nuovi. Alla fine arranco e lascio perdere. Per me l’amicizia è una cosa molto seria».
Che cos’è?
«Un posto in cui io riesco ad affidarmi e a essere molto affidabile. Un posto dove stare tranquilla».
L’amore, invece?
«Non ne sono capace».
Di che cosa? Di amare o di essere amata?
«Non sono capace di star dentro a una relazione. E comunque non è che abbia la fila di pretendenti, tutti lì a bussare alla mia porta».
Se vuole riapriamo ufficialmente le iscrizioni.
«No, no: va bene così».
Vedo che ci ride sopra.
«Ma sì, sono serena».
L’amore non serve?
«Serve, serve tantissimo. Ma non sono tanto brava in questo campo. I rapporti hanno bisogno di raffinatezze, di complessità, di strategie. Io sono una persona molto semplice. Non ho retropensieri, non so fare le grandi manovre necessarie nei sentimenti. Sono una donna a una dimensione: quella che vede».
Questa cosa degli uomini in cerca di complessità mi giunge nuova, davvero.
«Forse non vogliono donne complicate, ma sicuramente amano quelle che li sanno maneggiare. Ci sono ragazze brave a farsi amare. Capaci di rendersi desiderabili e di lasciarsi desiderare. È un talento e io non ce l’ho. Non ho malizia, non ho destrezza. Se un rapporto si rompe non so da che parte prenderlo per aggiustarlo».
Si fa come con un’auto guasta: si prova a ripararla.
«Meglio buttarla».
Continua a scherzare?
«Ma sì. Non voglio fare discorsi malinconici. Rinascerò in un’altra vita e avrò l’amore».
Basta uomini. Apriamo il capitolo maternità. A partire da quella che lei mette in scena in Nemiche per la pelle.
«Il mio personaggio tenta di dare al figlio un’educazione rigorosa, cibo molto bio, sanissimi principi».
Uno stile che assomiglia al suo? Anche lei è una mamma così?
«Cerco di insegnare il bene e di dare il meglio. Ma odio ogni forma di integralismo: sia alimentare che comportamentale. Un po’ di sane sbavature fanno bene, mi pare».
Poi c’è l’altra mamma, quella interpretata da Claudia Gerini tutta diversa.
«Sì, lei vuole attrezzare il bambino ad affrontare la vita. Gli regala persino una pistola, gli fa mangiare tonnellate di carne, lo istruisce alla lotta. Fra queste due mamme succede quello che capita a molti genitori separati: ognuno ha il proprio stile che spesso risulta inconciliabile con quello dell’altro. In realtà un figlio, per essere attrezzato a vivere, deve avere un po’ di tutto. L’importante è che un genitore non si affanni a distruggere quello che l’altro ha costruito. E questo film, apparentemente cosi leggero, cerca di passare un messaggio molto attuale: non c’è un solo modo di fare famiglia. Non c’è niente di completamente giusto o sbagliato».
Sottotraccia c’è anche il tema delle due madri. Se ne è discusso molto, a proposito della legge sulle unioni civili e sulla (per ora archiviata) “stepchild adoption”. Lei che idea ha delle famiglie con genitori omosessuali?
«Ne conosco alcune. Ho amiche che stanno vivendo questa realtà. Credo che in una coppia di genitori, anche omosessuali, si riesca sempre a trovare una sorta di equilibrio fra maschile e femminile. Di solito un adulto assume un ruolo più protettivo, quello della mamma. E l’altro si prende la parte di chi incoraggia i figli ad affrontare il mondo. Quindi c’è tutto quello che occorre per diventare grandi».
La mamma abbraccia, il papà sospinge. Sicura che nelle famiglie etera le cose vadano ancora così?
«No, per niente. In realtà è tutto cambiato: le mamme lavorano, i padri provano a seguire di più i figli. È tutto molto mescolato, complesso. È anche bello, mi pare. È una cosa buona vedere le famiglie che cambiano e sperimentano strade diverse in un mondo così mutato. L’importante è non sottrarre amore, semmai aggiungere. Come succede nel film: alla fine, due mamme sono meglio di una».
Lei che cosa pensa della maternità surrogata?
«Mi spaventa. È un argomento su cui voglio riflettere. Anzi: ci penso già tanto, ma ancora non mi sono fatta un’opinione. So che la maternità per altri è di fatto sempre esistita, ma questa possibilità che sia una pratica legalizzata e retribuita... Be’, ammetto che mi impressiona un po’».
Mentre parla, lei si tocca spesso il viso, il collo. È una donna insicura, Margherita?
«Non so. Di certo sono una persona che ha sempre bisogno di tenere tutto sotto controllo».
In questo momento che cosa sta tenendo a bada?
«Tutto. Per esempio: ha sentito quel rumore sulle scale, poco fa? Io ho avuto un soprassalto».
Ho notato.
«Mi sono chiesta: chi è? Che cosa succede? Altro esempio, in questo momento mi sto domandando contemporaneamente: ho spento il cellulare o si metterà a squillare a metà intervista? Ho risposto bene a questa domanda? Arriverò in tempo al prossimo appuntamento? Ho un sacco di cose che mi passano per la testa. E questo mi affatica».
Mi sa che è ansia.
«No, o almeno: non so. Io sono una persona che non si analizza tantissimo. Conosco pochissime cose di me».
Mi dica una cosa che fa veramente bene. In un ipotetico esame della vita, in che materia si presenterebbe, signora Buy?
«In lealtà. Sono una persona molto fedele».
Lei dice di essere una donna molto semplice, fatta di pochi strati. Ma mette in scena personaggi sempre complessi, con tante sovrapposizioni e contraddizioni. Come fa?
«Non lo so e non lo voglio sapere».
Questa del “non sapere come si fa” è una cosa tipica degli artisti veri.
«Artista io? Detta così è tanto. Comunque, la cosa funziona così: ti metti lì e il personaggio a poco a poco prende corpo. Entri in qualcuno che non sei, che magari detesti e temi di diventare. Oppure, al contrario: diventi la donna che hai sempre sognato di essere e non sarai mai. Un fantasma che si prende molto di te, ma in qualche modo ti restituisce».
Che cosa le danno i suoi personaggi?
«Prima parlavamo di amiche, ecco io nella vita professionale ne ho avute molte. Sono tutte le donne in cui mi sono trasformata recitando. Mi vivono accanto, mi fanno compagnia. È difficile che mi senta sola, quando sto interpretando qualcuno».
Non riesco a capire se il suo mestiere l’aiuta a conoscere se stessa, oppure se la mette a rischio di perdersi.
«Io non mi perdo mai del tutto in un personaggio, non sono capace. Ammiro le attrici che lo sanno fare, ma per me è impossibile. Per quanto possa essere identificata in un ruolo, sto sempre agganciata, almeno con un angolo della mente, alla mia realtà. Come le dicevo ho un maledetto bisogno di controllare tutto l’esistente».
Strategie antipanico quando lavora?
«Questo cornetto rosso, lo vede? Da quando me lo hanno regalato non me lo tolgo più. Sarà sciocco, ma sento che mi protegge. Ho sempre avuto piccoli portafortuna, c’è stato un periodo che non andavo in scena senza quello che mi rassicurava in quel momento. A costo di precipitarmi a casa a prenderlo, se me lo ero dimenticata».
Com’è il ritorno a casa, dopo una giornata vissuta dentro i panni di un’altra, sul set o in teatro?
«Bello e faticoso. Come per tutte le donne che lavorano. Smetti di fare una cosa e devi esserci totalmente in un’altra. Perché quando hai una figlia, la priorità è tutto quello che la riguarda: ritmi, problemi, banalissime praticità, gioie e dolori».
Giù la maschera di scena e su la pasta al sugo.
«Appunto. La vita».
La vita. Saluto Margherita con la domanda da cui siamo partite: è possibile insegnare ai figli a non averne paura? Lei non ha risposte, io neppure. Non oggi. Domani, di sicuro.