Tonia Mastrobuoni, Affari&Finanza – la Repubblica 4/4/2016, 4 aprile 2016
VIGILANZA BCE, È BERLINO CHE DETTA LE REGOLE. CORSA AD OSTACOLI PER LE BANCHE ITALIANE
I prossimi mesi saranno cruciali per capire che forma sta prendendo la Vigilanza bancaria europea, dopo un esordio poco entusiasmante, soprattutto per il sistema bancario italiano. Per capire perché un tassello così importante dell’integrazione europea stia causando tanti dubbi e malumori bisogna raccontarne la genesi e l’evoluzione, le strutture di comando e i Paesi più influenti e cercare di riflettere maggiormente su come contribuire alla sua traiettoria futura, se possibile. Anzitutto, la genesi. Avviene durante una semifinale degli Europei, il 28 giugno del 2012, quando a Bruxelles si riunisce uno dei vertici più complessi della storia europea, al culmine della crisi dell’euro. In esordio, al quinto piano di Justus Lipsius qualcuno fa piazzare uno schermo perché anche i capi di Stato e di governo possano godersi brandelli di Italia-Germania. La partita è una metafora perfetta dei fronti del vertice, ma anche degli umori in Europa. Quasi nessuno tifa Germania.
Angela Merkel ha accumulato una serie di chiusure sulle questioni più gravi che affliggono l’Eurozona; è potente ma impopolare. Il presidente del Consiglio italiano Monti ha stretto invece una proficua (quanto breve) alleanza con il presidente francese Hollande, fresco di nomina dopo una campagna fortemente anti-tedesca, e il premier spagnolo Mariano Rajoy. Un fronte "mediterraneo" che riesce a piegare le resistenze di Merkel in un momento in cui l’euro sembra sul punto di spezzarsi. Nasce l’Unione bancaria, che intende "rompere il circolo vizioso che lega le banche al rischio sovrano".
I pilastri sono tre: Vigilanza unica, Fondo di risoluzione per le banche in difficoltà, Garanzia comune per i depositi sotto i 100mila euro. Ma dal giorno dopo, quando i mercati cominciano a calmarsi e la sconfitta di Angela Merkel è bruciante, il fine giurista e ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, inizia silenziosamente, sistematicamente a smontare quello storico accordo. Pezzo dopo pezzo, quella vittoria italo- franco-spagnola si tinge dei colori della Germania. In tre anni, la debolezza negoziale dell’Italia contribuisce al risultato di un’Unione zoppa, forgiata secondo principi in sintonia più con le esigenze tedesche o francesi che non con quelle italiane. E anche sulle partite future, Roma rischia nuove, sonore sconfitte.
L’attuale duello a Bruxelles e nel comitato di Basilea su come valutare in futuro i titoli di Stato, è tra chi, come la Germania, è convinto che vadano giudicati come un rischio, e chi, come l’Italia, dove le banche si sono riempite di bond sovrani, soprattutto negli anni più acuti della crisi, invece è contraria a questa misura. Già nell’autunno del 2008, poco dopo Lehman Brothers, quando il sistema bancario europeo rischia di collassare, Merkel cita Goethe, durante un incontro con Nicolas Sarkozy: "Ognuno deve spazzare davanti alla propria porta". E’ il sunto vero della filosofia tedesca. Vigilanza sì, entro certi limiti, ma sui salvataggi ognuno fa per sé. E la Germania ha dato il buon esempio: 144 miliardi spesi per le sue traballanti banche (il 5,3% del Pil), contro i 7,95 miliardi dell’Italia (lo 0,5% del Pil) o i 26,3 miliardi della Francia (l’1,3% del Pil). E il fondo europeo sui piccoli depositi? Possibilmente mai, sussurrano a Berlino.
Dopo quel G2, Sarkozy traduce la filosofia merkelian-schaeubleiana sulle banche in modo decisamente meno elegante ma efficace: "A chacun sa merde". La prima impronta tedesca è il raggio di azione della Vigilanza. Fuori le banche piccole - tradotto: le Landesbanken e Sparkassen, irrinunciabili mangiatoie politiche che restano sotto l’ombrello di Bundesbank e Bafin - e principio del "bail in" per chi fallisce. "Non bisogna più coinvolgere i contribuenti", è il mantra di Schaeuble: se una banca va male, pagano azionisti, obbligazionisti e risparmiatori. I salvataggi pubblici, in teoria, sono ridotti al minimo.
Nella selezione vengono identificati 120 gruppi maggiori che incorporano circa 1.200 istituti (su 6mila) e valgono l’85% degli asset dell’eurozona. Sono stati scelti secondo alcuni criteri fissi: 97 per la grandezza (hanno asset superiori a 30 miliardi di euro), 13 per il peso economico (valgono oltre il 20% del Pil del loro Paese), 3 perché gruppi sovrannazionali, mentre altri 7 sono stati selezionati perché sono tra i tre istituti più importanti del Paese. Prima di avviare la Vigilanza, a fine 2014, la Bce è chiamata a svolgere un accurato esame dei bilanci e uno stress test sulle banche europee. Ancora una volta, lo zampino tedesco è palese. Certo, sono i primi passi, la Bce compie un piccolo miracolo riuscendo a organizzare in pochissimo tempo un’operazione così complessa. Ma il risultato è chiaro, ben riassunto dall’economista della Cattolica di Milano, Angelo Baglioni: "L’adesione molto piatta ai criteri di Basilea III ha portato ad una penalizzazione delle banche commerciali rispetto a quelle che fanno più attività di investimento. I crediti deteriorati o i bond governativi sono stati valutati più severamente che il leverage o i derivati".
L’esame ha chiuso un occhio su istituti imbottiti di complessi strumenti finanziari come le banche tedesche o francesi, ed ha mostrato la faccia feroce con quelle italiane, gravate da sofferenze, anche a causa dell’interminabile crisi. In un libro in uscita per Palgrave/ Macmillan, "The European Banking Union", Baglioni fa un’interessante simulazione. Con i parametri usati allora, alle banche italiane è stato diagnosticato un ammanco di 9,7 miliardi; alla Grecia 8,7; alla Germania 0,2; alla Francia 0,1, per adeguarsi alle richieste della Bce. Se si calcolasse lo stesso "buco" prendendo a riferimento il leverage e una soglia del 4% di capitale, il quadro si rovescerebbe: contro 1,9 miliardi di euro in Italia e zero in Grecia, in Germania si aprirebbe una voragine da 14,82 miliardi, in Francia da 21,17 miliardi. Il 4 novembre del 2014, poco dopo quell’esame preliminare che ha sanzionato soprattutto il sistema creditizio italiano, è partita la Vigilanza bancaria, con una squadra di nomi dalle biografie solide e internazionali. Ma il dubbio è che, nell’attuale, faticosa convergenza delle regole e delle metodologie, non abbia ancora abbandonato il suo mantello tedesco.
La metodologia applicata alle analisi delle banche, lo Srep, è ad esempio problematica perché nel suo esame della liquidità, del capitale, della governance e della gestione dei rischi offre ancora enormi margini di discrezionalità. Un effetto collaterale della vigilanza più stretta, peraltro, aggravato dai margini interpretativi troppo ampi dello Srep, è che per paura di avere "cuscinetti" inadeguati, gli istituti banche aggravino l’attuale tendenza a tenersi stretti i soldi. Insomma, mentre Draghi inonda di liquidità il mercato per invogliare le banche a rimettere denaro in circolo, la Vigilanza ottiene l’effetto opposto. A capo del SSM, come si chiama in gergo, c’è il comitato esecutivo (ma il via libera definitivo per ogni decisione spetta al consiglio direttivo della Bce); a presiederlo è stata chiamata l’ex numero uno dell’Autorità di vigilanza francese Danielle Nouy; vicepresidente è Sabine Lautenschlaeger, membro del board Bce ed ex vice della Bundesbank. Nel direttorio siedono anche 4 rappresentanti della Bce, tra cui l’italiano Ignazio Angeloni, e un partecipante delle banche centrali per ogni Paese membro. Chi prepara materialmente i rapporti sulle singole banche sono 120 squadre miste di ispettori e analisti della Bce e delle banche centrali nazionali chiamate "Joint supervisory team" (Jst). Possono variare nella grandezza, da 3 a 80 componenti, a seconda della rilevanza delle banche. Il coordinatore è un esponente della Bce e, possibilmente, di nazionalità diversa rispetto alla banca esaminata. Il vice è un rappresentante della banca centrale nazionale. Le ispezioni direttamente nei siti prevedono che il capo della squadra non sia mai un rappresentante Bce. Nel Ssm ci sono quattro direzioni generali: la prima esprime 30 squadre Jst, una per ognuna delle banche maggiori; le altre 90, più piccole, sono sotto il controllo della seconda. A capo della prima c’è un tedesco, Stefan Walter, la seconda è guidata dallo spagnolo Ramon Quintana. La terza direzione generale è quella che si occupa degli istituti minori, controllati indirettamente dalla Bce e direttamente dalle banche centrali. Il capo è il finlandese Jukka Vesala. Infine, la quarta direzione generale è quella che garantisce il supporto orizzontale delle squadre ispettive. E anche qui, il capo è un tedesco: Korbinian Ibel. Dunque due tedeschi su quattro a capo delle maggiori direzioni generali. Non male.
TONIA MASTROBUONI, Affari&Finanza – la Repubblica 4/4/2016