Michele Dalai, SportWeek 2/4/2016, 2 aprile 2016
PER LA MAGLIA IO DO TUTTO
[Alessandro Cattelan]
Uno che lo conosce bene ha detto che guardarlo lavorare è come assistere a una partita felice di Ronaldinho. Sulle prime ho pensato che il paragone fosse un po’ forzato, un esame superficiale direbbe che Alessandro Cattelan da Tortona e Ronaldinho de Assis Moreira hanno in comune solo l’anno di nascita e il fatto di aver trovato la gloria (anche) a Milano. Ma più osservi Alessandro all’opera e più ti rendi conto che non solo è un talento naturale come il suo coetaneo Gaúcho, uno di quelli a cui viene tutto facile, ma è anche baciato dal grande dono della leggerezza, la capacità rara di fare le cose divertendosi e senza mai drammatizzare il contesto e prendere troppo sul serio il proprio ruolo. Viene dai canali musicali Alessandro, arriva da lontano. Prima VIVA e All Music, poi MTV. Nel mezzo tanta radio, 105 e Deejay le ultime e più prestigiose, e l’approdo a Sky in un ruolo che fino alla sua interpretazione era sempre e solo stato di contorno: il presentatore di X Factor. Facile a scriversi, facilissimo a dirsi ma molto complesso quando tocca farlo, conciliare personalità debordanti come quelle dei giudici e talenti nervosi ed emergenti come quelli dei concorrenti, il tutto senza perdere di vista la vera natura delle cose, il senso profondo dell’intrattenimento. Da lì il decollo verticale che lo ha trasformato in uno dei volti più amati della televisione italiana, gradito a generazioni diverse, e che gli ha permesso di pensare, costruire e condurre un format tutto suo, quell’E poi c’è Cattelan (#EPCC), che si ispira ai migliori late night show americani senza però limitarsi al plagio di formula e battute. Alessandro ci mette del suo, come ha sempre fatto e come forse ha imparato a fare tanti anni fa sui campetti di provincia. Perché Cattelan è un tifoso ma soprattutto uno sportivo, uno di quelli convinti che ci siano lezioni che si apprendono con l’esperienza del gioco e della competizione e che formano il carattere, che costruiscono gli adulti. Lo abbiamo incontrato in occasione di una ricorrenza importante per la Gazzetta, per parlare di vita, sport, calcio e Inter. Non necessariamente in quest’ordine...
In genere i sogni si lasciano in fondo, per il gran finale. Quelli e i progetti per il futuro. Proviamo invece a partire proprio da lì. Potessi scegliere, preferiresti condurre la cerimonia degli Oscar o giocare la finale di Champions League?
«Giocare la finale di Champions senza pensarci un secondo. Qualcuno ricorda la canzoncina della cerimonia degli Oscar? Vedi che la risposta è semplice».
Quando leggi di sport cosa ti piace leggere?
«L’epica dei grandi duelli, tipo Magic Johnson contro Larry Bird, o anche le biografie di quelli che sono riusciti a diventare campioni e a coronare il loro sogno contro tutti e contro ogni pronostico, come Roberto Baggio che è stato quello che è stato nonostante i terribili infortuni e una carriera intera giocata su una gamba sola. Insomma, mi piace quando lo sport diventa vita».
Hai mai giocato a fare il telecronista? Chi è quello che stimi di più e pensi che possa avere influenzato il tuo stile di conduzione?
«Io e un mio amico d’infanzia, Dery, facciamo interminabili sessioni di telecronache notturne delle nostre partite a Fifa. A volte ci piace interpretare Caressa e Bergomi, altre ci ispiriamo più genericamente alla scuola romana. Siamo arrivati a un tale livello di immedesimazione che spesso facciamo anche le interviste post partita. Parlando di cose serie, i miei commentatori preferiti sono Lele Adani, una meraviglia da ascoltare, e Paolo Di Canio».
Hai giocato a calcio a livello semiprofessionistico, sei un tifoso appassionato, com’era il calcio dei grandi visto da lontano?
«Fino a quando ho giocato seriamente il calcio dei grandi l’ho visto come una chimera, ma al tempo stesso come qualcosa di potenzialmente molto vicino. In fondo giocavo con dei veri guardalinee, mi allenavo tutti i giorni, andavo in ritiro e facevo le trasferte con il pullman della società. Sul giornale locale uscivano le cronache delle nostre partite, con tanto di voti in pagella».
Ora che conosci i giocatori e che spesso sei anche più grande di loro, è cambiata la tua prospettiva?
«C’è questa cosa strana che i giocatori mi sembrano sempre più grandi di me, tutti più adulti. Prendi Franco Baresi: anche quando aveva 30 anni mi sembrava un signore di una certa età, una specie di nonno e nonostante io ora sia più vecchio di lui quando giocava, se rivedo quelle immagini provo la stessa sensazione. Ora ho amici che giocano e hanno 22 o 23 anni, ma se non ci sto attento rischio di dargli del lei...».
Sei cresciuto a pane, Bergomi e Rummenigge, cosa pensi della generazione dei calciatori “social” divi?
«I giocatori devono ricordarsi che, a torto o a ragione, sono considerati dei privilegiati da persone che vivono tutta la settimana in attesa di quei 90 minuti, della partita che sentono come un’isola felice. Se perdi non puoi postare una foto di te che ridi al ristorante con gli amici. Assurdo ma è così, e spesso i ragazzi non ne tengono conto».
Parliamo di Gazzetta, ognuno di noi ha una copertina, qual è la tua?
«Le mie preferite le custodisco gelosamente a casa e sono quelle della vittoria dei Mondiali del 2006 e quelle del triplete dell’Inter. Se posso muovere una piccolissima critica da collezionista, quella del triplete mi è parsa un po’ meno celebrativa di quanto avrebbe potuto essere».
Cosa ti ha insegnato la pratica sportiva, la applichi nella tua professione?
«Provo sempre a fare dei paragoni tra quello che mi capitava di vedere giocando a calcio e quello che faccio adesso, perché poi i punti di contatto sono molti, proprio partendo dal fatto che sono situazioni in cui il concetto fondamentale è il gruppo. Credo che sia stato importante imparare a gestire uno spogliatoio, sia nel bene che nel male, la capacità di fare gruppo, di fare squadra e quando è necessario anche di rompere l’armonia».
Potessi intervistare un tuo eroe sportivo, chi vorresti intervistare (a parte Zanetti, con cui ti è già capitato)?
«Sì, Zanetti l’ho intervistato, un altro che faceva parte della mia lista e che sono riuscito ad avere come ospite è Valentino Rossi, tra quelli rimasti sicuramente ci sono Mourinho, Michael Jordan e Ibrahimovic, che deve essere tosto ma mi sembra una persona molto divertente».
È difficile conciliare la tua vita da personaggio pubblico con quella del tifoso? Quanto ti mordi la lingua e quanto riesci a essere sincero?
«Su Twitter e sui social network in genere tendo a non scrivere nulla, ma non perché le mie esternazioni potrebbero essere scomode, è che quando parli di calcio in pubblico, quando ti esprimi su un argomento che pur così futile sta a cuore a tanta gente, tutti devono esprimere opinioni definitive. Qualunque cosa tu scriva sei destinato a ricevere risposte stupide o aggressive e so che finirei per innervosirmi e litigare, quindi in genere preferisco risolvere la questione a monte e tacere».
Come riesci a essere il più funambolico dei gregari a X Factor e il più bravo dei conduttori a #EPCC?
«Sono due progetti che chiedono gestioni completamente diverse, ma è anche divertente fare un po’ di tutto e comunque sono convinto che non si possa essere leader se non si conosce a fondo il lavoro del gregario. Lavorare in gruppo e faticare per gli altri è bello perché è solo così che ti guadagni la fiducia quando è il tuo turno di guidare».
In campo preferivi metterti al servizio dei compagni più talentuosi o essere tu protagonista?
«In campo, come a tutti, mi sarebbe piaciuto essere protagonista come quelli davvero talentuosi. Ma ci mettevo grinta e spirito, ero un difensore e di momenti di gloria, cioè i gol, me ne capitavano veramente pochi».
Tre cose che ami dello sport italiano?
«Amo lo sport italiano ma se dovessi dirti tre cose non mi verrebbero perché in tutte le discipline che mi piace seguire ho il timore che se fossi nato all’estero avrei potuto goderli molto di più, di vivere in una cultura sportiva diversa e un po’ meno chiusa e tifosa».
Le tre cose che cambieresti?
«La prima cosa da migliorare è la possibilità di accesso, di fruizione dello sport in Italia. Mi sembra che le strutture siano nella maggior parte dei casi, e salvo rare eccezioni come lo Juventus Stadium, davvero vecchie e inadeguate e questo vale per stadi e palazzetti. Un’altra cosa che non amo è la scia polemica o anche solo il chiacchiericcio che segue gli eventi, amo lo sport nel momento in cui le cose accadono, il resto mi pare inutile».
Come vivi le montagne russe dell’Inter di questi anni?
«Le vivo bene quando la carrozza sale e molto male quando precipita e purtroppo negli ultimi anni sono state più le discese che non le risalite. Però se dovessi fare un bilancio delle ultime 10 stagioni resta ovviamente molto positivo e io resto fiducioso per il futuro, anche quello immediato».
Cosa ti piacerebbe avere di José Mourinho (il conto in banca non vale)?
«Tutto, la mourinhite è una bellissima malattia. Carisma, intelligenza, sfrontatezza... Però è inutile voler essere come Mourinho: o sei lui o tanto vale rimanere quello che sei e provarci a modo tuo».
Sei più affascinato dall’epica dei generosi ma scarsi o dai talentuosi discontinui?
«In realtà da nessuna delle due categorie. Mi innervosiscono molto sia i generosi che non riescono a combinare nulla sia quelli dotati di grande talento che ti fanno incazzare due partite ogni tre. Sono amante di quelli che ottengono i risultati grazie alla generosità in una sorta di unione mistica con il talento. Amo la generosità, ma deve portare dei risultati, non a caso i miei idoli sono stati Nicola Berti, Paul Ince e il Cholo Simeone, generosi ma molto concreti».
Continui a giocare a calcio, sei un difensore rude, come sono cambiate le persone nei tuoi confronti da quando hai ottenuto la vera popolarità?
«La cosa che è cambiata veramente è che al livello a cui giocavo, campionati in cui i pochi tifosi raramente conoscevano i nomi dei difensori avversari e quindi potevano insultarti solo in maniera generica, io ero un’eccezione. Conoscevano e conoscono il cognome e l’insulto è diventato ad personam, anzi ad familiam perché ci mettono molto impegno, ma è una cosa che comunque ha un valore per uno che avrebbe voluto fare il calciatore, un modo per avvicinarsi all’esperienza di quelli veri. La prendo con un sorriso».
Hai un sogno sportivo ricorrente, tipo dover giocare una partita importante e non riuscire a trovare la sacca?
«No, quello sarebbe un incubo! Ma ti confesso che spesso sogno di giocare a calcio, senza che ci sia un significato o un evento particolare, solo la sensazione di essere su un campetto. Forse succede anche perché gioco sempre meno».
Hai due figlie, diciamocela tutta: hai già pensato al loro futuro nel calcio femminile?
«Chiaro che sì! La mamma per adesso non è tanto d’accordo, ma tra le altre cose ho la fortuna che siano nate in Italia ma hanno anche passaporto tedesco ed eventualmente brasiliano: sono tre nazionali molto forti, se scelgono di giocare a calcio sono convinto che almeno una Coppa del Mondo me la portano a casa».
Il complimento migliore che tu abbia mai ricevuto, da calciatore e da personaggio televisivo?
«In realtà coincidono. Dicono che di me, quando manco, si sente la mancanza. Un complimento un po’ morettiano ma molto bello. Meglio ancora, dicono che quello che so fare si percepisce ancora di più quando non sono io a farlo».
Procediamo a stilare la tua pagella da calciatore.
«Destro 6, sinistro 4,5 e testa 7, sia come colpo che come capacità di ragionare».
È l’estate delle Olimpiadi, le segui?
«Le seguo eccome. Ricordo da bambino di aver amato la nazionale di volley di Lucchetta, Zorzi e Giani e le loro partite epiche, quella con l’Olanda in particolare. Ricordo bene anche le medaglie di Federica Pellegrini. Nel 2012 ho avuto la fortuna di essere a Londra e assistere dal vivo alla maratona ed è un ricordo meraviglioso, molto emozionante».
Partecipare o competere sempre per vincere?
«Partecipare, ma per vincere. Se partecipo a un gioco lo faccio per vincere, almeno come atteggiamento. Poi perdere non è un dramma, ma se giochi lo fai per vincere, anche al campetto o a calciobalilla. Altrimenti preferisco stare a letto e dormire. Il che fa anche un po’ ridere perché a #EPCC organizzo sfide diverse a ogni puntata e non ne vinco mai una, ma vi giuro che gioco per vincere».
Cosa pensi del giornalismo sportivo italiano?
«Credo che abbia i problemi del giornalismo italiano in genere e cioè che comandano i titoli e per avere i titoli spesso si forzano le situazioni. Amo molto il giornalismo che fa analisi, che interroga i fatti e li spiega».
Chiedi scusa a quell’avversario a cui...?
«Sono tanti. Mai per nulla di particolarmente grave ma di stecche ne ho date via un bel po’, quindi approfitto di questa intervista per farlo: se la state leggendo mi scuso dei lividi e delle botte. Insisto, mai gravi e con cattiveria, ma parecchie».
La formazione che ricordi a memoria?
«Julio Cesar, Maicon, Lucio, Samuel, Chivu, Zanetti, Cambiasso, Eto’o, Sneijder, Pandev, Milito».
Da giocatore sei mai finito sulle pagine della Gazzetta?
«No mannaggia, manco una volta, e resta un grande cruccio temo irrecuperabile, una spunta che non farò sulla lista di cose da fare nella vita».
Raimondo Vianello ha giocato fino agli 80 anni. Ti stuferai mai del calcio?
«Non mi stuferò mai di giocare e anch’io sogno di arrivare a tirare un rigore nel Derby del cuore a 80 anni come lui, a San Siro. Sarebbe una gioia immensa».
Porti le tue figlie allo stadio?
«Olivia non ancora, Nina c’è stata da piccolissima e ora aspetto il caldo per riportarcela, anche perché per lei ogni volta che vede qualcuno che gioca a calcio sostiene sia l’Inter e quando vede da lontano lo stadio mi dice sempre che quella è la casa dell’Inter, quindi comincia ad avere le idee chiare».
Vivi a contatto con giovani cantanti di talento. Quanto è difficile trovare il talento nello sport? Credi anche tu che questa generazione di atleti italiani sia così fragile?
«Il talento nello sport è più facile da trovare anche perché è molto meno arbitrario, molto più semplice da individuare. Un cantante può essere bravissimo e non piacere a nessuno, mentre per un calciatore o un corridore la prestazione può essere misurata con criteri oggettivi».
A guardarti a #EPCC pare che tu ti diverta come un matto, è vero e se sì quanto conta per il risultato finale?
«Per fortuna è vero, mi diverto come un matto e a #EPCC è fondamentale perché poi alla fine tutto si riduce alla dimensione del gioco, anche le chiacchiere e le interviste hanno quel senso e senza divertirsi non starebbero in piedi, il processo intero sarebbe fallimentare».
Tre cose che ti piacerebbe dicessero di te?
«Te ne dico una e torno a un paragone calcistico. Mi piacerebbe dicessero che sono uno che ha sempre dato tutto per la maglia, qualunque sia la maglia di cui si parla».