Andrea Laffranchi, Sette 1/4/2016, 1 aprile 2016
ZUCCHERO: «PAVAROTTI, BONO, STING. IO SONO COME IL BIMBO CHE SI ESALTA A STARE COI GRANDI. L’UNICO NO? IL MIO, I QUEEN VOLEVANO CHE SOSTITUISSI FREDDIE MERCURY»
Un piatto di spaghetti con Bono, il battesimo della figlia di Sting, una briscola con Pavarotti. Una chiacchierata con Zucchero è una sequenza di istantanee del dietro le quinte della storia del rock. Non sono scatti rubati con un telefonino, trofei di caccia alla star da esibire per farsi belli, ma momenti di carriera e vita vissuta.
Zucchero è il più internazionale dei nostri artisti, l’unico con un pubblico anche nell’ostica Inghilterra, 60 milioni di dischi venduti nel mondo e amicizie che contano. Anche nell’ultimo disco, si chiama Black Cat e uscirà il 29 aprile, c’è il ritorno di un grande amico come Bono degli U2 che ha scritto il testo di Sos-Streets of Surrender su cui suona la chitarra di Mark Knopfler. «Bono mi aveva promesso un testo anche per questo album. Preso dal tour mondiale con gli U2 non si era fatto più sentire e io non avevo voluto insistere. All’indomani degli attentati di Parigi, che avevano portato all’annullamento dei loro concerti nella capitale francese, mi chiama e mi dice che aveva un’idea».
La canzone di che cosa parla?
«Di una persona che dice di essere venuta non per seminare odio, ma amore e orgoglio. C’è un riferimento a un bimbo che muore sulla spiaggia, ma anche a un bimbo nato nella mangiatoia. Mi ha emozionato».
In radio adesso si sente Partigiano Reggiano, brano in stile Zucchero tutto da ballare. Il testo gioca con le parole, ma la parola che più ricorre è «libero».
Com’è nato?
«Quella è la cultura con cui sono cresciuto: in quell’Emilia rossa i partigiani, sebbene abbiano messo in atto anche cose discusse, erano figure che avevano difeso chi soffriva sotto un regime totalitario».
Lei è nato nel 1955 a Roncocesi, in provincia di Reggio Emilia. Quell’epoca l’ha vissuta dai racconti. Che cosa si ricorda?
«Sono nato che la guerra era finita. I partigiani erano considerati salvatori che avevano lasciato le famiglie per combattere. Un po’ come Cienfuegos, Che Guevara e Fidel a Cuba. Poi avevano quei nomi di battaglia che per un ragazzo erano un’immagine forte».
C’è una parola incomprensibile nel testo: “slémpito”. Che cosa vuol dire?
«È un termine dialettale che indica energia, coraggio, autostima... “stamattina ti vedo con poco slémpito”. Amo il suono di molte parole dialettali. Penso a pupìta, una malattia che colpisce le zampe delle mucche e ad altri vocaboli».
Altro suono di parola, altro campanello d’allarme: “La bestia umanica bang bang”...
«Non sono l’unico a pensare che il mondo sia malmesso. Tutte le guerre nascono da queste differenze di religione, ma il mondo dovrebbe essere un cuore unico che batte. Lo aveva già detto, prima e meglio di me, John Lennon».
Rispetto ad allora il rock ha perso per strada l’impegno. Che cosa è successo?
«La funzione del rock oggi non ha più lo stesso significato che aveva negli anni Settanta, di qualcosa che andava contro il sistema. Tutto è diventato politicamente corretto. Io continuo a pensare che chi fa musica abbia la funzione di segnalare certe cose. In questo album ci ho messo anche dei contenuti, magari raccontati con dei doppi sensi. Voglio essere realistico senza colorare troppo, ma anche senza essere troppo romantico, il momento che viviamo».
Bono la chiama e scrive per lei. Ha una rubrica piena di contatti di star internazionali. Chi è stato il primo a credere in Zucchero?
«Miles Davis. Era il 1988 ed ero in vacanza alle Maldive per cercare di salvare il mio primo matrimonio. All’improvviso mi contatta Mimmo D’Alessandro, promoter di Miles Davis. Mi dice che il trombettista era a Viareggio e ascoltando Dune Mosse aveva avuto l’idea di farne una sua versione. Però avrei dovuto mollare le vacanze e andare subito a New York per registrare».
Che cosa scelse?
«Andai, ormai il matrimonio era perso... In studio mi misi al pianoforte. Appena arrivò mi disse: “Che cosa stai suonando? La canzone è in un’altra tonalità”. Forse ricordava male, mi salvai dicendogli che forse l’aveva sentita da un nastro rovinato. Mi mise due dita alla gola: “I love your voice”, amo la tua voce. A fine registrazione, ridendo, mi scappò uno sputo e gli arrivò in faccia. Se ne andò. Pensavo si fosse offeso e fosse saltata la nostra cena. Mi fecero salire su una limousine e, sedendomi, mi accorsi che c’era anche lui. Lo avevo schiacciato! Era tutto vestito di nero, con il cappello nero in una macchina nera e buia».
Nel 1989, Eric Clapton che le regala un assolo per Wonderful World pubblicato su Oro, incenso e birra. Come entra nella sua vita?
«Eric mi ha aperto le porte dell’Europa portandomi in tour con lui nel 1990. Gliene sarò sempre grato. Lo conobbi tramite Lory Del Santo, allora sua compagna, che era mia fan. Andammo a cena a Milano in Brera. Tre giorni dopo sarei partito per Memphis per registrare Oro, incenso e birra e gli lasciai i provini invitandolo a suonare qualcosa su quello che più gli piaceva. Mi chiamò, quasi a fine progetto, e mi disse di passare in studio da lui a New York».
Nei due anni successivi arrivano il duetto con Paul Young per Senza una donna che va al numero uno in mezza Europa, e l’invito di Brian May, chitarrista dei Queen, per una serata tributo a Freddie Mercury. Se lo aspettava?
«Ero nella depressione più profonda, la mia vita privata era distrutta e nel frattempo mi succedevano queste cose inimmaginabili. Ricordo che quando Oro, incenso e birra uscì in Inghilterra, a Londra c’erano i poster con la mia faccia e uno slogan che diceva: “Non solo Schillaci, Pavarotti e Puccini sono dei grandi italiani”».
Che cosa ricorda di quel periodo buio?
«Mi ero separato. Non sapevo più dove stare. Nella casa di Carrara avevo troppi ricordi, avevo provato a tornare dai miei a Reggio Emilia, ma mio padre, che non aveva capito che avevo già una carriera, mi svegliava alle 6 per lavorare nei campi. Una sera, in una pizzeria una signora ascoltò i miei discorsi disperati con un amico e mi offrì una casa sulla spiaggia di Marina di Pietrasanta. Una sistemazione piccola e intima all’interno del bagno Eldorado. Portai chitarre e registratore per lavorare a un nuovo disco e vidi che iniziavo a stare meglio. Sono legato a quella casa: le telefonate di Brian May e quelle della casa discografica inglese mi arrivarono lì. Vivevo con Olmo, un bastardino, e giravo in bicicletta. Fu una prova difficile: per la prima volta vivevo da solo. Scrissi Miserere dopo una notte allegra con il mio amico di Videomusic Rick Hutton, delle ragazze incontrate in un ristorante messicano e qualche tequila bum bum di troppo. Dopo la cena eravamo in giro con una macchina cabrio con Nessun dorma e la voce di Pavarotti a volume sparato. Un paio di giorni dopo mi arrivò l’ispirazione per quel brano».
Però non aveva ancora Pavarotti...
«La canzone era così diversa dal mio passato che non la feci sentire subito al mio manager Michele Torpedine e al direttore artistico della casa discografica Bruno Tibaldi. Solo alle insistenze di Tibaldi tirai fuori il provino dove io stesso facevo la parte del tenore. A loro piacque, ma per me non c’entrava nulla con il disco: dissi che l’avrei registrata solo in duetto con Pavarotti. Registrammo un provino con Bocelli, scoperto nei pianobar, e loro volarono a Philadelphia da Luciano. Lui ringraziò ma rispose picche».
Deluso?
«Decisi di insistere. Qualche settimana dopo lo chiamai a casa in Italia e lui m’invitò per una briscola. Quel pomeriggio gli dissi che senza di lui la canzone non aveva senso di esistere e buttai il nastro nel camino acceso. “Sei pazzo! Non si fa così! È una bella canzone, ma anche se volessi farla, avrei l’agenda piena. Ho libero solo il 19 agosto”».
Posso immaginare dove si trovasse Zucchero il 19 agosto 1992...
«Nella residenza estiva di Luciano a Pesaro ovviamente. Registrammo il pezzo nel salotto portando uno studio mobile. Lui non era abituato a cantare su una base e io ero al suo fianco per dargli gli attacchi con un pizzico al braccio e gli stop schiacciandogli il piede. Si divertì come un bambino a girare il video e sulla via del ritorno a casa ci fermammo a fare una merenda a base di pane e salumi. Su una carta gialla da macellaio che ancora conservo nacque il progetto benefico del Pavarotti & friends. La prima edizione fu un disastro: la pioggia trasformò la location in un campo di fango e lui si esibì in playback perché aveva paura di perdere la voce in vista di un imminente debutto al Met. Si fece costruire un microfono per nascondere la bocca ma le telecamere furono impietose. La Bbc non la prese bene... Poi la manifestazione decollò: sono orgoglioso di aver preso parte a 11 edizioni su 12».
Miserere ci riporta a Bono. Come arrivò a lui per scrivere il testo in inglese?
«Chiesi di avere un poeta, non uno che traducesse e basta. La casa discografica provò con Bono che accettò e mi mandò una lettera che ancora conservo: “La tua voce sembra una sezione di fiati”. Da allora siamo amici».
Com’è il Bono privato?
«È un irlandese generoso, mai arrabbiato, una persona intelligente e genuina. Una volta a casa sua a Dublino, una casa d’epoca a strapiombo sul mare con pavimenti antichi, poltrone di pelle vissute e senza inutili lussi, per farmi sentire a mio agio mi cucinò spaghetti aglio, olio e peperoncino e stappò vino italiano».
Voto al cuoco?
«La pasta era decente».
E Sting?
«Prima che acquistasse il Palagio nel Chianti, stava in affitto nella splendida tenuta della contessa Salviati a Migliorino Pisano. Un amico comune, il fotografo Robert Gligorov, mi invitò a una festa. A uno che ha tutto, come lui, regalai il set di moke per fare il caffè: in Inghilterra non si trovava facilmente. Sting e Francesca, allora mia fidanzata, passarono il pomeriggio a sfidarsi con lo sci nautico: lei è stata campionessa, io manco mi sono attaccato al motoscafo... La sera a cena seduto a fianco a me c’era Miles Copeland, suo manager che poi sarebbe diventato anche il mio. Fu scontrosissimo, diceva che un italiano non poteva fare blues e Sting mi difese facendogli ascoltare un mio disco. Ci fermammo a dormire e il giorno dopo mi chiese di fare il padrino al battesimo di sua figlia Coco: “Mi sembri genuino, uno di cui ci si può fidare”. Negli anni mi ha dimostrato generosità: a ogni mio invito ha sempre risposto senza chiedere nulla in cambio».
La ricetta per conquistare la fiducia di una rockstar?
«Credo di saper far nascere una chimica. Sono rapporti taciti, non c’è competizione. Loro sono più grandi e famosi e capiscono che non ne voglio approfittare. Sono davvero genuino. A me non interessa essere quello che brilla meno, sono come un bimbo che si esalta a fare una cosa grande».
Qualcuno le ha mai detto no?
«Ho detto un no io. A un amico come Brian May. Mi chiese di sostituire Freddie Mercury dopo la sua morte. Impossibile. Non tanto per la voce che è diversa dalla mia, ma per il carisma. Brian non se l’è presa. Ha capito che era un fardello troppo pesante per me».
Con i colleghi italiani ha meno feeling?
«Stimo Vasco, De Gregori e Ligabue. Ma quando fai un progetto qui in Italia nessuno risponde mai con un sì o un no netti. Per il concerto Zu&Co del 2004, alla Royal Albert Hall di Londra, avevo invitato tanti italiani. Mettevano condizioni su condizioni e alla fine mi dicevano che 20 giorni per prepararsi non gli bastavano. Hanno paura di osare. Bono e Clapton mi hanno portato a duettare sul palco dicendomelo quando andavo a salutarli in camerino poche ora prima dello show. I duetti fra cantanti oggi mi sembrano più una cosa di marketing che un’esigenza artistica, mi sembrano consumati».
Guardiamo al futuro. A settembre, a Verona, debutto il 16, farà dieci concerti all’Arena. Che cosa ci dobbiamo aspettare?
«Sto mettendo assieme la miglior band che abbia mai avuto. Sto cercando dei fuoriclasse da affiancare al nucleo storico. Anche perché per questo tour in Europa farò posti con capienza doppia rispetto al precedente. Da me il pubblico si aspetta qualcosa di diverso da scenografie e spettacolo. Riarrangerò tutto il repertorio con le sonorità del nuovo disco che sono dark, crude, rustiche, rugginose e viaggiano fra rock, blues e un country sofisticato».
Il titolo dell’album è Black Cat, ovvero gatto nero. Superstizioso?
«Mi è sempre piaciuto il suono di quelle parole. Tra i neri di Memphis e di New Orleans è un saluto, per loro il gatto nero è di buon auspicio. E, rivolto alle donne, indica una cosa che mi piace ancora (ride)».
La copertina è un suo ritratto in stile voodoo. Da dove arriva l’ispirazione?
«Una scelta fra sacro e profano. C’è molto di cinematografico, dal Tarantino di Django a 12 anni schiavo a Il colore viola. Quando mi metto a scrivere un album ho bisogno d’immaginarmi un paesaggio, dei colori e delle situazioni che mi aiutino a chiarire le idee».
All’estero lancia il disco con una traccia diversa, Voci. Perché?
«Ho sempre lasciato libertà di scelta ai mercati internazionali. Black Cat ha un’energia che sta fra il blues e Oro, incenso e birra. Nei pezzi veloci c’è un ritorno al rhythm & blues, nelle ballad è figlio di Chocabeck da cui continuano a uscire le mie radici. Le voci del titolo sono quelle di storie di Po, fra bar e oratorio, cooperativa e preti, è la voce di mia mamma che mi manca tanto. Sono voci contro le urla arroganti di questi giorni».